(testo e studi Anselmo Carabelli)
La quadreria della chiesa di san Rocco, può vantare tra le sue opere una tela raffigurante Maria con Bambino dormiente, opera di Giovan Battista Salvi; pittore nato a Sassoferrato nel 1609, morto in Roma nel 1685. Attualmente una riproduzione del quadro è presente nella originaria collocazione al centro della Pala dell’unico altare della chiesa. Pala ora traslata ed appesa sul lato destro quale risultato delle modifiche postconciliari ad opera dell’architetto Moglia di Gallarate, essendo parroco Don Luigi Mauri (un’immagine simile è stata riproposta nella cappellino della Madonna del Riposo, per volontà di Gigi Turri). La tela originale fu individuata e attribuita al Salvi dal Cardinal Ildefonso Schuster[1], durante una sua visita pastorale e per suo ordine, rimossa e custodita altrove dal Parroco. Si impone ora una risposta plausibile alla domanda di come faccia un’opera di sicuro valore pittorico e storico ad essere arrivata a Jerago in una chiesa minore. Dai resoconti delle visite pastorali evinciamo che la chiesa di San Rocco, con grandi sacrifici della popolazione ed alterne vicende, fu costruita ex novo negli anni che vanno dal 1570 al 1630 anno della inaugurazione. I parriocchiani di San Giorgio avevano così onorata l’esortazione del Cardinale Carlo Borromeo ad ultimarne l’edificazione in riconoscenza all’intercessione del santo pellegrino per la protezione divina dalle spaventose pestilenze.[2] Il luogo, che per ubicazione oggi la ascriverebbe più ad oratorio campestre, si trovava sulla via principale per chi provenisse da Gallarate e questo fino agli anni ’60 del 1800, quando la viabilità fu seriamente modificata dallo scavo della ferrovia mediterranea, oggi FFSS. La chiesa di san Rocco fu dunque edificata con lentezza perchè, nello stesso periodo si affrontava dalla parrocchia la prima grande trasformazione della chiesa di san Giorgio, adempiendo anche in questo caso alle istruzioni generali del cardinale Carlo [3]. A giudizio dello scrivente e con buona probabilità, sia nelle dimensioni che nella planimetria San Rocco ripropone i primitivi volumi di San Giorgio, in particolare la piccola abside tondeggiante con lesene esterne nella quale era inserito l’altare che non avrebbe altrimenti scopo in una chiesa del 1600[4], con la sola differenza dall’originale di una sola finestrella nell’abside, quella dove oggi è invetriata una colomba raffigurante lo Spirito Santo[5], proponendo nell’aula anche lo stesso soffitto a cassettoni laqueato[6]. Queste premesse consentono di apprezzare l’impegno che gli jeraghesi affrontarono nel 1600 con San Rocco costruito ex novo e nel 1700 con l’ampliamento di San Giorgio: sacrestia, nuova abside, battistero, cappella di Santa Maria e cappella di San Carlo, nuova facciata e campanile sopraelevato. Ecco dunque la necessità per i fedeli benestanti di donare alle fabbriche ecclesistiche beni mobili od immobili, dotandole di lasciti ereditari. Con atti notarili furono costituite offerte annuali provenienti in toto o in parte dalla rendita di un bene immobile livellandolo a favore della chiesa, cioè gravandolo di una garanzia reale alla quale fossero vincolati giuridicamente anche gli eredi. Tra queste donazioni vi è, molto interessante, la cosiddetta donazione romana. Nel periodo di nostro interesse 1600-1700 una piccola comunità di jeraghesi di nascita viveva in Roma e dovevano essere benestanti[7] a giudicare dai lasciti devoluti alla chiesa di san Giorgio. Pensiamo alla dotazione di scudi mille[8], eseguita da Carlo Maria Puricelli nel 1695, con l’obbligo di una messa quotidiana perpetua. Questo voleva dire garantire la costituzione di una cappellania cioè permettere il sostentamento perpetuo del sacerdote di San Giorgio. Altro jeraghese-capitolino di nostro interesse è Luigi Cremona che nel testamento rogato nella capitale il 14 febbraio 1722, tra le altre disposizioni a favore della parrocchia della sua Patria dispone “ordina e comanda che il quadro rappresentante la Madona Santissima, che si trova in Patria[9]si debba porre, e mettere con la cornice, che si manderà da Roma e dal medesimo già fatta fare, nella chiesa di S. Rocco ,,.
