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Restauro e manutenzione della Chiesa di San Rocco

Fonte immagine: Un popolo in cammino – disegno di A. Vanzini

Pubblicato su Un popolo in cammino nel 1992

La Chiesa di San Rocco è parte della parrocchia di Jerago. Manutenzione e conservazione sono di stretta competenza della parrocchia. Naturalmente al Parroco don Angelo si affianca il “Comitato di San Rocco”, per massima parte composto da volontari del Rione, che attraverso varie iniziative si preoccupa di raccogliere quanto necessario per le ristrutturazioni.

Ora e´stata restaurata la Madonna del Carmine. E´desiderio vivo piu´volte espresso da quanti amano San Rocco ripristinare l´intonaco in calce, nel quale le tonalita´beige, bianco sporco erano date non solo dalla vetustà, ma dal tipo di sabbia (quella locale che si trova nelle piccole cave dei nostri boschi e che era di tono beige-ruggine); mettere in evidenza tutti gli elementi di mattone, perche´proprio Jerago era sede di importanti  fornaci; ripristinare il vecchio altare con pala al centro in considerazione della originale dedicazione al Santo.

L´attuale vista dell’abside con un effetto peraltro molto bello, non è quella voluta dall’  originale pietà popolare.  Si verrebbe così a ricreare quella caratteristica penombra, propria degli ambienti settecenteschi, molto più invitante alla meditazione.

L´eliminazione poi, dell´attuale massiccio altare postconciliare ridarebbe equilibrio a tutto l´insieme.

Storia della Chiesa di San Rocco

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Mese di Aprile

dipinto raffigurante San Giorgio e il Drago realizzato dal Sig. Gianfranco Battistella per la Chiesa Vecchia di San Giorgio restaurata – si notino ai lati le raffigurazioni degli ex parroci don Remo Ciapparella e don Angelo Cassani

Tratto  da ” Le ricette della Nonna -cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose – nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940”, a cura di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti, Tipografia Moderna, Collana Galerate, Gallarate, 2000

Celebrate le festività pasquali troviamo la Festa del S. Patrono: “ ul San Giörg”.

L’effigie del patrono a cavallo che uccide il drago contrassegna le nostre campane, appariva bellissima sulla facciata della vecchia parrocchiale, nel grande affresco del Tagliaferri, rimane ancora sullo Stendardo dei Confratelli, sulla croce Capitolare, ed è affrescata sulla volta della chiesa nuova dal pittore Orsenigo e sul quadro ad olio dell’ingresso laterale . Come non ricordare il San Giorgio della bandiera bianca della Unione Giovani Cattolici . Nel 1931 per ordine ministeriale, tutte le associazioni cattoliche nazionali dovettero essere sciolte, i dirigenti furono diffidati dallo svolgere attività e fu imposta la consegna dei simboli all’autorità. I Carabinieri si presentarono a Don Massimo per eseguire l’ordine. Egli rispose loro che quel simbolo non si trovava nella casa parrocchiale e forse, nel merito, poteva essere più preciso il Presidente Mario Paoletti. Il Carabiniere garbatamente lo tranquillizzò invitandolo a non preoccuparsi perché anche lui “ era un giovane cattolico” ; la bandiera fu così salvata. Con la stessa determinazione don Massimo difese anche le nostre Campane dal conferimento obbligatorio, ordinato nel periodo bellico, nascondendole sotto la terra del vecchio Cimitero della Chiesa.

Le campane della antica chiesa di San Giorgio In Jerago – Uno dei primi concerti di campane del famoso fonditore varesino Bizzozzero

Ul San Giörg”

Si è sempre celebrato la domenica successiva al 24 aprile, data della ricorrenza, e veniva preceduto da un  triduo di preparazione.

Domenica 30 aprile 1944

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Ricordo di Vergerio Quinto

Ripubblichiamo un ricordo del soldato jeraghese Vergerio Quinto apparso a firma del commilitone Giovanni Balzarini sul giornale parrocchiale Un popolo in cammino nella primavera del 1995. Riportiamo per fedeltà la scansione di quelle pagine pubblicate originariamente in occasione della scomparsa del nostro concittadino

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Merlüz in pastela 

fonte immagine: ricette.donnamoderna.com

(Ricetta sig.ra Giulia Bollini Carabelli)

Ingredienti:

 – per la pastella: 1 uovo, 1 dl. di latte, 5 cucchiai di farina, sale.

 – per il merluzzo: 800 gr. di merluzzo già lavato

Per la pastella : in un recipiente di vetro si sbattono insieme il latte, la farina, l’uovo, il sale e si amalgamano bene fino ad ottenere un composto di consistenza sufficiente per aderire ai pezzi di merluzzo precedentemente preparati e asciugati.

Si immergono i pezzi di merluzzo nel recipiente con la pastella rigirandoveli e lasciandoveli per 10/15 min.

A parte si fa friggere olio abbondante in padella larga e bassa, quando bolle immergervi i pezzi di merluzzo ricoperti di pastella e farli cuocere per 5 minuti da un lato e per 5 minuti dall’altro, comunque fino a doratura. E’ bene assicurarsi che le carni siano ben cotte. Si posano su una carta assorbente e si servono ben caldi. Si accompagna con patatine fritte a fiammifero o con insalata verde.

Lo si serve il Venerdì della settimana di Carnevale.

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Modi di dire dialettali jeraghesi

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Pubblicato su Un Popolo in Cammino – anno 1997

Öeuv in ceraghin -uovo al Chierichetto. Si chiama così perché ricorda l’abito rosso e bianco dei chierichetti nelle occasioni solenni. Quando per un motivo qualsiasi una persona in casa mette il broncio e non dà risposte di proposito, per i vecchi “la mett giò i Quarantur”. Se per sfuggire al caldo si chiudono tutte le imposte e le porte di un locale, a Jerago si diceva che “Se fa ul Scureu da San Carlo” con evidente richiamo al buio e al raccoglimento dello Scurolo del Venerdì Santo. In quel “scapa Signor ca ghe rivo’ i Muradur” si fa riferimento al fatto che l’eloquio dei “Magutt” non era certamente dei più consoni ad orecchie pie e non solo per il disastro che essi producevano, perché “par fa urdin bisogna fa un disurdin”. La semplicità con la quale si rispondeva alla “Curona dul rusari”  e che richiamava la collegialità con la quale tutte le persone valide  rigiravano il fieno in fila sul prato, faceva dire che “a vultà ul fin e a  di rusari in bon tucc da restà in pari”. Quando una persona dà fastidio la si manda “a fass Benedì” o a “Bacc a sunà l’organ” con rifermento al fatto che in quel di Baggio a Milano l’organo era dipinto sul muro. L’invito a non frequentare cattive persone si esprimeva con un “dà mia tra a quel lì, cal ta fariss perdi Mèsa anca al dì da Natal” (non dar retta a quello che ti farebbe perdere Messa anche il giorno del S. Natale). “Andà a sculèta” indicava la frequenza all’insegnamento per gli adulti. “Ul Fuiett dul Curad” è l’antesignano de Un Popolo in Cammino che don Luigi Mauri iniziò col nome di Voce del Parroco, aveva le dimensioni di un foglietto litografato sulle due facciate e veniva diffuso settimanalmente in tutte le famiglie. Ogni famiglia lo pagava 100 lire e permise di finanziare i lavori per l’Auditorium. La pesca e L’incant di Canestar  erano altre fonti di raccolta di fondi per le opere Parrocchiali. Nella casa si aspetta “Ul Sciur Curad” per la “benedizion da Natal” e la mamma – Masèra si fa punto di orgoglio perché “a cà la sia lustra me na Cana da fusil – la casa brilli come una canna di fucile”, nella cucina è sempre appeso un “Crusin”: piccola Croce offerta dal Parroco il giorno della prima benedizione della casa nuziale. La camera da letto presenterà sempre ul “Quadar da a Madonna cul Bambin in brascia – Madonna col Bambino in grembo” posto sopra la testata del letto ai cui lati potevi ritrovare anche “L’Aquasantin e ul quadrett di Devuzion” l’acquasantiera riempita con l’acqua che si andava a prendere in chiesa di Sabato Santo e il quadretto con le preghiere della buona notte. Una persona che gode di una cattiva salute di ferro sarà “Mezz in Gesa” (Quasi in Chiesa per il suo Funerale). All’uomo che generalmente sbianca al primo impercettibile dolorino, paventando chissà quali brutti mali, la moglie si rivolge ironica con un “te set lì c’al par ca te ghet i Oli Sant in sacogia – Sei lì bianco e smunto come se ti avessero già data l’estrema unzione”. L’ultima destinazione terrena di uno Jeraghese è la “Pigna” dal toponimo del sito del Camposanto.

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Putisc

fonte immagine: cannamela.it

Premessa e ricetta

La putiscia sta alle tortelle come i brüsej stanno ai dolci. Fu l’antica tortella di quando si era poveri e si disponeva di pochi ingredienti, ad esempio non vi era il lievito per dolci. E’ semplice perché basta mettere due uova intere in una scodella aggiungere due cucchiai di farina, due cucchiai di zucchero o anche meno, amalgamare. Poi si versano un paio di cucchiai del composto nell’olio bollente di un pentolino, che spesso per risparmiare era l’ultimo olio che rimaneva quando si fa un fritto. La peculiarità della putiscia era quella di essere piatta e ben cotta. Ottenuta dopo che la si fosse girata sui due lati, messa a sgocciolare su di un canovaccio e servita zuccherata. Deve ricordare una piccola bistecca.

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In Memoria di Carlo Scaltritti – Jerago 18-1-2016

(testo letto al termine della Messa con Esequie di Carlo Scaltritti)

Grazie Carlo per la tua frequenza assidua alle attività del Gruppo di San Rocco cui si affida la tutela dell’Oratorio dedicato al Santo. Oratorio che raccoglie tante testimonianze della devozione di un quartiere e di tutti noi che abbiamo quella chiesa nel cuore. Erano preziosi i tuoi suggerimenti, sostenuti con la tenacia che ti era propria, perché tutto all’interno ed all’esterno fosse efficiente in ordine come il luogo richiede. Apprezzabile il tuo impegno perché la porta di ingresso fosse aperta, per la devozione di chi recandosi al cimitero, voleva pregare presso l’immagine delle Antica Vergine del Carmelo, accendere un cero, dire una orazione. Quanta soddisfazione coglievamo nel tuo sguardo, quando il giorno delle Palme osservavi la processione che prendeva le mosse proprio dal Sagrato sempre molto affollato per raggiungere la Chiesa Parrocchiale. Ti abbiamo visto ancora recentemente, con fatica, salire i gradini dell’ingresso aiutandoti a quel corrimani che proprio tu avevi insistito fosse installato per la necessità di chi col passare degli anni era diventato più debole.

