(di Anselmo Carabelli )
Si fa presto a dire Giacon da pel, associandolo al montone, da alternare al cappotto invernale nei giorni importanti, per me esso è e rimane, quello in fiore di pelle nera e lucida, dagli inconfondibili grossi bottoni a Grelots ricavati dai ritagli, indossato con orgoglio dai nostri papà. Fu per molto tempo e fin verso la fine degli anni 60 il caldo conforto invernale per l’uomo che, avendo raggiunto la maturità professionale ed economica, poteva finalmente permetterselo. Stimolato in ciò, da un suo proprio immaginario, che aveva fatto del giaccone in pelle l’indispensabile tutore e compagno degli ardimenti degli aviatori della prima guerra “alla Baracca”, o dei più invidiati miti dell’automobilismo competitivo da Varzi a “Nivola”. Eroi “dantan”, gelosamente riprodotti sulle ricercatissime e rare cartoline, o visti dal vivo nei tanto amati Cinegiornali “Luce”. Fu’ quindi a pieno titolo l’antesignano dell’abbigliamento sportivo, e quando finalmente ce lo si fosse potuto permettere, esso avrebbe immancabilmente accompagnate le giornate fredde “festa o di’ lau’”che fossero, per tutti gli anni a venire. A ragione, però, perché, niente poteva violare quel mitico “scafandro”, non la pioggia, la “nèbbia” o peggio la micidiale neve bagnata, perché sotto si sarebbe rimasti sempre all’asciutto, ovattati nel tepore dell’inconfondibile fodera di flanella nocciola. Questo affermo per averlo casualmente testato durante il famoso gennaio 85, quando dopo aver smesso tutte le moderne giacche a vento, miserabilmente infradiciate dalle continue nevicate, mi ricordai di quel giaccone del papà. Solo indossandolo ho potuto spalare asciutto e far via montagne di neve dal tetto, in quello che per me rimane tuttora l’inverno più inverno che abbia mai visto. Con quello, i nostri papà, potevano permettersi di sfidare il vento delle prime corse in moto. Alla guida di un Guzzino o se più fortunati di una Zundapp a cardano o di una bella Guzzi Cinquecento con volano ad affettatrice, per gustare la velocità consentita dal nastro di asfalto della prima autostrada del mondo e dall’assenza di traffico, essi entravano al casello di Cavaria e via a manetta verso quello di Vergiate. Lo si indossava anche per la messa domenicale, del resto l’Orsenigo (pittore della nostra chiesa) non lo aveva dipinto a mo’ di blusa pei notabili che accompagnano il baldacchino di San Carlo, li’ in Chiesa a destra del suo altare, e se quelli in effigie lo potevano portare, perché non portarlo anche dal vivo? Si entrava nel laboratorio di sartoria in pelle del Sig. Emilio Cassani, per gli jeraghesi “Mili Ross” con evidente riferimento al colore dei capelli e dei baffi, per farsi finalmente prendere le misure e scegliere il colore, sempre nero perché erano solo gli “Sciuri” che lo ordinavano marrone col risvolto di Astrakan. E così, una volta pronto e indossato quel capo, ci si poteva unire alla folta schiera degli importanti clienti del nostro, qui richiamati dalla sua abilità di sarto e dalla spontanea simpatia per la tenacia di quell’uomo, per nulla piegato dalla malasorte che, piccolo, in un incidente agricolo, lo aveva privato di una gamba. Anzi fu proprio quella menomazione che affinò in lui le naturali doti di caparbietà, di rivalsa e di intrapresa e per vivere imparò l’arte di sarto e la necessaria manualità. Non potendosi però rassegnare alla forzata lentezza del suo incedere, egli conseguì anche uno dei primi “Permis de Conduir o Patente” che lo abilitava alla guida del suo “ Side-Car = motocarrozzino” e della sua prima automobile, di quelle scoperte con le ruote in legno. Poteva finalmente lanciarsi in mirabolanti corse, altrimenti inibite, al fianco della inseparabile consorte. Siamo negli anni tra il ’20 e il ’30, quando l’auto se la potevano permettere in pochi, giusto qualche industriale, il dott. Tani o la contessa del Castello, e allora il nostro, pensò di associare l’utile al dilettevole, lui sarto avrebbe prodotto giacche, non le solite di fustagno bensì in pelle, indispensabili per viaggiare sui veicoli scoperti dell’epoca. Attrezzò alla bisogna il suo laboratorio di Via Indipendenza per soddisfare le esigenze di una clientela facoltosa e sempre più numerosa, la stessa che egli incontrava ai moto raduni dell’epoca, ai primi meeting automobilistici cui partecipava da appassionato ed abile chaffeur. A quei raduni non poteva passare inosservato quel personaggio che a dispetto della sua gamba di legno pilotava, con grande sicurezza importanti vetture, l’ultima delle quali, ricordo, fu una bellissima LANCIA Ardea nera. Dal suo laboratorio, oltre a queste splendide e ambite giacche uscivano le famose “sporte in pelle intrecciata”, che la moglie confezionava intessendo a grandi trame i ritagli in pelle residuati dalla confezione. Con un po’ di fortuna se cercate con attenzione sullo “Spazacà”- Solaio non vi mancherà di ritrovarle ancora pronte per uscire a far spesa sul braccio delle nostre brave nonne–masere. Emilio Cassani morì nel 1982, a ottantasei anni, insignito del Ditale d’Oro dagli Artigiani della Provincia di Varese, quando era decano degli automobilisti della Provincia di Varese-ACI (così come ebbe modo di ricordare il Gazzettino Padano), cioè il conduttore di auto dalla patente di più vecchia data della provincia.