Ecco dunque svelata l’origine del nostro quadro Madonna con bambino dormiente del Sassoferrato. Il Sassoferrato, oggi definito dagli studiosi “Pictor Virginum”, ai tempi del suo soggiorno romano non fu particolarmente apprezzato, ma considerato un classicista, simile ai tanti pittori che in ottemperanza al nuovo clima creato dalla Riforma cattolica, stavano pruducendo moltissime immagini mariane che abbellivano Roma arricchendola delle famose Madonnelle – edicole mariane. Nei loro laboratori vendevano quadri con soggetti sacri, prevalentemente Madonne con Bambino, di piccole dimensioni : 35×45 cm. o 50×60 cm., con le quali pellegrini e residenti avrebbero ornato devozionalmente le loro case. Salvi lavorò per Olimpia Aldobrandini-Pamphili e fu autore in Roma di opere pubbliche: la Madonna con Bambino e San Giovanni nel Battistero di San Giovanni in Laterano e la Madonna in San Clemente. Alla sua morte nel 1685 lasciò agli eredi una sostanza di 1500 scudi, giudicata modesta per un pittore di valore. Era conposta da monete, nessuna casa di proprietà, qualche campo, oltre naturalmente a 106 quadri, molti dei quali autografi stimati 1600 scudi e divisi tra i figli. Per quanto ci riguarda il lasso temporale considerato poteva ben consentire ad uno jeraghese in Roma, quale appunto Luigi Cremona, di acquistare una di queste tele dagli eredi del Sassoferrato, al fine di abbellire la sua casa jeraghese e destinarla poi in eredità a San Rocco. Per il pittore Salvi Il tempo ha comunque fatto giustizia dell’oblio cui lo aveva relegato la storia della pittura italiana. Ecco come una studiosa del pittore Simonetta Prosperi Valenti Rodinò ne tratteggia la figura[10]: “.. raffinatissimo nell’esecuzione pittorica, ma scarso nell’invenzione, tanto da doversi rivolgere a prototipi più antichi, con una gamma di citazioni che vanno dal tardo Quattocento con Perugino, Pinturicchio, lo Spagna, Raffaello giovane e maturo, suo punto di riferimento costante, ma anche Andrea del Sarto e successivamente i Carracci, Guido Reni, Albani e Cantarini, forse autodidatta ma perfettamente inserito nel movimento classicista a Roma di metà Seicento. ….. ” fu riscoperto nell’ottocento.
Queste poche note mi auguro possano rinnovare l’interesse per questa nostra opera che altrimenti tanto distrattamente osserviamo, auspicando anche che la riproduzione fotografica in San Rocco sia sostituita da una riedizione pittorica molto più viva e fedele all’originale.
P.S. A seguito di questo articolo l’originale custodito altrove è stato sostituito da una pregevole riproduzione ad olio su tela eseguita dal pittore Gianfranco Battistella.
[1]Card. Alfredo Ildefonso Schuster, visita pastorale Jerago 1938-in decreto della visita : “Si ritiri il quadro della Madonna attribuito al Sassoferrato”.
[2]Non risulta all’analisi dei documenti che in Jerago vi fossero stati all’epoca morti per peste
[3]In instructiones fabricae ac suppellectiles ecclesiasticae (regole dettate da san Carlo per l’ edificazione delle chiese e degli arredi) il cardinale invita a trasformare le esistenti chiese in edifici importanti architettonicamente, sopraelevandole dotandole di presbiteri dimensionati per la la preghiera e meditazione del clero e per l’educazione cristiana dei fedeli
[4]La primitiva abside fu individuata negli scavi archeologici di San Giorgio- voluti da Don Angelo Cassani ed eseguiti dalla Sopraintendenza Archelogica della Lombardia – sovraintendente Dott.ssa Maria Adelaide Binaghi-Leva
[5]Nell’abside della primitiva chiesa di san Giorgio erano tre finestrelle monofore, poichè nell’ediliziamedievale-romanica il triplice elemento simboleggiavala S.S.Trinità; a conferma si osservi l’abside della romanica San Giacomo. Il costruttore di San Rocco ignorava nel 1500 tale finezza simbolica, quindi propose una sola finesta nell’abside.
[6]Si rimanda alla descrizione di San Giorgio durante la visita del Cardinale Federico Borromeo
[7]Una indagine accurata relativa alla presenza di varesini ed al contributo nella edificazione barocca di Roma ci porterebbe anche spiegare perchè nella galleria delle carte geografiche vaticane i nomi di Orago e Crena (Crenna) assumano una importanza topograficamente rilevante. Trovandosi tali località all’incrocio della via novaria con la via helvetica non potevano sfuggire agli artigiani ed artisti varesini esecutori di quelle carte geografiche.
[8]Si pensi che dodici scudi erano la paga trimestrale di un prestatore d’opera specializzato
[9]Si noti come il termine Patria venga usato, non nel senso odierno di nazione , ma con l’accezione germanica di Heimat– terra natale-terra dei padri.
[10]In: Sassoferrato Pictor Virginum– Nuovi studi e documenti per Giovan Battista Salvi – A cura di Cecilia Prete – Istituto Italiano di Studi Piceni- giugno 2010 – Arti Grafiche Picene pag. 25
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