Suoni ancora per te, oggi  quella campana, con la quale ci invitavi alla Messa del Lunedi. Ti accolga con affetto la nostra Signora del Carmelo cui tanto eri devoto.

fonte immagine: https://www.beweb.chiesacattolica.it/edificidiculto/edificio/14314/Chiesa+di+San+Rocco
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Presentazione a cura di Elio Bertozzi del libro “Le ricette della nonna” di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti

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Siamo nel periodo classico della dominazione viscontea. Ottone, da buon politico pensa a perpetuare nella sua famiglia il potere civile. Ottiene dal Consiglio Generale la nomina del pronipote Matteo Visconti, figlio di Teobaldo a cui Napo Torriani mozzò la testa sulla piazza di Gallarate, aveva un fratello chiamato Umberto e uno zio detto Pietro. Nella divisione dei beni paterni, fatta nel 1288, ai due fratelli toccarono le terre di Somma, Golasecca, Vergiate, Lonate Pozzolo e Ferno, e allo zio, con Besnate, Albizzate, Crenna, Rovate, Solaro, Brunello e Massino, anche Jerago.

Jerago, che Bonaventura Castiglioni, nella prima metà del Cinquecento, indicava con il termine Hieracium. Jerago anche vicus villaggio romano, che con il termine Algerago troviamo in una pergamena del 1178; detto Alierage nel Liber notitiae sulla fine del Duecento: scritto Mierago nel 1455 e, dal Cinquecento in poi, come sottolineava lo scomparso storico Monsignor Eugenio Cazzani, è presente nella documentazione ecclesiastica con la forma Alierage. Insieme con Jeragum permarrà sino alla fine dell’Ottocento, quando si cominciò ad usare,anche per atti ecclesiastici, la lingua italiana. L’etimologia suggerita, infine, da Dante Olivieri vuole Jerago, dialetto Jeragh, derivato da Alliaricus. Aggettivo dal nome personale Alliarius, da ritenersi un personaggio, distinto per censo e per virtù civico–militari, il quale lasciò il nome al locus da lui abitato.

Posto in una posizione preminente, sovrasta la vallata. In tempo si diceva che Jerago venisse derisa, di fronte da Oggiona che sembrava beffeggiarlo dal culmine del colle, detto Monte Oliveto. Da secoli, i due paesi, a guardarsi in eterna sfida, anche se nessuno,mai, si mosse ad affrontare l’altro. Jerago mostrava ai vicini le sue chiese: la vecchia, con il suo alto campanile e la nuova in stile romanico. Ma paladino ne era in particolare l’antico castello, cui ben si adattano questi versi di Olindo Guerrini nel suo Canzoniere:

 “ O passegger che per la via diserta

 affretti il passo

 leva la fronte tua verso quest’erta “.

Balconcini con eleganti ringhiere, terrazze, posterle, torrette, bertesche, spalti, barbacani, avancorpi, merli: tutto l’apparato di un vero castello feudale. Sopra passavano nubi bianchissime, che adornavano il cielo di una tenuità di spuma. Passano da secoli. Le avranno guardate la castellana, il signorotto, il paggio, l’armigero, la comare. Nubi che raccolsero pensieri e segreti, sogni delusioni e che, ancora oggi, con il loro attuale “carico”, scivolano dolcemente sugli immensi campi vellutati del cielo che sovrasta la vallata su cui campeggia Jerago.

La riscoperta della cultura locale, alla quale assistiamo ormai da vari anni, ha favorito la produzione, recente, di volumi dedicati alla storia di singole località o di specifici aspetti della vita dei tempi passati. Alcuni di tali libri si limitano ad una semplice rielaborazione di argomenti già presentati da altri, senza offrire al lettore sostanziali novità nei contenuti. Il volume di Anselmo Carabelli ed Enrico Riganti si discosta nettamente dalle pubblicazioni consimili sia per argomento che per originalità. E’ ambientato in un singolo paese: Jerago, ma coinvolge una cultura che riguarda tutto il Seprio; è dedicato ad un tema principale: la cucina tradizionale, ma ci informa su una molteplicità di usi, costumi, detti, proverbi, significati.

Frutto di una lunga ed appassionata ricerca  “sul campo“ offre al lettore un quadro del mondo contadino del buon tempo antico, con un pizzico di nostalgia, ma senza dimenticare che la vita continua ad evolversi ed a progredire.

La lettura è snella e piacevole per tutti: gli Jeraghesi ritroveranno l’anima del loro paese, oltre alle ricette di pietanze più volte gustate, altre parimenti appetitose, ma anche tanti ricordi e tante curiosità. I non Jeraghesi riscontreranno incredibili somiglianze con fatti ed usanze dei rispettivi paesi. I lettori di una certa età ricorderanno il sapore di un mondo che ancora esisteva durante i loro anni migliori, anche se già avviato al declino, i più giovani avranno il gusto di scoprire come vivevano i loro coetanei quando non c’erano le discoteche e la televisione. Mondo migliore o peggiore? Semplicemente un mondo diverso: l’aria era più pulita, ma mancavano tante comodità, non c’erano i soldi ma la vita era più genuina. Non beghe legali, fiscali o aziendali, però contrasti di paese, più semplici, ma non per questo spesso meno amari.

In tutta la trattazione domina, com’è giusto, il dialetto, senza tuttavia escludere dalla lettura chi non lo capisce o chi non lo parla più. Anzi proprio costoro potranno gustare alcune espressioni interessanti, che magari provengono direttamente dalla lingua latina o francese o tedesca.

A questo proposito mi pare che quanto scrisse Cesare Cantù oltre 150 anni fa, nella sua semplicità, sia tuttora il più valido orientamento per il lettore:

“il nostro parlarsi sopra estesissimo tratto, con modificazioni locali …. Dell’antica origine gallica fa esso fede nella pronunzia dell’ u dell’oeu  (feug se peu); degli an, on, en, nasali (pan, porton, ben) nello scempiare spesso le consonanti e mutare la z in s; oltre un grandissimo numero di voci, non adottate nella lingua italiana e viventi nella francese, ben distinte dalle poche lasciatevi dalla recente dominazione  e dalla moda. Chi ode il dialetto di Marsiglia, può scambiarlo pel milanese, mentre a fatica è intellegibile ai Francesi, e la somiglianza è tanto più notevole, in quanto che già si riscontra nelle poesie de’ i Trovadori, poeti provenzali del XII secolo, e non solo quanto a parole, ma anche a forme grammaticali.

Nel Varon Milanes, opera di un Capis ampliata da un Milani, si cercano radici greche a molti vocaboli lombardi, con quelle solite stiracchiature per le quali le etimologie son divenute un giochetto simile a quello delle sciarade: ma certamente alcuni ve n’ha di derivazione latina e di greca e non conservatasi nell’italiano: pochi n ha di tedesca, moltissimi invece di spagnola, senza contare la fratellanza delle due lingue. Il nostro dialetto nel plurale non discerne l’articolo maschile dal femminile ( i fioeu e i tosann); l’articolo indeterminato distingue dal numerale (un omm, damenn vun); i numerali due e tre forma diversamente pel femminile  (du sold, do lir; tri foeuj, tre pagin); alcuni plurali ha differentissimi dal singolare (om e omen, tosa e tosann, casa e ca , boeu e bo) usa un suono della s ignoto al toscano ( s’ciopp);…alla tedesca pospone la negazione al verbo (mi so no) esclude affatto quelle inversioni che fanno arditamente bello l’italiano“.

Come si nota quasi tutti i popoli europei hanno contribuito alla formazione della lingua dei nostri avi e quindi delle nostre radici. Forse la nostra preoccupazione riguardo la cosiddetta società multietnica del futuro è esagerata. Forse, soprattutto a patto che non si dimentichi il passato.

                                                  Elio Bertozzi

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Don Carlo Crespi

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Il giorno 29 maggio 1945  arriva in Jerago parrocchia di San Giorgio, quale vicario spirituale, proveniente dal Collegio Nicolò Tommaseo di Vimercate,  dove era direttore spirituale.

Era nato a Mezzago nel 1899 e consacrato  sacerdote nel 1930 dal Card. Schuster, dopo aver prestato servizio militare. Ordinato sacerdote fu coadiutore di Inzago, nel 1933, assegnato alla parrocchia di S. Maria Nuova in Abbiategrasso e nel 1935 coadiutore a san  Gioachimo in Milano.  Sfollato a Vimercate per i bombardamenti di Milano, fu nominato  direttore spirituale del Collegio Arcivescovile Niccolò Tommaseo. Il 5 agosto 1945, prese possesso canonico della Parrocchia presente il Prevosto di Gallarate Antonio Simbardi.

Il 30 sett. e il 1° ott.  furono dedicati ai festeggiamenti molto belli e all’insaputa del festeggiato che aveva espresso il desiderio “che non si facessero spese“.

Mons.  Cazzani  nel libro Jerago traccia questo ritratto: ”La permanenza di don Carlo Crespi a Jerago non fu lunga. Assiduo al Confessionale, attento alle funzioni liturgiche, che celebrava con fervore e con dignità, si dimostrò particolarmente premuroso verso gli ammalati. Accanto al letto degli infermi dimenticava sè stesso, i suoi fastidi, la stanchezza: quasi ringiovaniva. Sorridente si accostava a loro comunicando serenità. Ogni ammalato aveva la certezza che don Carlo era venuto per lui e per lui solo.”

Durante la sua permanenza don Carlo Crespi accolse a Jerago il Card. Schuster in Visita Pastorale.

Nel 1952  don Carlo rinunciò alla Parrocchia e fu nominato cappellano dell’istituto per lo studio e la cura dei Tumori a Milano, dove per un ventennio profuse le sue energie nell’assistenza spirituale dei malati.

L’ultimo incarico e residenza fu al Cottolengo di Cerro Maggiore come cappellano e ospite, dove si spense il 25 luglio del 1975. La sua salma è sepolta a Mezzago.

Il presente testo, estratto dall’archivio parrocchiale di Jerago, è stato redatto da Anselmo Carabelli, che vuole aggiungere un ricordo personale: “Ero piccolo quando Don Carlo fu parroco di Jerago, lo conobbi all’ospedale dei Tumori. Non dimenticherò mai una  festa del Corpus Domini all’Ospedale dei Tumori di Milano, quando Don Carlo portando il Santissimo in processione tra le camere e i malati dell’ospedale, lo avvicinò al letto della mia Mamma, lì ricoverata, arrecandole immenso conforto”.

