A fulgore et tempesta libera nos Domine – Dalla folgore e dalla tempesta liberaci o Signore

(testo di  Anselmo Carabelli)

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(Fonte immagine: lastampa.it)

Questa invocazione latina potevamo leggere sul cartiglio del bordo della 4^ campana, quando, prima del restauro del campanile, i sacri bronzi incatenati fra loro facevano bella e inoperosa mostra sul vialetto che porta alla canonica. A quel motto il pensiero riandava nell’osservare, incredulo e sconfortato, lo scempio che il fortunale aveva arrecato all’orto, oggetto di tante cure.

L’ è cativ me a témpèsta da mägé cattivo come la tempesta di maggio, non è più maggio, sono i primi giorni di giugno, ma gli effetti di quella cattiveria si possono apprezzare tutti, dalle piante di zucchine maciullate, ai pomodori dei quali sono rimasti in piedi solo i piantireu-tutori; insalate, fagioli, peperoni, tutti rasati al suolo.. che spatasc! Riusciremo a mangiare qualcosa del nostro orto quest’estate? Ributteranno le piantine dalle loro radici; coi rami apicali distrutti, tra i laterali, qualcuno riprenderà il portameto centrale? non lo sappiamo. Dopo i commenti di rito, incontrando un agricoltore  per hobby, come me, o pensionato come tanti, ci si consiglia  sul da farsi, chi la racconta in un modo, chi in un altro, certamente tutti concordiamo che le patate, i pomm da tèra si sono salvate, per il resto staremo a vedere e diventerà bagaglio della nostra limitata esperienza agricola, alla quale mancava ancora questo capitolo. Sì perché l’ultima vera calamità atmosferica fu nel lontano 1940, quando dovevamo ancora nascere, come testimoniano  le foto dei mucchi di grandine accatastata, dopo che questa aveva letteralmete pulito ogni cosa e spogliato persino gli abeti dagli aghi, il che è tutto dire. E allora, veramente, fu come pioggia sul bagnato; tempo di guerra, popolazione che, pur andando al lavoro presso le officine, traeva ancora importante sostentamento dal reddito agricolo. Ecco a me, uomo di oggi abituato a prevedere, a organizzare quasi tutto, pare una cosa impossibile accettare questa delusione; dovevo pur metterla la rete antigrandine! Se ci penso, naturalmete a mente fredda, debbo concludere che un altro insegnamento si è aggiunto ai tanti che la coltivazione di un orto mi ha impartito. Perché coltivo l’orto? Per necessità, certamente nò, rigraziando Iddio;  per la migliore qualità del prodotto, da consumare appena colto, forse. Avete notato però come, da quando la Malpensa è diventata grande, le foglie delle nostre piante, cedue o annuali, ogni tanto e all’improvviso diventino gialle quasi bruciate a chiazze slambrisäa? Sarà mica stato un bel aerosol di Kherosene a rivitalizzarle? Non a caso i primi a fare proteste, chiudendo in corteo le vie di accesso al Hub ( si scrive così !)  sono stati quelli delle località novaresi-piemontesi: Oleggio, Castelletto, Pombia. Da contadini, quali essi sono, hanno osservato questi effetti sulle loro coltivazioni, mentre noi lamentavamo solo il fastidioso rumore degli aerei. Poi si sono mossi anche i nostri sindaci, speriamo  bene. Perché continuiamo ad affaticarci nell’orto? Forse da piccoli lo abbiamo visto fare ai nostri vecchi e così ci pare di essere ancora con loro. Certi modi di dire, a  tera l’è basa , hanno così acquistato un giusto valore, per la fatica di vangare nell’orto di terra argillosa coi conseguenti mal di schiena. Come facevano loro a coltivare pertiche di terra? E quanto rud-letame c’è voluto e quanti anni per rendere soffice ed accettabile quel fazzoletto di orto ricavato nella terra di riporto, sparsa  attorno alla nuova casa. Ma se riesci a superare il disagio di rimetterti a lavorare di sabato o alla sera, quando dopo una giornata o una settimana faticosa sarebbe più logico concederti un meritato riposo, ti accorgeresti che  faticare nell’orto apre  impensati orizzonti alla mente e accantona le preoccupazioni quotidiane. Sei stressato perché sei impaziente e l’orto da antico e scafato maestro, ti insegna che, ci vuole calma nelle cose. Il mondo di oggi ti ha sottratta la dimensione temporale  e molta della stanchezza che accumoli è solo mentale, nasce dalla tensione di non essere ancora venuto a capo di ciò  che attendi: una risposta ad un problema, un ostacolo non ancora superato; hai premura di sapere ed è la stessa premura che ti spinge ad andare veloce per arrivare prima, non è questo  che oggi affatica di più? Da modesto coltivatore, quale sei, hai comunque  imparato a rispettare il tempo, tutto il tempo necessario, perché il seme possa germogliare e poi fruttificare. Attendi con pazienza e stupore le stagioni: il caldo, il freddo, la pioggia, temi la siccità, il vento, il gelo; se non è tempo giusto, nonostante la tua voglia di  vedere i frutti, questi non maturano e oggi con rassegnazione hai appreso che, nonostante tutti gli sforzi qualche volta il raccolto  non potrà  maturare, e anche questo devi accettare. Non a caso i vecchi ci hanno passato la preghiera della nostra quarta campana  a fulgore et tempesta libera nos Domine. 

P.S: Con sorpresa ho notato che le piantine scartate, le più piccole e brutte,  dimenticate in un angolo riparato, perchè mi dispiceva buttarle, miracolosamente erano ancora  intatte e allora le ho sostituite alle distrutte e così,  quelle che ritenevo più deboli , sono diventate la nuova speranza del raccolto.       

 

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