All’entrata del piano inferiore delle scuole elementari, si trova una targa: “in memoria di Carlo e Virginio Cardani”. Questa ricorda che quel terreno, fu proprietà del sig. Carlo e fu ceduto dallo stesso, in età avanzata, al Comune, in cambio di un vitalizio che accollava all’Ente gli oneri del ricovero presso un soggiorno per anziani per lui e per il fratello Virginio. Purtroppo per il nostro e vantaggiosamente per il Comune, i fratelli sopravvissero pochi anni a quel contratto. Per questo sarebbe bello, dal come sono andate le cose, risoltesi più in una donazione che in un contratto, che quella targa fosse nobilitata portandola nel salone dell’ingresso principale. Il Sig. Carlo Cardani, apparteneva col fratello Virginio e il fratello Umberto, Missionario in Africa, ad una ricca famiglia jeraghese, proprietaria di terreni e case. Più noto come Carlascia, chi si rivolgeva a lui lo chiamava Carleu, perché l’altro, il dispregiativo gli veniva indirizzato per scherno dai ragazzi. A noi bimbetti nei primi anni cinquanta, quest’uomo appariva sicuramente come una persona estremamente trasandata, in là con gli anni, vestito di abiti che a dire vecchi sarebbe stato un complimento, sempre intento a biascicare parole o a sfogliare un consunto libro di preghiere, recitando orazioni anche a mezza voce, ma comunque in modo incomprensibile. Uomo capace alla sua età di andare a piedi anche fino a Busto, dormendo dove gli capitava, in una cascina e in estate pure all’aperto. Comunque, non un barbone o un disadattato, assai diverso da quei personaggi, che in ogni paese ci sono sempre stati. Oggi, pensando a quell’uomo cosi strano, non posso che evidenziarne la natura di autentico Clochard, nel senso che i francesi danno a questo termine di uomo che vive su ritmi scanditi dal suono delle campane, completamente avulso da qualsiasi preoccupazione di denaro. Si alzava di mattina presto per la Messa Prima e occupava il suo posto, sul fondo della chiesa sotto al quadro di San Giorgio o vicino alla statua di Sant’Antonio. Usciva da messa per raggiungere il negozio dell’Alzati, dove la Signora Enrica non mancava di fargli trovare un bel pane caldo, poi dall’Alberio perché la mamma Angelica gli preparava una tazza di brodo per inzuppare quel pane e se estate qualche pomodoro e un bicchiere di vino che versava nel brodo. Ma in questi gesti vi era qualcosa di nobile, sia in chi dava che in lui che riceveva, era un po’ come dare ospitalità e cibo a quegli antichi pellegrini, che poi, ingraziato il Signore, si muovevano verso i luoghi sacri. E per il nostro Carlo era un itinerare continuo da una chiesa ad un’altra, da una cappellina ad un’altra cosi fino a Busto a Lurago nel comasco dove era nata sua mamma, ma fin quando la vigoria fisica glielo permise, anche oltre verso Milano o Novara, seguendo itinerari antichi, che sicuramente aveva conosciuti dai sui vecchi. E nelle chiese e nelle cappelline, egli saliva sull’altare per baciare il crocifisso e l’immagine sacra. Il volto della Madonna Addolorata della cappella Pagani fu cancellato da questa sua immensa devozione. Certo, ma non tutti sapevano di questa sua trabordante fede, fu così, che a Castelnovate, mentre raggiungeva il guado del Ticino, detto “Pè d’Asan” dai vecchi, il nuovo parroco del paese, lo scopri in piedi sull’altare. Reputandolo un ladro all’incetta di candelabri, si affrettò ad avvertire una pattuglia di polizia del vicino aeroporto della Malpensa, che lo arrestò. Si era forse nel 1960 quando Vicedirettore della sezione civile dell’Aeroporto della Malpensa era il concittadino Sig. Attilio Pagani. Questi ebbe la ventura di assistere, casualmente, alla scena di quei poliziotti disperati, che rientrati al comando di Malpensa non sapevano come calmare quell’uomo spaventato, che con frasi per loro incomprensibili cercava di giustificarsi. Il Sig. Pagani con tutta la sua autorità, spiegò chi fosse mai quell’uomo “ritenuto tanto pericoloso” e con un grande sorriso garantì per il nostro Carleu, il quale potè così riprendere il suo instancabile pellegrinaggio. Pellegrinaggio che non si interruppe mai, si accorciò solamente a misura dell’avanzare degli anni. A mezzogiorno visitava la chiesa di San Quirico e Giuditta e la vicina Tintoria di Cavaria della famiglia Sacconaghi lo ospitava per la mensa, che accettava, ma non sedeva coi dipendenti, stava in disparte nel locale attiguo alla caldaia che generava vapore. E se non mangiava conservava il cibo per la sera, nascondendolo nella tasca della giacca. Alla sera quando rientrava, nella sua casa, una bella casupola in mattoni rossi, che per noi bambini segnava i bordi dei campi e i confini del mondo conosciuto, trovava il pranzo che gli aveva preparato la nipote, ma che molte volte, per di lei somma disperazione, accantonava preferendogli il risotto della Cavaria. Non mancava alle processioni che seguiva con grande rispetto, camminando col busto leggermente inclinato e le mani dietro la schiena a reggere il cappello, ed era l’unica volta in cui lo si poteva vedere quasi completamente calvo. Un uomo molto buono e intelligente, a dispetto delle apparenze, poteva sembrare anche misogino, cioè risentito verso le donne per quel suo intercalare di “Purscèla-Purscèla”, che si apprezzava nel suo altrimenti incomprensibile borbottare, ma aveva una grandissima devozione per tutte le donne in gestazione, alle quali assicurava ad alta voce le sue preghiere perché il Signore potesse benedire il futuro bambino. Il Sig. Carlo Cardani, visse la sua vicenda in un mondo che non lo capiva, perché non poteva capire come una persona ricca del suo, non potesse apprezzare il denaro. Egli aveva casa, ma non la corrente elettrica, si alzava con l’ave Maria e si coricava con l’ave Maria. La solitudine nella quale volontariamente si era rinchiuso e quel suo modo trasandato di vivere non ha impedito alla gente di volergli bene e di ricordalo ancora oggi con affetto e per me, dopo aver tratteggiato quell’epoca rimane, l’ultimo superstite di un modo di vivere agricolo, in una società che ormai si era trasformata.