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Pan buter e zucur- pan e ciculat- pane burro zucchero e  pane e cioccolato- Ricordi di Anselmo Carabelli

fonte immagine: ricette.eu

Per noi ragazzi degli anni cinquanta questi erano gli ingredienti classici della merenda pomeridiana, quando, verso le quattro  la nonna ci preparava quelle indimenticabili  leccornie. Il pane, la michetta  del Mastorgio o dell’Alzati, il buter quello che si produceva in casa dopo aver scremato la panna dalla calderina, che riposava nella muschireula, o in alternativa una michetta con una stecca di cioccolato che si andava a comperare dal Turri , dal Ruel o al mercato dal Pedron e dal Bielin. Mi ricordo anche di tavolette avvolte nelle prime carte trasparenti, solo dopo lo avremmo chiamato cellophane, che consentivano di vedere la medaglietta di metallo con l’effige di un calciatore. Quel cioccolato, in realtà si trattava di surrogato, era una autentica schifezza, lasciava quello che oggi palati raffinati direbbero un retrogusto da medicina, però era l’unica possibilità di iniziare una collezione che solo i più abili avrebbero ampliato vincendole ad un gioco inventato o trasformato per l’occasione. Più concorrenti mettendosi in riga a circa tre metri da un muro, stringevano il dischetto con l’effige dell’eroe pedatorio, tra  l’indice e il medio e lo lanciavano con abilità , chi arrivava più vicino al muro col suo lancio avrebbe vinto il dischetto degli altri giocatori, immaginatevi le risse. Ma la cosa più emozionante in estate,  era quella  ritrovarsi ad addentare quei panini nei prati, in allegra banda di marmocchi e correre verso i boschi. Che fortuna abbiamo avuto senza accorgerci, siamo stati gli ultimi a permetterci questi lussi , oggi manchiamo delle materie prime essenziali: un prato vicino a casa dove correre spensierati; i cortili, quando va bene  sono parcheggi, i boschi meglio non parlarne; i nostri polmoni, come fossimo cozze, depurano l’aria dal pm10, ed allora i  bambini è meglio stiano a casa a rimbambirsi alla televisione o coi videogiochi. La nonna moderna li ingozza di merendine, quelle light mi raccomando, così leggere da gonfiarli come palloni. Il burro è sparito, attenti al colesterolo, ma ritorna come grasso industriale sotto altre mentite vesti e che magari proprio burro non è  ma condimento idrogenato. E lo zucchero, come era inarrivabile quel pane bagnato e zuccherato, cosi come  la fetta di polenta rimasta, che tagliavamo di nascosto e pucciavamo nella zuccheriera, senza badare che i pezzettini di polenta sbriciolata ci avrebbero svelati alla mamma quali innocui ladruncoli, eum fai maron  come si diceva in dialetto. Ma lo zucchero, non sia mai, meglio una caramella dolcificata senza zucchero, di quelle che sullo stick avvertono non più di quattro al dì, quasi fossero una medicina. Ed infatti se ne prendi di più, sono più efficaci del guttalax. Belli i tempi di quando per andar di corpo si usavano le pere cotte, zuccherate. Lo zucchero era ed è l’ingrediente principe dei dolci, ma comunque sempre un prodotto che si andava ad acquistare dal droghiere, che lo prendeva a palotti dal sacco di carta da 50 chili e lo pesava sui piatti delle bilance sopra una carta blu , la famosa carta da zucur che avrebbe poi avvolto in sacchetto. Certo ci voleva una tecnica particolare per fare quell’involto chiuderlo rapidamente, senza che i lembi si sciogliessero, altrimenti nella sporta della masera, oltre al danno di perdere il contenuto, sarebbe successo il finimondo. Zucchero dappertutto, nel borsellino bursin, e visto che solitamente prima di andare a far la spesa si passava in Chiesa, zucur anche in dul vel  e in dul lbret di urazion –zucchero anche nel velo e nel messalino, che ogni mamma portava nella borsa. L’azzurro scuro della carta da zucchero si identifica anche con l’azzurro aviazione. Quanti sogni avrà mai suscitato nelle giovani di prima della guerra, avide e vituperate lettrici dei racconti della Liala, quel colore inequivocabile che  caratterizzava le divise da parata degli aviatori, sulle cui maniche le alte righe d’oro ne qualificavano il grado. Quel bel tenente o quel capitano impavido, che oltre a popolare i sogni delle nostre, con fortuna si potevano intuire nelle carlinghe degli aerei, basati a Cascina Costa, quando con ardimento volteggiavano sui nostri cieli. A Cardano gli aerei li chiamavano Sguatuni  così come Sguatè era il pilota, sostantivi derivati  dal verbo sguatà che è  il volare proprio di un uccello pesante: un’ aquila o più.modestamente un corvo; mentre di un passero si dirà  cal sgura- vola .Vola così come ha preso il volo la mia fantasia nel ritornare agli anni dell’ infanzia.

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Rustaia

fonte immagine: buonissimo.it

Piatto che si soleva imbandire prima del 1900 per il mezzogiorno di Natale in attesa delle 16 quando cominciava il cenone.

Ingredienti : 400 gr. di lombo di maiale, 200 gr. di salsiccia luganiga, 1 kg. di cipolle, una noce di burro, un cucchiaio di olio d’oliva (in antico il battuto di lardo), un cucchiaio di farina, un dito di aceto, sale q.b.,  pepe.

Mettere un una padella bassa l’olio, il burro e le cipolle tagliate a fettine. Si fanno cuocere a fuoco lento senza rosolarle, aggiungendo acqua . Dopo circa ½ ora si sala, si mette pepe, si aggiunge la farina stemperata in un dito di aceto, si aggiunge la carne tagliata a piccoli pezzi e la salsiccia pure in piccoli pezzi con la sua pelle. Si coperchia e si fa cuocere ancora per 1 ora. Il piatto sarà pronto. Si serve in piatti caldi con fette di pane giallo o pane misto. A Natale il pane sia bianco.

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Centro culturale Cardinal Schuster e Carlo Mastorgio- Jerago – Rassegna Stampa

Tratto da Un Popolo in Cammino – 2001

“Con questo numero inizia la pubblicazione di articoli apparsi, nel mese, su quotidiani normalmente reperibili nelle nostre edicole. Questi scritti, che pensiamo utili ad una analisi critica della realtà nella quale si vive potrebbero essere sfuggiti alla attenzione del lettore. Pensiamo di fare cosa utile riproponendoli, riservando gli approfondimenti anche ad ulteriori iniziative. Poiché normalmente si legge un solo giornale, chi lo desidera potrebbe segnalare all’attenzione degli altri, argomenti specifici tratti dalla molteplicità e varietà della produzione editoriale.

Il recapito del centro culturale Schuster- Mastorgio è presso la Casa Parrocchiale.

La rassegna inizia con un Articolo di Giampaolo Cottini dal titolo “ Fuori del Coro – Alla Fine di un Millennio”, apparso su La Prealpina Giovedì  28 dicembre 2000 

(Giampaolo Cottini è docente di storia e filosofia presso il liceo classico di Varese ed è noto agli jeraghesi per aver tenuto varie e preziose  conferenze nell’ambito delle iniziative culturali e pastorali della Parrocchia).

Siamo alla fine di un millennio che sta per chiudersi e il prossimo 31 dicembre sarà il vero spartiacque verso il XXI secolo, così è quasi inevitabile accennare a qualche bilancio non solo della vita personale ma anche della storia. Le inquietudini sono molte, e se intorno all’anno Mille si trattava di far rinascere una nuova civiltà, anche alla fine del secondo millennio cristiano si ha l’impressione che la posta in gioco sia l’inizio di una nuova civiltà, visto che a fronte di tanti progressi dell’umanità sono anche tante le minacce che incombono. Il XX secolo è stato un secolo di immani tragedie, le cui conseguenze giungono sino all’oggi: pensiamo alla precarietà della pace e dell’equilibrio mondiale, o alle minacce di uno sviluppo che stravolge l’ambiente naturale. Ma forse il fenomeno più rilevante che si spalanca è quello della globalizzazione e dell’incontro tra popoli e culture diverse. Proprio su questo le inquietudini e gli equivoci si sono moltiplicati nelle ultime settimane: è possibile un vero incontro ed un costruttivo dialogo tra culture e religioni diverse? Da dove nascono l’intolleranza e la xenofobia? Cosa significa realmente accoglienza e rispetto del diverso? Quale diritti hanno le nazioni di salvaguardare adeguatamente  la propria identità prevalente? Le questioni sono complesse, poiché se da un lato si va verso una mondializzazione della economia (sostenuta da una rete di comunicazione planetaria tramite internet), dall’altro l’esigenza di salvaguardare le differenze e di evitare pericolose omologazioni è grande, soprattutto dinanzi al rischio del prevalere del più forte sul più debole. Da dove partire allora per instaurare un dialogo tra diversi? Da dove ricostruire un percorso di civiltà che favorisca nel Duemila qualcosa di simile alla cosiddetta rinascita dopo il Mille. La risposta più plausibile è di partire da un dialogo sugli elementi essenziali che costituiscono la coscienza degli uomini e dei popoli, cioè di ripartire dal dialogo tra le culture. La cultura è l’espressione con cui i  singoli popoli leggono il senso dell’esistenza e della storia, ed è quindi la ricerca della verità secondo i mezzi concettuali e linguistici che un popolo riesce a mettere a punto. Così il dialogo è il momento più alto della comunicazione tra gli uomini perché mette al centro la ricerca della verità e del significato del destino stesso dell’umanità. Perciò, pur nelle differenti sensibilità e nelle modalità espressive, se si mette a tema il confronto e il dialogo tra le culture, si pone al centro l’elemento comune tipico della ragione umana, che è la tensione alla verità, da cui consegue la dimensione etica della ricerca di un bene valido per tutti gli uomini. Perciò è doveroso evitare la confusione fra le culture, e al contempo garantire il loro incontro nella prospettiva di cercare ciò che accomuna piuttosto che ciò che divide, con l’attenzione, però, di non mettere tra parentesi la tradizione da cui si proviene o i valori in cui si è nati. L’equivoco ricorrente è infatti, pensare che il dialogo funzioni solo mettendo in ombra i propri punti di partenza (quella che normalmente si definisce l’dentità), mentre la prospettiva della verità chiede di prendere coscienza di quanto è già dato per confrontarlo liberamente con le altre proposte.

La verità non è proprietà di nessuno, ma il fine cui tutta l’umana avventura tende; perciò è troppo importante al termine di un secolo e di un millennio riproporre seriamente la ricerca, costi quello che costi, anche se ciò comportasse la perdita di qualche privilegio o di comodità acquisite. Una nuova civiltà non può infatti, nascere, sul relativismo o sul nichilismo: per questo il coraggio della verità è la sfida più affascinante che abbiamo davanti.

                        Giampaolo Cottini  

Segnaliamo che è da poco uscita una raccolta di scritti ed articoli di Giampaolo Cottini, in suo ricordo.

