La cerimonia nuziale prima della Conciliazione 11-2-1929
Nel periodo austriaco, il Parroco rivestiva anche funzione di ufficiale di stato civile, i libri di matrimonio parrocchiali erano vidimati annualmente dall’IRG per convalida degli effetti civili e la cerimonia nuziale era unica. Durante il breve dominio francese e dall’Unità d’Italia fino alla Conciliazione del 1929, la cerimonia si sdoppierà. Normalmente si andava prima in Chiesa per il rito religioso più suggestivo e solenne, poi in Municipio per il rito civile, una mera formalità. Con mezzi propri i parenti si trovavano per tempo a casa degli sposi, ciascuno presso quello di sua competenza. Lo sposo e i parenti suoi in corteo, si muoveranno verso casa della sposa. Questi al fianco della madre o di una donna della famiglia, apriva il corteo, dietro in fila per due, ogni uomo si accompagnava sempre ad una donna offrendole il braccio destro. Raggiunta la casa della sposa, il corteo dello sposo si accodava al corteo della sposa che precedeva al braccio del padre. Da ultimi i ragazzini in festa e ai lati gli occasionali spettatori e gli altri ragazzini a chiedere: cià i binìs, dateci i confetti. Attorno al corteo si improvvisavano ad alta voce frasi suggerite dalla circostanza, stornelli in rima tramandati dagli anziani come quello che suonava così: “un stè da ris e na sciavata l’è la spusa du la Busaca“, riferimenti e significati che oggi ci sfuggono, ma che indicano come anche noi, oggi appiattiti su ritualità diventate nostre solo per imitazione ed omologazione, avessimo le nostre stornellate di circostanza. Quando gli sposi erano di due paesi diversi, il matrimonio si celebrava nella Parrocchia della Sposa. I parenti dello sposo si facevano così trovare nei pressi del sagrato pronti per disporsi in corteo al seguito del corteo della sposa. Enrico Riganti descrive così lo sposalizio religioso “Tutti gli sposalizi erano belli, mi sembra di sentire ancora le nostre armoniose campane suonare a distesa, l’aria di festa, la Chiesa aperta, la lunga passatoia distesa dall’Altare alla porta, Don Massimo sulla porta della Sacrestia col Piviale dorato, i chierichetti con la veste rossa, quel brusio in chiesa mentre arrivavano gli sposi, l’organista Guglielmino Sommaruga, che al cenno del sacrista all’affacciarsi della sposa sul portale, dava con entusiasmo alla tastiera la marcia nuziale di Mendelssohn. La cerimonia nuziale, sempre fastosa perché così Don Massimo desiderava che fosse per tutti, terminava con la benedizione e il bacio degli sposi alla reliquia della Madonna.” All’uscita della chiesa tra il vociare dei ragazzini che reclamavano a gran voce i confetti, si faceva sempre piu impaziente, e incontenibile, la curiosità delle donne che volevano vidè la spusa per apprezzarne il vestito. Ogni sposa infatti, soprattutto nel primo dopoguerra, vestiva ormai il tanto agognato abito bianco da tull e urganza, tulle e organzino. La modernità aveva sostituito il vestito classico di seta nera e “ul vèl, con un cappellino da modista“ e aveva purtroppo mandato nel dimenticatoio i famosi cuazz e i furzelin d’argent le forchette a spilloni in argento che impreziosivano l’acconciatura delle spose antiche. Finalmente gli sposi sotto braccio prendevano la testa del corteo verso la Casa Parrocchiale, arrestandosi nei pressi di quel bellissimo portone d’onore che si affacciava sulla piazza San Giorgio. Gli sposi e i testimoni entravano nel giardino della canonica lussureggiante di canne e palme e dalla porta finestra, che vi si affacciava, accedevano allo studio del Sig. Parroco per firmare il registro di matrimonio. Ricevevano gli auguri e le raccomandazioni del Parroco e non