(di Anselmo Carabelli)
Il risotto giallo ha sempre rallegrato la tavola delle ricorrenze, si’ da essere ancora vivo il ricordo “da quel “di’ da San Giorg dul temp da guèra, quand ghe bruso’ tucc i risott “. Memoria di una festa del Patrono del ’44 quando, all’urlo della sirena della Rejna, tutti fuggirono precipitosamente nei boschi incalzati dal lugubre rombo delle fortezze volanti, il cui carico mortale si poteva distinguere nettamente mentre cadeva, in un sinistro lampeggiar di bombe, sulla Macchi di Varese. Cessato l’allarme solo al rientro ci si accorse che tutti i risotti si erano irrimediabilmente carbonizzati sulle stufe. Tutto nella preparazione del risotto ci lega a qualcosa. A cominciare dal riso “Vialone” che si poteva acquistare a “Scartozz“, il giovedi’, presso “ul banc dul Bielin“. Qualita’, che Giuseppe Gandolfi , meccanico presso la fabbrica di mio papa’, mi aveva insegnato a distinguere dalle spighe, che raccoglieva in un mazzetto sul ciglio della risaia di Momo in Piemonte, dove si andava per lavoro, e poi portava a casa in segno di buona fortuna. Gesto semplice delicato, che ancora oggi, quando e’ stagione ho imparato a ripetere. Di buon auspicio come il giallo del risotto fumante sul desco, ancestrale richiamo alla gioia dell’uomo primitivo, che dal fondo della grotta rivedeva la palla rossa del sole che leva. Ecco perché il risotto deve essere di un giallo vivissimo, merito dello zafferano aggiunto verso la fine della cottura. Lo Zafferano, Azafran per gli Spagnoli che lo avevano conosciuto dagli Arabi per i quali e’ Zafrahan da cui il nostro Zafranc, deve essere quello vero e non lo smunto surrogato che molti oggi preparano macinando i fiori di una pianta officinale non commestibile. Alla larga da queste contraffazioni e non si commetta l’imperdonabile errore di usare olio di oliva. In una pentola di bordo medio si fa soffriggere una cipolla sminuzzata fino a farla diventare ben rosolata, si aggiunge il riso, 80 gr. a persona e si gira a fuoco vivo. Il burro, che va aggiunto anche alla fine per mantecare il tutto, fu infatti con i grassi animali il nutrimento per eccellenza dei Celti Insubri, antichi abitatori di queste zone. (Strabone L.V 6 Geografia Polibio L III 60 storie). A Cesare ed ai suoi generali usi a considerarlo come unguento, gli asparagi al burro, imbanditi dal regolo locale (capo) parvero disgustosi, non meno di quanto apparirebbero a noi se ci venissero serviti intinti nella Crema Nivea fusa. Ma per amor di patria, per quei grandi, fu giocoforza trangugiarli, stimando prevalente al voltastomaco l’interesse per l’arruolamento dei forti uomini delle nostre terre. Dopo averlo rosolato, il riso va annaffiato di vino rosso, un bicchiere, perché rosso e generoso era il vino locale, prima che la grande gelata del 1869-70 distruggesse tutti i nostri vitigni, sostituiti poi da quella misera qualità méricana, il cui vino oggi, spregiativamente detto “Piscarella”, diventa bevibile solo se rafforzato dal basilicata o dal Rionero del Magnoni. Poi lentamente, man mano che il riso assorbe il vino, si aggiunge brodo ben caldo a tazze, senza mai annegarlo. Il brodo deve essere preparato per tempo, a parte, in una pentola mettendo in acqua fredda, carne di manzo, ossa di bue, zampe di gallina e bargigli di gallo, ma se la gallina non e’ di quelle nostrane è meglio lasciar perdere, per evitare che addentando la coscia “garon” l’osso si sfili con la stessa facilità del cappuccio dalla penna. E Poi il risotto lo si “Trusa“, si gira sempre nello stesso senso col famoso “Cugià da legn“, che anno dopo anno di onesto servizio e’ diventato di un bel colore bruno, tutto consumato sul lato della sua rotazione. Cio’ che resta di quel bell’utensile bianco e levigato, acquistato da una di quelle vecchine che venivano giu’ da Premosello o da Beura col treno del Sempione, salivano sul locale per Varese e di stazione in stazione raggiungevano tutte le case, con la gerla in spalla colma di mollette per panni, di zoccoli e di tanti utensili in legno . Talvolta al ritorno la sera, col treno da Porta Nuova, capitava di vederle alla stazione di Gallarate appoggiate ai loro gerli, ormai vuoti, stanche ma soddisfatte del loro onesto commercio, in attesa del Domodossola che le avrebbe riportate alle valli. Se poi in questo lento girare di mestolo una piccola crosta dovesse formarsi sul fondo della pentola niente di male, anzi il “Taca’gio’ ” a fine pranzo sara’ il premio per i più buoni. A questo punto manca ancora qualcosa di gentile nella preparazione del nostro risotto jeraghese: l’uso che siano gli uomini a prepararlo per la famiglia nei giorni di festa, segno di attenzione nei confronti della propria moglie nell’unico giorno libero da impegni lavorativi. E’ sicuro che per fare un risotto allo zafferano non era necessario farla cosi’ lunga, ma per farlo buono penso di si’.