A questo link maggiori info:

https://www.scrittigpcottini.it/il-libro/

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Pulastar – capuni e puluni a rost

fonte immagine: buonissimo.it

Disponendo di un pollo di circa 1 kg, già pulito, si procede come per la ricetta dell’arrosto, il tempo di cottura, dovrà esser controllato, perché è funzione del tipo di allevamento. Comunque è bene accertarsi che le carni dopo la cottura siano sempre bianche, infatti  servire un arrosto di pollame le cui le carni siano ancora rosse non è bello. Si cerchi anche di ottenere che la pelle risulti bruciacchiata e croccante. Per questo motivo a Natale, quando si cuocevano, capponi, oche e tacchini, che sono di notevoli dimensioni, li si portava dal fornaio, perché solo nel forno del pane potevano cuocere molto bene e in profondità. Nel caso del tacchino o del cappone il tempo di cottura può arrivare anche a due ore, due ore e mezza.

La ricetta completa è disponibile sul mio libro

https://www.macchionepietroeditore.it/scheda_Varese-Cucina-Sane-Gustose-Genuine-le-tradizioni-del-Varesotto-di-Anselmo-Carabelli_5-44-51-0-0-0-1-1-10-1-452.html

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Benedizione Affresco “Maria Regina Pacis”

Sabato 12 Novembre 2022 alle ore 16.30, il parroco della Comunità Pastorale JOB Maria Regina della Famiglia, don Armando Bano, ha benedetto l’affresco dipinto dal signor Gianfranco Battistella, posto sulla parete della casa dei signori Bertoncello/Carrieri a Jerago in via Cavour, nelle vicinanze della circonvallazione di Corso Europa.

E’ stata l’occasione per un breve momento di preghiera con i parrocchiani che sono intervenuti numerosi in questa lieta occasione.

Si ringrazia per il video e le foto della giornata il signor Gianfranco Battistella

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Maria Regina Pacis

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Luoghi caratteristici di Orago: il Castello Visconteo

Per conoscere meglio la storia del castello visconteo di Orago consigliamo la lettura del libro ORAGO Storia di un borgo col castello e la sua Chiesa di Anselmo Carabelli, Giuseppe Lombardi, Eliseo Valenti (978-88-6570-696-1).

Il libro, promosso dalla comunità pastorale Maria Regina della Famiglia JOB, è stato pubblicato lo scorso dicembre (2021) e presentato al pubblico dagli autori il giorno dell’Immacolata Concezione (8 Dicembre 2021) presso la sala polivalente dell’Oratorio di Orago.

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Il libro è disponibile in vendita anche tramite il sito dell’editore Pietro Macchione Editore di Varese, a questo link:

https://www.macchionepietroeditore.it/scheda_ORAGO-Storia-di-un-borgo-col-castello-e-la-sua-Chiesa-di-Anselmo-Carabelli-Giuseppe-Lombardi-Eliseo-Valenti_5-44-48-0-0-0-1-1-10-1-701.html

Nel libro vengono narrate le vicende dei Visconti dei rami di Jerago e di Orago e molte altre questioni relative al borgo di Orago, ovvero alla vita civile e religiosa che ivi si svolse in passato e che vive tutt’oggi nei monumenti che ne sono testimonianza e ricordo.

Una copia del libro è stata donata dagli autori alla biblioteca comunale di Jerago con Orago e quindi è disponibile per il prestito e la consultazione presso di essa.

Qui maggiori info:

https://retebibliotecaria.provincia.va.it/opac/detail/view/varese:catalog:634849

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Ris e latt- Riso e latte

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Premessa

E’ questa una ricetta assai diffusa, si è persa l’usanza dei nostri vecchi di addolcirlo con zucchero, a differenza della bassa padana dove lo si insaporiva col formaggio grana. Il motivo apparentemente banale denuncia l’influenza di abitudini nord alpine e come direbbero in Canton Ticino d’oltre Gottardo. Tale usanza è propria dei cantoni tedeschi, quasi a ricordarci che le nostre zone sono sempre state in rapporti commerciali con l’antica Raetia, tramite il Mons Adula – San Gottardo (Strabone opera citata)

Ingredienti: 0,750 lt. di latte, 0.750 lt. di acqua, una noce di burro, 180 gr di riso, sale.

Portare il latte leggermente salato ad ebollizione con pari quantità di acqua, versare il riso, abbassare la fiamma curando che il latte non tracimi per ebollizione. Cuocere per Il tempo necessario per portare a cottura il riso, assicurandosi che il tutto si addensi, per effetto dell’amido rilasciato dal riso, senza diventare un risotto. Se così succedesse, aggiungere acqua molto calda, che si terrà pronta in un pentolino. A cottura ultimata aggiungere una noce di burro e servire.

Come detto la tradizione voleva che il commensale jeraghese aggiungesse zucchero, vi è chi oggi lo preferisce sfarinato di parmigiano, io sono per la tradizione

Brano tratto da “Le ricette della nonna – Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose –  Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940″

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Pulenta giälda cuma la sa fa da neunc – polenta di farina di mais come la si fa da noi

immagine puramente indicativa – fonte immagine: cucchiaio.it

Sono necessari:

  • Parieu da ram paiolo di rame con manico, assicurarsi che esso sia ben pulito all’interno, che il rame risplenda.
  • Canéla da legnbastone di legno di noce della lunghezza di circa 90 cm. ricurvo ad una estremità
  • Camin cunt a cadéna o stùa ecunòmica a légna cui cérc– Camino con catena centrale pendente e moschettone per agganciare il paiolo di rame o stufa economica a legna coi cerchi da rimuovere, per inserirvi il paiolo di rame
  • As da legn rutond pa a pulénta cunt sura un mantin – tagliere per la polenta sul quale è stato posto un tovagliolo bianco

Ingredienti: 1 kg di farina di granoturco tipo bergamasca, 2 lt. di acqua, sale q.b.

Preparazione:

Si porta ad ebollizione l’acqua salata nel paiolo di rame e si versa a pioggia la farina mentre si mescola col bastone, si fa cuocere a fuoco vivo per circa 1 ora rigirando continuamente in modo che la parte ricurva del bastone rimuova continuamente tutta la polenta evitandone il prolungato contatto colle pareti – par mia fala gremà –per non farla bruciare. La polenta deve essere ben soda ed è pronta solo quando si stacca dalle pareti. Si solleva il paiolo impugnandone il manico  con l’aiuto di un giornale piegato che faccia da isolante. Aiutandosi con l’altra mano, debitamente protetta da un guanto o da un giornale e avendo cura di non scottarsi, si rovesci il paiolo con un bel colpo del bordo sul tagliere  ove in precedenza sia stato posto un tovagliolo bianco. Nel paiolo rimarrà una piccola crosta, ottima da mangiarsi a parte. La polenta fumante sul tagliere verrà così portata in tavola avvolta nei lembi del tovagliolo.

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Minestrina da la sciura Giülia – Minestrina della signora Giulia

In omaggio alla mia nonna Sig.ra Giulia Bollini, che cucinava con cura anche i piatti più semplici perché era convinta che la buona cucina, frutto di tanta pazienza e del suo amore di cuoca, aiutasse a rendere più serena la vita.

Ingredienti: 1,5 lt. di acqua, una patata fatta a pezzettini, 160 gr. di riso, un pomodoro medio spezzettato col coltello sull’asse, prezzemolo tritato una manciata, un dado di manzo per brodo, noce di burro.

Portare ad ebollizione l’acqua, aggiungere dado, patata, burro, pomodoro, far cuocere a fuoco lento per 30 minuti, mettere il riso e il prezzemolo e far cuocere per altri 15 minuti. Servire ben caldo con una bella sfarinata di parmigiano.

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Inaugurazione affresco Salve Regina alla presenza di sua eminenza Mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano

Nei giorni della proclamazione ad arcivescovo di Milano di sua eminenza Mons. Mario Delpini, nel luglio del 2017, venne inaugurato a Jerago, alla sua presenza, un affresco dedicato alla Vergina Maria con bambino  (Salve Regina)  presso l´abitazione di uno dei suoi parenti.

L´inaugurazione avvenne alla presenza delle autorità  civili e religiose, tra cui il sindaco Dott. Giorgio Ginelli, e il parroco Don Remo Ciapparella e fece seguito ad una celebrazione eucaristica nella chiesa di San Giorgio in Jerago, che vide per la prima volta l´arcivescovo nominato, celebrare la Messa nella sua parrocchia di origine.

Riportiamo qui alcune fotografie scattate in quell’occasione, testimonianza dell’ importante evento per il nostro comune e la nostra comunità pastorale.

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4 novembre – Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate – il Monumento ai caduti di Jerago

Nei pressi della cappella Bianchi e della chiesa di San Rocco, è sito a Jerago, il monumento commemorativo dei caduti e dei dispersi delle due guerre mondiali: la Prima Guerra Mondiale dal 1915 al 1918 e la Seconda Guerra Mondiale dal 1940 al 1945.

Tale monumento è stato costruito a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, sotto la spinta della memoria, sempre viva, di coloro che persero la loro vita per servire la Patria durante i due conflitti mondiali.

Riportiamo qui sotto una pagina estratta da Jerago – Rassegna di vita cittadina (numero del 1967), pubblicazione a cura del Centro Giovanile Ul Galett, articolo in cui si parla della prossima realizzazione di questo monumento commemorativo.

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Luoghi caratteristici di Jerago: la cappella del Cimitero

Sita all’interno del cimitero di Jerago, la Cappella conserva sui due lati delle lapidi in memoria dei caduti e dispersi jeraghesi delle due guerre mondiali.

La Cappella è posta al centro del complesso di colombari che sono siti sul lato est del cimitero e che sono rivolti verso l’entrata del cimitero stesso.

La sua posizione centrale è infatti in corrispondenza con il viale principale che dall’entrata del cimitero porta appunto ai colombari.

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I mundeghini – Polpette di avanzi di carne

I mundeghini– Polpette di avanzi di carne

Premessa :

sempre seguendo il filone della nostra cucina povera troviamo questo squisito piatto, che normalmente era servito nei giorni successivi alle feste, quando avanzavano pezzi di carne bollita o arrostita, manzo o pollo. Tutte le cucine presentano piatti similari, anzi si dice che un bravo cuoco sia quello che sappia trovare almeno cinque nomi diversi per le polpette. Il nome che i vecchi davano loro ci porta ad antiche origini .

Mondeghini proviene dal latino “mondidus” che equivale al nostro disossato, l’azione di quando si ripulisce l’osso dalla polpa o più correttamente dagli avanzi della polpa. A Busto Arsizio, il cui dialetto affonda le radici addirittura nel substrato ligure, la carne di basso pregio o gli avanzi si chiamano “ remundüa ”. Nella ricetta entra anche la lüganiga, che è un altro tipico ingrediente che i latini chiamavano lucanica.

 

Ingredienti: tutti gli avanzi di carne  cucinata in precedenza (dal : bollito o dall’arrosto di manzo o pollo), 2 hg. di salsiccia ( che sia la lüganiga – cioè quella bella rosa e soffice, da ripieni), prezzemolo, farina bianca, burro per friggere, un uovo, parmigiano grattugiato.

 

Tritare con tritacarne gli avanzi, metterli in una insalatiera di vetro, unire l’uovo intero, il parmigiano, la salsiccia spellata, il prezzemolo trito, salare q.b, se piace noce moscata e pepe. Lavorare con l’ausilio di un cucchiaio di legno, l’impasto deve risultare morbido e consistente sì da rimanere compatto se plasmato con le mani. Se troppo asciutto aggiungere poca acqua, se troppo morbido pangrattato. Si confezionino delle palline compattandole col palmo delle mani. Le si schiaccino leggermente su due poli e le si passino nella farina bianca posta in un piatto fondo.

A parte, in una padella bassa e larga, si faccia soffriggere il burro a fuoco moderato, si abbia attenzione a non surriscaldarlo, quando comincerà a fare schiuma e a prendere un bel colore bruno vi si mettano i mondeghini, girandoli sull’altro lato non appena cominceranno a diventare coloriti e croccanti. Quando avranno preso colore anche dall’altra parte si possono servire. Una insalata a foglia larga per contorno sarebbe il massimo, meglio ancora se fresca dell’orto.

 

Per altre ricette consultate il mio libro edito da Macchione editore:

Varese Cucina. Sane, Gustose, Genuine, le tradizioni del Varesotto di Anselmo Carabelli (978-88-6570-434-9)

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LE PIANTE DA FRUTTA E I FRUTTI

La frutta compariva sulla nostra tavola quando c’era, cioè quando maturava, ma senza particolare interesse, quasi per caso, perché la funzione principale delle piante da frutto era quella di intercalarsi ai pali di castano per reggere la vite. Fatta eccezione per l’innesto, non vi era alcuna particolare tecnica colturale per quegli alberi, li si potava giusto il necessario per non lasciarli crescere troppo. E poi agli anziani non gradiva che fossero sfrondati in eccesso raccomandando moderazione agli improvvisati potatori : quel ram lì lasél a stà, quel lì tajél nò parchè al gà i fiur, ma racumàndi e così di seguito, tanto che il povero operatore doveva rassegnarsi a una misera ed insufficiente spuntatina. Preoccupati com‘erano di garantirsi tanta produzione non si accorgevano che, così facendo, favorivano la crescita di numerosi frutti, ma tutti piccoli . Pumèi, persaghit, mugnäg, perit e scirés, non ricevevano alcun trattamento chimico ed era normale che fossero abitati dai cagnot vermi, in particolare le ciliege, delle quali ridendo ci si chiedeva se di venerdì non rompessero il precetto del magro. Queste quando maturavano verso i primi di maggio, rappresentavano per noi bambini una irresistibile attrattiva. In frotte di discolacci, si andavano a cogliere sugli alberi avendo cura di scegliere quelli che il tempo e l’esperienza ci avevano insegnato offrissero le migliori qualità. Sorretti dai più grandi, che facevano da scala, si saliva su tronchi dalle fronde maestose, abboffandoci di gustosissimi frutti e strappandone a rami interi per chi fosse rimasto a terra. Si badava anche di conservare quelle con doppio peduncolo unito, da offrire alle bambine che avrebbero gradito posandole a cavaliere delle orecchie. Quante volte le ciliegie erano troppo acerbe e quanti mal di pancia ci avrebbero regalato. Sull’albero si rimaneva comunque sempre in campana con l’orecchio teso ad anticipare l’arrivo del contadino, che non doveva sorprenderci. Eravamo profondamente convinti che, se anche ciò fosse accaduto, mai avrebbe attuate le sue tremende minacce, era stato ragazzo anche lui e ci avrebbe sicuramente perdonati. Lo temevamo come si temono quei vecchi cani da guardia che abbaiano più per onor di firma che per convinzione, ma se lo avesse detto al papà, questo sì ci avrebbe fatti tremare!. Mi sono accorto dei tempi cambiati, quando ho notato le ciliegie marcire sui rami, così come tanta altra frutta. Ma più ancora quando ho visto ragazzi, che per dispetto hanno divelto una intera pianta di pesche lanciandone i frutti come fossero palle da tennis. Ben lontani i tempi di quando tutta la frutta veniva raccolta e accorgendosi di qualche frutto rimasto, le nonne ripetevano, riecheggiando insegnamenti evangelici, che non ci affannassimo, perché anche gli uccelli dovevano pur vivere. Mi interessa la storia dell’albero dei caki, introdotto all’inizio del secolo a motivo della  conservabilità invernale dei suoi frutti. Molto presto furono disprezzati per la falsa nomea di essere cancerogeni e forse, ancor più, per il fastidio dello strano sapore che rimaneva  in bocca quando li si  addentava non maturi, ean rap come si diceva in dialetto, legavano il palato.

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Quell’albero, quando non sia stato abbattuto, rimane ancora nei nostri giardini una sicura risorsa invernale di sperduti uccellini, i quali ad albero completamente nudo di foglie, ne svuotano i frutti lasciandone gli involucri come palle di vivo arancione, appese ad un inusuale albero di Natale. E come non ricordare, le nespole che si mettevano a maturare in cascina in dul cas dul fen nel mucchio del fieno, o i zinzurlit  azeruoli piccoli frutti rossi ricchi di semi, ul curnà il corniolo con frutti simili ad olive, i nus le noci cui l’adagio associava che: partagà i nus, fa via la nèv, mazà la gent, l’è tüt laurà fài par nagòtbattere il noce per far cadere i frutti, ammazzare la gente, spalar la neve, è lavoro inutile, dal momento che già la natura vi provvede se si ha la pazienza di attendere. Ma l’albero di noce ritenuto malefico non godeva buona fama presso i vecchi, che raccomandavano di non lasciarlo crescere nell’orto perché avrebbe fatto morire tutte le verdure. Esso si riabilitava nel dire che pan e nus l’è un mangià da spus mentre si sostiene che : nus e pan l’é un mangià da can. L’adagio potrebbe fare intuire un antico pane matrimoniale lievitato e cotto con noci sminuzzate nella pasta e a gherigli interi anche sulla superficie, una brusella matrimoniale insomma. Mangiare invece noci con pane, nel tentativo di rifare un banchetto di nozze sarebbe proprio disdicevole, quasi un mangiar per cani. Ottimi ed apprezzati i fig, quelli piccoli nostrani le cui piante, con l’ausilio della golosità di qualche passero, nascono da sole negli anfratti alla base dei muri e si sviluppano in zone assolate, protette dalle prime brezze settembrine. Ricordo mia nonna Ida Tomasini, di Orago che lamentava come il vento gelido della valle dell’Arno, impedisse ai fichi di maturare, così le mie prime uscite in bici furono verso la sua casa per portarle cestini di fichi appena raccolti e lei mi mostrava in che modo i nostri vecchi li seccassero al sole per conservarli. La fretta e l’impegno nelle attività industriali, associati alla scarsa qualità dei nostri frutti ed ad una maggiore disponibilità di soldi, offrirono l’opportunità agli ortolani di aprire le loro prime botteghe. Tra questi il Sig. Alessandro Bogni Bogn, che rimasto invalido si industriò a coltivare verdura e piante da frutta in un terreno nei pressi dei Ronchetti. Raccoglieva gli ortaggi e la frutta che sistemava sul suo carrettino da spingere a mano dal Rià fin verso la piazza. Più tardi con l’avanzare dell’età mise al carro un asnin, un grazioso asinello di piccola taglia e si spinse fino a Solbiate, ma erano tanto apprezzate le sue verdure che già prima di arrivare alla piazza erano tutte vendute. Nessuno avrebbe però mai prestato fede alla vanteria che il suo terreno fosse cosi fertile, che una sola pianta di Cornetti, dall’orto dei Ronchetti, abbarbicandosi ai filari delle vicine viti del castello riuscisse a svilupparsi fin quasi a Besnate. Rivedo in particolare il Sig. Gaetano Alberio Ruel da Rovello Porro suo luogo di origine. Egli oltre a tenere negozio in via Cavour, dove serviva la sorella Annetta, per tutti noi zia Nèta, con l’ausilio di un indimenticabile motocarro stracarico di cassette di frutta, di mele di sacchi di patate con la indispensabile stadera per pesare, raggiungeva un vasto numero di affezionate clienti ad Orago, a Solbiate, ad Oggiona. A me in particolare colpiva quel suo mezzo da lavoro a tre ruote, dai colori bianco e azzurri, che grazie alla amicizia col figlio Massimo potevo ammirare fermo in quella che una volta fu la stalla del cavallo. Ci si sedeva con Massimo in sella ed aggrappati al grande manubrio ci si buttava, ora su un fianco, ora sull’altro per simulare curve da gran premio . Modulavamo il rombo del motore con la bocca e ingaggiavamo con la fantasia irripetibili tenzoni motociclistiche. Ma quando quel motofurgone si muoveva, alla guida del Signor Gaetano era di una potenza meccanica unica, equipaggiato com’era dal monocilindrico Guzzi. Esso, quando potenziava la versione da strada, si diceva sviluppasse ogni culp cinc metar cinque metri per ogni colpo di pistone, ma in versione da lavoro, come quella, trasformava il veicolo in un autentico mulo di ferro che niente avrebbe fermato tanto meno le nostre brevi ma toste salite. Anzi il diffondersi in valle del suo possente e inconfondibile rombo teso all’immane meccanica fatica dell’affrontarle, avrebbe sicuramente richiamate per tempo le numerose clienti. Altro ortolano, fu il Sig. Santino Cassani Santin, che aveva negozio di fronte alla chiesa di San Giorgio sull’angolo con via Mazzini, abilissimo nell’attrarre le clienti che uscivano da Messa Prima con la accattivante mostra di golose ceste di primizie. Amante di buona musica egli fu per lunghi anni il coordinatore ufficiale degli impegni della nostra banda, il glorioso Corpo Musicale S. Cecilia dalle 135 primavere . Sapendo di questo amore per il canto e della bonaria rivalità col Sig. Alberio, da ragazzi avevamo inventato sul refrain di  c ’est si bon, una nota canzone allora in voga,  questo ritornello oh c’est si bon– cunt cent franc tri limonul Santin ta na da dü- e ul Ruel vun da pù(oh c’est si bon- con cento lire tre limoni- Il Santin te ne dà due- e il Ruel uno di più). Oppure, quando si voleva far arrabbiare il Sig. Alberio “ Ul Ruel ta na da dü e ul Santin vun da pù.

Brano tratto da LE RICETTE DELLA NONNA Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose. Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940 di Anselmo Carabelli con Enzo Riganti

Presentazione al pubblico del libro di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti “Le ricette della Nonna”

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Riso alla jeraghese – piatto unico

Se si vuole fare un piatto unico con il riso proponiamo la preparazione proposta da mia mamma Carla indicata in “Jerago – Rassegna di vita cittadina” – settembre 1967.

Ingredienti per 5 persone:

  • Per la carne: fesa di vitello gr.500, burro gr 50, ½ bicchiere di marsala secco.
  • per il riso :gr.500 di riso , burro gr 50, cipolla.

Per la carne: si prepara la carne come per la ricetta della Cärna Picò

Cärna picò al marsala – fettine di carne battute col marsala.

Per il riso: cuocere 500gr.di riso in acqua salata per 16 minuti, scolaro e farlo rosolare nel burro già dorato dove sia stata soffritto un poco di cipolla.

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Suddividere il riso così ottenuto in 5 piatti. In ciascuno piatto praticare un incavo nel quale mettere le fettine di carne col relativo intingolo. Servire ben caldo.

Buon appetito!

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Luoghi caratteristici di Orago: il monumento ai caduti di Orago

I caduti oraghesi della Prima Guerra Mondiale
i caduti oraghesi della Seconda Guerra Mondiale

Il monumento e´sito nel centro di Orago, nel mezzo dell’aiuola posta in piazza Vittorio Veneto.

Come riportato, ai piedi del cippo commemorativo, è stato posizionato in loco il 16 Ottobre 1921, 3 anni dopo la fine della prima Guerra Mondiale e poi successivamente modificato, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, inserendo foto e indicazioni dei caduti e dispersi durante quest´ultimo conflitto.

Il monumento ricorda tutti gli oraghesi che sono caduti per difendere la Patria durante questi due conflitti mondiali.

I caduti della 1° Guerra Mondiale: Besnate-Jerago-Orago

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Castégn di firunatt 

fonte immagine: proverbimilanesi.blogspot.com

Premessa

I firunat erano gli ambulanti che, di paese in paese, rivendevano collane di castagne infilate su spaghi, ottime e dal costo proibitivo. Ancora oggi il prezzo di quelle ghirlande in mostra sulle bancarelle delle fiere dei Morti fa rabbrividire. Perciò in passato non si comperavano, ma si tentava la sorte pescando i numeri della tombola, da un sacchetto che il firunat portava sempre con sé. Frequentava i luoghi pubblici e andava là, dove era certo di trovare tanti bambini golosi o i loro nonni. Nelle domeniche autunnali mi capitò di vederlo all’Auditorium. Con 50 lire, che rappresentavano la mancia della domenica, si acquisiva il diritto di estrarre tre numeri dai 90 del suo sacchetto . Se la loro somma avesse superato 90 si perdeva se inferiore si vinceva la fila. E così, complice la fortuna qualche volta ci si prendeva la soddisfazione di assaggiarle rimanendone conquistati dalla bontà, ma era raro. Quel furbacchione i numeri bassi chissà dove li nascondeva!.

Qualcuno però tentò anche di produrre in casa quelle leccornie, con un sistema che permetteva anche di conservare le castagne per lungo tempo.

Ingredienti: castagne di bosco nella quantità disponibile, si scelgono solo le più belle.

Si cuociono al dente in poca acqua salata dove siano state messe alcune foglie di alloro. Si fanno raffreddare dopo averle scolate e  si asciugano in forno. Con l’uso di un ago da tappezziere, si infilano su uno spago sottile a modo di corona e si appendono un locale asciutto ed aerato.

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Cärna e patati a la nostra manéraCarne e patate a nostro modo

fonte immagine: farinespeciali.it

(Ricetta della Sig.ra Carla Cardani Magnoni)

 

Ingredienti: 600 gr. di spezzatino di manzo, 30 gr di burro, pancetta o lardo, cipolla o scalogno, spicchio d’aglio, mezza scatola di pelati o 2 cucchiai di salsa, brodo o 1 dado per brodo, 4 patate grosse, ½ bicchiere di vino rosso, salvia, pepe, noce moscata, prezzemolo. (Pelare le patate e farle a pezzetti, né piccoli né grossi).

 

In un tegame di bordo medio soffriggere con burro e pancetta o lardo a pezzettini il tritato di cipolla cui si aggiunge intero lo spicchio d’aglio, far rosolare bene, togliere l’aglio e aggiungere i pezzetti di carne a rosolare girandoli con un cucchiaio di legno fino a quando siano bene scuri. Annaffiare con vino e attendere che sia evaporato, aggiungere successivamente pelati o salsa, poi salvia 2 o 3 foglie, pepe una spolverata, una grattata di noce moscata, sale q.b. aggiungere acqua poca e far cuocere il tutto a pentola coperchiata per ½ ora a fuoco lento. Scoperchiare aggiungere le patate a pezzetti, acqua, dado o brodo fin quasi a coprire le patate, continuare la cottura a pentola coperta per circa 1 ora, verso la fine aggiungere un battuto di prezzemolo e controllare la salatura.

 

Nota:

Questo è il classico desinare che più cuoce meglio è, purché si presti attenzione al fuoco, che sia lento, per non rovinarne la confezione. Proprio per queste caratteristiche di lunga cottura, veniva anche preparato dalla Maséra durante la stagione invernale, in casa sulle famose stufe economiche o nella “calderina” circondata dalla brace del camino, mentre attendeva al duplice compito di tener calda la casa e cucinare per gli uomini che sarebbero tornati affamati pal “disnà”. La proporzione carne – patate era in funzione delle capacità di spesa della famiglia e quindi le patate abbondavano a scapito dei rari pezzi di carne.

Per altre ricette ed approfondimenti acquista il mio libro Varese Cucina. Sane, Gustose, Genuine, le tradizioni del Varesotto:

https://www.macchionepietroeditore.it/scheda_Varese-Cucina-Sane-Gustose-Genuine-le-tradizioni-del-Varesotto-di-Anselmo-Carabelli_5-44-0-0-0-0-1-1-10-1-452.html

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Luoghi caratteristici di Jerago: la chiesa di San Rocco

Riportiamo alcune foto recenti della Chiesa di San Rocco

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L’altare
la Madonna del Carmine
Madonna con Bambino dormiente – d’apres Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato

Chiesa di San Rocco: nuovo quadro di Maria con Bambino Dormiente

San Carlo Borromeo
Mobiletto che quando aperto rivela il Registro presenze confratelli S.S. Sacramento
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Luoghi caratteristici di Jerago: i boschi al confine con Quinzano e Besnate

E’ bello in autunno raccogliere castagne e passeggiare per i tanti boschi che circondano Jerago con Orago.

La nostra proposta di passeggiata parte dalla curva delle case popolari (strada contigua Gallotti) direzione la cappellina della Madonna del riposo, voluta e fatta edificare in anni recenti dal compianto Gigi Turri, già presidente della Pro Loco di Jerago con Orago.

E’ un luogo di assoluta pace, che invita alla preghiera e alla contemplazione, sito in una radura in mezzo ai boschi ai confini con Quinzano e Besnate.

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In passato (prima del Covid) si svolgevano in estate anche delle celebrazioni eucaristiche con successivo pranzo in loco.

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Il percorso per giungere fin qui è abbastanza facile, svoltando a destra al primo bivio che si incontra camminando lungo la strada che parte dalla concessionaria Gallotti. Visitata la cappellina, si può poi proseguire in direzione della zona commerciale di Besnate (ove è sito il supermercato Tigros, per intenderci) o, alternativamente, dirigersi verso i boschi di Quinzano e poi ritornare a Jerago passando per Albizzate (zona Mirasole).

Anello del Laghetto di Menzago

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Dal Tigros di Besnate consigliamo invece il ritorno a Jerago attraverso la via Castello, più agevole e meno trafficata e pericolosa della provinciale di collegamento tra Jerago e Besnate.

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Buona passeggiata!

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Cärna picò al marsala – fettine di carne battute col marsala.

Fonte immagine: la cucinaitaliana.it

Premessa:

Il marsala è l’ingrediente base per la ricetta. Questo anticamente arrivava in botticelle di legno, riutilizzate per fare l’aceto casalingo, che ci venivano spedite direttamente dalla Sicilia alla stazione di Cavaria. Le si vedevano in bella mostra allineate sullo scalo merci a fianco di botti più grosse che dovevano contenere il vino da taglio. Ricordo il sigillo apposto sui tappi a garantirne la non avvenuta manomissione: tre piedi con relative gambe unite in raggiera triangolare, che poi scoprii essere il simbolo della antica Trinacria.

 

Ingredienti :

per 5 persone : fesa di vitello gr.500, burro gr. 50,  ½ bicchiere di marsala secco, farina 00.

Tagliare la fesa in fettine da gr.25 circa ciascuna, batterle col pestacarne, infarinarle leggermente e farle rosolare da ambo le parti nel burro già dorato servendosi di un tegame largo di basso bordo. Aggiungere poi ½ bicchiere di marsala secco allungato con ½ bicchiere di acqua: coperchiare il tegame e lasciare cuocere a fuoco basso per ¾ d’ora circa aggiungendo, se occorre, un po’ di brodo o acqua calda per avere sempre un buon intingolo. Salare in giusta misura. Servire ben caldo in piatti possibilmente caldi.

Fonte immagine: Martinez.it
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Luoghi caratteristici di Orago: la cascina Molinello

la Madonna della cascina Molinello, come appariva negli anni ’90
dettaglio della Madonna con bambino
il Crocifisso della Cascina Molinello

Curioso episodio di rivalità conteso fra Orago e Solbiate

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Crustini cunt a nilza– Crostini con la milza

fonte immagine: cookidoo.it

Premessa

Questo piatto è toscano ed era il piatto preferito da mia nonna e così mi par giusto farlo conoscere. Ringrazio la signora Antonietta Vendramin – Cova, che me lo ha recuperato.

Ingredienti: 1 milza di vitello, il fegato di un gallo, il cuore, il pardè durello, 4 acciughe sotto sale, 60 gr di burro, olio, pane all’olio raffermo. Un poco di vino bianco .

Si preparano le acciughe lavandole e  si preparano in filetti disiliscati. Si pone la milza sull’asse, la si taglia a metà e con un coltello, si spreme dal suo sangue e dal suo contenuto rappresi raccogliendoli in un piatto, la parte muscolosa che avanza la si dà al gatto. Si macinano cuore e durello, avendo cura di scartare del durello la parte fibrosa (il durello è lo stomaco a muscolo che serve alle galline per sminuzzare le granaglie), si sminuzza il fegato e lo si lascia in un mucchietto, si sminuzzano le acciughe e le si lasciano in mucchietto. A parte si taglia il pane, come se fosse un salame, in fette di circa un centimetro.

In una padella antiaderente, bassa, si fa sciogliere il burro e si aggiunge il trito di cuore e durello e li si fa cuocere per 10 /15 minuti a fuoco lento, per non consumare il condimento si continua a girare col mestolo di legno. Dopo si aggiunge il fegato con un poco di olio e se fosse necessario un poco di burro, dopo 5 minuti si aggiunge il pestato di acciughe. Se il composto si fosse asciugato troppo si bagni con uno spruzzo di vino bianco senza eccedere. Si faccia cuocere ancora per cinque minuti e si aggiusti di sale. A questo punto si avrà un composto finale i cui sapori non si sono ancora ben amalgamati. Il tutto deve risultare una pasta di colore marrone testa di moro molto omogenea e non unta. Si spenga il fuoco e con la lama di un coltello si spalmi la pasta sulle fette di pane o crostini, le si dispongano su un grosso piatto di portata. Si mettano a riposare in luogo asciutto (anche all’interno del forno spento).

Saranno buoni da servire almeno dopo 8 ore dalla preparazione. E vanno mangiati tutti nella giornata successiva senza conservarne.

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Rüsumò – Rüsumada

fonte immagine: lacucinaitaliana.it

Ingredienti: 1 rosso di uovo, 3 o 4 cucchiai di zucchero, vino rosso.

In una scodella si mette il rosso dell’uovo, si gira con un cucchiaio di legno aggiungendo 3 o 4 cucchiai di zucchero, si spruzza di vino rosso fino a raggiungere la consistenza di una crema, che si ottiene non appena lo zucchero si sarà sciolto.

Molto energetica.

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Luoghi caratteristici di Jerago: la Chiesa vecchia di San Giorgio

una foto della Chiesa come appariva nel 1925 con annessa canonica
la chiesa in abbandono (fine anni ’60 – inizio anni ’70)

da questa foto si nota l’abbattimento della vecchia canonica
nel disegno di Armando Vanzini una ricostruzione della chiesa romanica dal cui ingrandimento è risultata l’attuale Chiesa vecchia di San Giorgio
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Luoghi caratteristici di Jerago: la casa del pittore Ambrogio Riganti

disegno tratto dal libro Le ricette della Nonna di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti

Qui potete trovare maggiori info sul pittore Ambrogio Riganti:

30 settembre 1934: il quadro di San Giovanni Bosco opera del pittore Ambrogio Riganti viene offerto alla chiesa di san Giorgio

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Appunti per una breve storia dell’AUDITORIUM

fonte immagine: auditoriumjerago.it

Il giorno 28-12-53 il Comitato Parrocchiale presieduto dal Parroco Don Luigi Mauri affida alla Societa’ Palcoscenico Moderno, la realizzazione di una Sala da Teatro, che prenderà il nome di Auditorium, progettista l’Arch. Prof. Carlo Montecamozzo. L’opera del costo di Lit. 66.000.000 verrà inaugurata e consegnata il  17-5-55 in occasione del CONVEGNO ALTA ITALIA DEGLI AUTORI  REGISTI TECNICI ATTORI DEL TEATRO CATTOLICO, ivi tenuto. Inizia così, la vicenda di una delle sale più attrezzate della provincia di Varese, in grado di offrire 250 posti di platea e 240 in galleria.  Gli anni 56-57-62, vedranno tre stagioni liriche con opere di Verdi, Rossini e Puccini e un Recital della Soprano RINA PAGLIUGHI. Nascono contatti con la Sezione Musicale dell’ ANGELICUM di Milano. Sul fronte teatrale: La Famiglia Rame di Varese (Ines, Lucia, Maria) rappresenterà Il PADRONE DELLE FERRIERE e La SIGNORA DELLE CAMELIE, mentre la Compagnia di Felice Musazzi, ritrovando qui il familiare ambiente oratoriano, presenterà  Semm Nasu’ par Pati’ ..Patem, Vala’ Batel, Tela la‘ la Luna. Nel ’69 sarà la volta di Strehler con ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI interpretato da Ferruccio SOLERI. La sala e’ sempre stata disponibile alla collaborazione  con attività teatrali, melodrammatiche e filarmoniche, nate in ambito oratoriano e dopolavoristico nel territorio provinciale e regionale. In ambito Parrocchiale e comunale è stata il luogo di aggregazione sociale in occasione di feste religiose, scolastiche e ricorrenze civili. Fin dalla sua fondazione sino alla fine degli anni ’70 fu sala cinematografica con proiezione a frequenza festiva e sede di 12 annate di Cineforum, delle quali alcune in collaborazione con l’Aloisianum di Gallarate.

Chiusa negli anni ’80  a tutte le attività pubbliche, per necessità di riadeguamento alla normativa di sicurezza, riapre, grazie al recupero voluto da Don Angelo Cassani con la collaborazione del volonteroso gruppo degli appassionati del TEATRO AUDITORIUM JERAGO.

Parroco don Remo Ciapparella provvede a sistemare le facciate e i muri dello stabile, rinnovando così lo stesso e dando il via a stagioni teatrali che coinvolgono compagnie teatrali locali, anche dialettali e gruppi musicali e cori di musica sacra e non.

A questo link è possibile visionare la pagina internet dell’Auditorium per potersi informare sulla attuale programmazione:

https://auditoriumjerago.jimdofree.com

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Ul Pan Tranvai

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Originariamente pubblicato su L’equinozio – Mensile di Informazione su Jerago con Orago – Ottobre 1994 – Numero 4 anno 1 – a cura della Pro-loco di Jerago con Orago

Quale sorpresa quando chiedendo alla commessa del prestinaio quel filoncino di “Pantranvai” che ammiccava invitante dalla vetrinetta dell’esposizione, ebbi di rimando un “Quanto pane con l’uva, Signore?”. Beh, a me quel pane con l’uva non andò proprio giù ed optai per un pezzo di pizza.

Addio tradizioni locali, se anche i nostri cari Prestinée tollerano che il Pantranvai sia ribattezzato in uno spregevole pane con l’uva. Perché dovete sapere che il nome gli viene dal fatto di essere una specialità tutta milanese, un po’ come il panettone odierno: Stevan Alzati, che lo rivendeva a noi, lo andava a ritirare al capolinea della Tramvia a Gallarate in Piazza San Lorenzo. Allora quando decise di farlo nel suo forno, che è oggi del nipote Giorgio, lo chiamò appunto PANTRANVAI.

Per la verità oggi, a differenza dell’originale, viene prodotto con uva sultanina anziché con la classica “Uga Americana secò al sul cunt i so giandulitt” (Uva Americana seccata al sole e non privata dei semi). Ecco perché mi sento di proporre un minicorso di aggiornamento per commessi di panetteria.

Il chilo di panni deve essere un chilo di “michette”; pare la stessa cosa ma penso che nessuno abbia mai faticato per il panino, ma per la “mica e la michetta” sì.

Niente di piu’ buono col caffelatte della mattina di una fragrante michèta ancora calda di forno, un lusso davvero,  perché il latte col caffè d’orzo o di cicoria si sposava sempre col pane raffermo- Ul pan séc. Saranno state economie di povera gente, ma sicuramete preservavano da tutti quei bruciori di stomaco regalati dai moderni biscotti e merendine, conditi di tanta pubblicità e da tutti quei grassi alimentari che categoricamente ci rifiutiamo di acquistare dal macellaio. 

E il “Pan Giòld”, certo il pane giallo era ed è un vero rito a cominciare dalla forma, la Roea. Una ruota bella e grande che a fatica era contenuta dalla “sporta da la masera” (Borsa da Spesa della massaia ), la cui forma appunto, doveva propiziare il corretto taglio delle fette, sottili di mollica e con un po’ di crosta intorno, perchè mangiandole richiamasse leggermente di bruciato. Il Pan Giòld, quello con la farina da furmenton è sempre stata la base per i nostri piatti semplici ma non per questo senza regole di confezione.

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La Supa o zuppa, può essere fatta con gli ingredienti che la stagione offre e che la tasca della masera permette: Supa da verdura, breud da galina, breud da manz o da vaca, buseca, l’essenziale è comunque che il pane giallo, venga tagliato  a coltello dall’esterno della crosta verso l’interno, facendone fette sottili, non tocchi.  Le fettine vanno messe nelle scodelle sfarinate di formaggio grana, e sopra vi si versa la zuppa. Quando la zuppa si è raffreddata e ul “Pan giòld l’e’ ben murisnà” allora si puo’ mangiare. Si faccia attenzione a bagnare il pane con la zuppa e mai mettere il pane giallo nella zuppa, altrimenti sa fa una sòpa pal can un mangiare per cani.  Altro pandolce nostrano poi era la “Bròsela” che poteva essere ricoperta cui Fig  fichi, uga mericana pasa, nus  noci, una via di mezzo fra il pantranvai e un osso da mordere o os da mort. Chissà mai che i nostri forni possano ridare un ruolo di prestigio a queste nostre semplici, ma autentiche leccornie.

Anselmo Carabelli

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Luoghi caratteristici di Jerago: il Castello Visconteo

il castello di Jerago oggi visto dalla zona detta della Pidrina
una stampa raffigurante il castello di Jerago prima del rinnovo e ampliamento effettuato dalla famiglia Bossi
una china raffigurante il castello di Jerago visto dalla zona detta del Bosco Inglese

Presentazione Video sul Castello di Jerago e la sua storia

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Madonna di Fatima

Un dipinto della Madonna di Fatima, in ricordo di un recente pellegrinaggio è stato realizzato dal sig. Gianfranco Battistella nel corso dell’anno 2016, su commissione della famiglia Lo Fiego/Cardani.

Il dipinto è stato posizionato all’esterno della casa della suddetta famiglia in via A. Manzoni a Jerago, nelle vicinanze delle Scuole elementari.

Il dipinto va così ad arricchire il tour delle cappelline sacre ed edicole votive, che all’inizio delle pubblicazioni di questo blog avevamo promosso.

Un ringraziamento al sig. Battistella e alla famiglia Lo Fiego/Cardani per questa iniziativa!

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Foto funerale Don Massimo Cervini – Maggio 1945 -corteo funebre

La foto è stata scattata in via Cavour a Jerago – fianco la ex Manifattura di Crosio.
Indicato dalla freccia è riconoscibile all’interno dei componenti del corpo bandistico Santa Cecilia, il signor Attilio Pigni – primo clarinetto.
Il Signor Attilio Pigni è padre di Romano Pigni, già sagrestano presso il Duomo di Milano, che ringraziamo per averci fornito questa fotografia, ricordo personale di suo padre
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Nuovo quadro della Madonna di Medjugorje

foto di Gianfranco Battistella

Da qualche mese un altro quadro mariano abbellisce le vie del nostro paese.

Ancora una volta il pittore Gianfranco Battistella ha realizzato un’opera artistica con soggetto mariano, che arricchisce il novero di edicole sparse per le vie di Jerago.

Questa volta il soggetto è la Madonna di Medjugorje. Nell’affresco trovano spazio anche il richiamo alla Chiesa di San Giorgio in Jerago (in basso a sinistra) e alla Chiesa di San Giacomo della cittadina dell’Erzegovina (in basso a destra).

L’affresco è posto ad inizio di via Giulio Bianchi sull’angolo con Piazza Mazzini, sui muri del Panificio Mastorgio.

Il dipinto è nato appunto grazie all’iniziativa della famiglia Mastorgio che lo ha commissionato al pittore jeraghese Gianfranco Battistella, già autore di molti affreschi mariani a Jerago con Orago.

Ringraziamo la famiglia Mastorgio e il sig. Battistella per questo bel dono alla comunità!

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La Grotta di Lourdes di Jerago – Un´immagine d´epoca

Fermamente voluta e realizzata da Don Luigi Mauri dedicata alla Immacolata Concezione di Maria Vergine nel ricordo delle apparizioni di Lourdes. Anno 1960

Da questo luogo, così come dalla Sacra statua di Maria Immacolata nella Chiesa di Orago irradia la devozione mariana dei nostri paesi culminata con l’Atto di affidamento del Comune alla Beata Vergine Maria emanato dell’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Eliseo Valenti unitamente a tutti i consiglieri il giorno 31 dicembre del 2007 nel centenario di fondazione del Comune.

Così  è descritto questo significativo atto pubblico in ”Jerago con Orago un secolo con i suoi protagonisti” a pag. 98 :

“Con questo atto si riconosce, nel centenario del Comune, come le radici cristiane della nostra popolazione e la sua fede in Dio e nella protezione pubblica e privata della Madonna abbiano sempre guidato la concordia civile, sia nei momenti di dialettica politica più accesa, sia nei momenti di sospensione forzosa di tale dialettica, proteggendoci da esiti sovente irreparabili se non fossero stati mitigati da una profonda fede ….  Una popolazione che ha  trovato conforto, voglia di progredire, coraggio, proprio nella certezza dell’aiuto divino, con l’insegnamento dei parroci e guidata da amministrazioni il cui agire era profondamente ispirato dalla dottrina sociale della Chiesa”.

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Maria Regina Pacis

foto di Francesco Carabelli

Da qualche mese è comparso un nuovo affresco mariano sui muri di Jerago con Orago.

Si trova verso la fine di via Cavour a Jerago, nei pressi di Corso Europa, ed  è stato installato sul muro della casa della famiglia Bertoncello/Carrieri, che ha commissionato il dipinto al pittore jeraghese Gianfranco Battistella.

Il tema scelto è quello di Maria Regina della Pace (Regina Pacis), tanto piu´attuale in questo periodo di conflitti bellici in Europa orientale.

I colori delle vesti di Maria richiamano infatti la bandiera Ucraina (giallo e azzurro) e la mela nelle mani del bambino Gesu´ ricorda che egli è il Salvatore (Σωτήρ) mandato dal Padre per redimere il mondo dal peccato originale di Adamo ed Eva.

Il pittore si è ispirato per le figure dipinte all´ambiente familiare, prendendo spunto diretto da sua nipote e da un suo cuginetto.

Ancora un altro bel quadro ad ampliare la devozione mariana del nostro paese!

Ringraziamo la famiglia Bertoncello/Carrieri e il pittore Gianfranco Battistella per questo regalo fatto alla nostra comunità!

foto di Gianfranco Battistella

foto di Gianfranco Battistella
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Vecchia Edicola Beata Vergine de La Salette

Leggi nostri articoli precedenti sull´argomento

Foto Vecchia Edicola Beata Vergine de La Salette

Inaugurazione dell’affresco delle B.V. de La Salette- il perché di un’opera

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Madonna della strada

Testi tratti da Camminiamo insieme – febbraio 2017

Benedizione dell’edicola votiva dedicata alla Madonna della strada

Domenica 18 dicembre 2016 è stata benedetta e proposta alla venerazione dei fedeli e dei passanti l’edicola collocata in vai Alfieri angolo Corso Europa, dedicata alla Madonna della strada.

Alle ore 11, al termine della S. Messa, un gruppo molto numeroso di fedeli si è avviato in processione dalla Chiesa parrocchiale verso il luogo in cui è stata costruita l’edicola, recitando il S. Rosario. Accompagnavano la processione don Remo, nostro parroco, monsignor Mario Delpini, il sindaco G. Ginelli, il pittore del quadro Gianfranco Battistella, e il Corpo musicale S. Cecilia di Jerago.

La gratitudine al Signore e alla Madonna per la conservazione della vita di MariaChiara è all’origine della costruzione.

Durante i lavori di edificazione molte altre persone hanno voluto esprimere la riconoscenza e l’amore alla Vergine Maria e affidarsi alla sua protezione donando la loro  opera, qualche materiale, il contributo di idee e suggerimenti, i fiori, l’illuminazione, al musica che ha accompagnato la cerimonia. A tutti va il più vivo ringraziamento.

Francesco Delpini

Perché la Madonna della Strada?

C’è una storia di devozione: un’antica immagine proposta alla gente che passava ha raccolto le preghiere di Sant’Ignazio di Loyola negli anni della sua presenza a Roma, ha ascoltato le preghiere rivolte nei secoli, ha assicurato la sua intercessione per ogni pena e per ogni speranza che Le è stata confidata. Ci sono buone ragioni che fanno pensare che ascolterà anche le preghiere della gente di Jerago e di chi passerà davanti all’immagine quando le volgeranno lo sguardo.

Note storiche

A Roma sin dal 14° secolo sulla strada che andava da San Pietro verso il colle del Campidoglio, esisteva una chiesetta molto piccola e angusta nella quale si venerava un affresco con l’immagine della Madonna della strada.

La costruzione era stata fatta per devozione a lato di una strada che portava fuori Roma e chi si metteva in viaggio si fermava per una preghiera, per ottenere la protezione di Maria dai briganti, che erano molto numerosi, dagli eventi atmosferici  avversi e dalle malattie.

Con il passare dei decenni la città si allargò e nella prima metà del 1500 la chiesetta si trovò nella parte centrale e più popolosa della città ed era diventata parrocchia.

Nel gennaio del 1541 la piccola chiesa, sempre cara alla popolazione, risultava ammalata. Fu in quel mese che Ignazio di Loyola prese in affitto una povera casupola di proprietà di Camillo Astalli e che si trovava proprio di fronte alla chiesetta.

Poco prima infatti Papa Paolo III aveva concesso a Ignazio l’uso dell’edificio per le attività di catechismo, di predicazione e di ministero sacerdotale da parte della nascente Compagnia di Gesù.

Per intervento di don Pietro Codacio, giovane sacerdote e prelato della corte pontificia, la chiesa venne poi donata “in perpetuum” alla Compagnia di Gesù…

In seguito, non potendoci stare la molta gente che accorreva ad ascoltare la parola di Dio, l’edificio fu allargato con vari mezzi e aggiunte. Nel 1568 il cardinale Alessandro Farnese, principe di grande autorità e prudenza, cominciò a costruire un tempio sontuosissimo, dal disegno e lavoro meraviglioso, che oggi è la chiesa del Gesù e all’interno della quale è conservato l’affresco della Madonna della strada.

Da: Ricardo Garcia-Villoslada: Sant’Ignazio di Loyola, una nuova biografia – Edizioni Paoline 1990

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La Madonna del fuoco

Articolo pubblicato su Un popolo in cammino – dicembre 2011 a cura di don Remo, del prof. Armando Vanzini, autore del dipinto, e dei redattori del giornale

Vi siete accorti che da qualche giorno in Via San Rocco al numero civico 17 c’è una bella effige della Madonna?

E’ un’immagine molto suggestiva e avvolgente: un bellissimo volto di donna, coperto da un magnifico velo blu, è accanto a un paffuto e roseo Bambin Gesù. Sullo sfondo un paesaggio ameno, familiare e rassicurante. In realtà un dipinto simile esisteva già in quel luogo che nell’Ottocento era una tipica corte lombarda abitata da più famiglie. Si racconta che una volta un terribile incendio bruciò il fienile e la zona del cortile, ma il fuoco si fermò davanti al quadro della Madonna. le famiglie grate e devote per il pericolo scampato, addobbavano sempre un altarino durante le processioni delle feste principali del paese. da tempo gli abitanti di Via San Rocco volevano riportare in vita il dipinto, ma non esistevano tracce o foto di quello precedente. Si è così deciso di commissionare l’opera al professor Armando Vanzini che l’ha realizzata in piena libertà e con grande passione. Il risultato è sorprendente: l’immagine della Madonna col Bambino si staglia luminosa sulla parete e risalta soprattutto all’imbrunire con i suoi colori vividi e caldi.

Presto sarà benedetta da don Remo

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Relazione tecnica: l’edicola votiva di Via San Rocco – Madonna del Fuoco

Diversi mesi fa mi fu proposto di realizzare una Madonna che avrebbe sostituito un’immagine ad affresco posta in Via San Rocco e ormai irrimediabilmente persa: la cosiddetta “Madonna del Fuoco”, poiché un incendio si era formato proprio in prossimità della casa sulla quale si trovava l’ immagine sacra.

Di quest’opera purtroppo non è rimasto nulla che potesse essere di riferimento iconografico per eventuali recuperi dell’ immagine stessa, cosicché non restava che proporre ex novo un’opera che potesse essere sostituita alla precedente.

L’idea quindi, è stata di proporre una Madonna con Bambino d’impostazione classica ispirata ad un’opera del pittore veneto quattrocentesco Giovanni Bellini, il quale nel dipingere le sue Madonne seppe unire all’uso magistrale del colore, l’efficacia delle emozioni umane, interpretando l’immagine religiosa con spirito di grazia e verità umana.

E’ stata un’esperienza senza dubbio impegnativa ma stimolante e di grande soddisfazione personale nel vedere che la comunità di Jerago ha la sua nuova “Madonna del Fuoco”.

Prof. Armado Vanzini

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In ricordo di Rina Cardani

foto di Francesco Carabelli

Rina – San Rocco: per anni è stato vissuto un sodalizio indiscusso

Negli anni della buona salute e del tempo disponibile, Rina ha dato le sue energie, la sua attenzione, le sue premure perché la chiesetta di San Rocco fosse custodita con ordine ed ogni oggetto fosse conservato con cura. L’arredo dell’altare e i paramenti del celebrante dovevano dimostrare la sacralità dell’ambiente; gli addobbi e i ricami dovevano esprimere la fede dei presenti e l’amore con cui lei, Rina tutto preparava per la Gloria di Dio.

Grazie per quanto hai fatto per la nostra comunità.

Don Franco Rustighini

Testo pubblicato nel numero di febbraio 2007  di Un popolo in cammino in ricordo del primo anno dalla scomparsa di Rina Cardani avvenuta nel gennaio 2006