mancavano di offrire i confetti, la sposa poi, rinnovando una tradizione tutta nostra, offriva al Parroco un fazzoletto finemente ricamato ul panét. Il significato di questo gesto pare fosse l’auspicio che, con le preghiere di quell’amato uomo di chiesa e con l’aiuto e l’intercessione della Vergine, la nuova famiglia fosse protetta il più possibile dai dolori che la vita purtroppo porta sempre con sé. E quel fazzoletto simboleggiava il dolore, che almeno per quel giorno felice ed irripetibile e per tanto tempo ancora rimanesse il più lontano possibile. Usciti dalla canonica, mentre il corteo si dirigeva verso la casa degli sposi, questi con i testimoni salivano su una carrozza ul landeau per raggiungere il municipio. Nella casa nuziale facevano bella mostra i regali e sotto la topia o sotto i portici infiorati e addobbati, gli invitati prendevano finalmente posto al banchetto nuziale che si preannunciava veramente allegro, con tanti canti, stornellate e danze. Per tempo sa curdäva ul coeug, ci si garantiva la prestazione di un cuoco, il Sig. Giovanni Caruggi o il signor Carlo Tondini. Essi provvedevano anche tutto l’occorrente per la cucina e per la tavola: stoviglie, posate e tovaglie date a nolo. Allora erano solo i signori del castello a poter disporre di tutto l’occorrente per tavolate così numerose. Indispensabile poi l’aiuto di valide donne per lavare piatti e posate al succedersi delle portate, mentre alcuni giovani servivano in tavola. Non poteva mancare il risotto, piatto forte col pollo arrosto, il pane casereccio e l’ottimo vino della Coperativa, quello fatto coi piedi, nel senso di pigiato coi piedi. Alla fine la turta di spus con le noci e la sposa che fa omaggio dei fiori del Bouquet alle amiche. Un auspicio perché anch’esse presto potessero sposarsi, magari con quel ragazzo incontrato per la prima volta, proprio lì per quella festa di nozze. Buona norma, comunque non offensiva o malvista, quella che gli invitati portassero a casa in un scartuzèl, cartoccio, ciò che fosse avanzato. Chi non disponeva di uno spazio adatto in casa o paventava l’inclemenza del tempo, avendo programmato le nozze in autunno, prenotava il salone superiore della Coperativa di Consumo e approfittava dell’ occasione per mostrare a parenti ed amici i grandi saloni di quel sodalizio del quale, tutti, si era con orgoglio soci. Se un nostro giovane si sposava fuori paese, dopo la cerimonia religiosa e gli adempimenti civili, lo sposo con la sposa e tutti gli invitati salivano nelle carrozze per tornare al paese del marito, gli invitati però sapevano che, quasi sempre, dovevano affrontare la fatica di rimuovere dalla strada del ritorno la tradizionale sbaräda- la sbarrata. Succedeva che i giovani compaesani della sposa usavano sbarrare, con tronchi di alberi, la strada sul limitare del paese al corteo delle carrozze che avrebbe strappato loro, per sempre, la coetanea andata in isposa ad uno straniero. Inconsciamente ciò rappresentava un omaggio alla sua bellezza quasi un ultimo gesto per trattenerla. Subire la sbarrata era dunque di buon auspicio. Era consuetudine ritrovarsi a pranzo anche il giorno successivo al matrimonio, par fa rabatin ancora con la presenza degli sposi, per i quali non esisteva il viaggio di nozze. Si poteva così far fuori tutto quello che si era avanzato e ridere commentando gli scherzi preparati a loro insaputa, come quelli di far trovare oggetti vari nel letto nuziale. Finite le feste di matrimonio, le spose novelle che entravano in paese per seguire lo sposo, venivano appellate col nome della località di provenienza. E ancora oggi le si ricordano coi soprannomi di : “Bigugiära per indicare Buguggiate – Lüräga – per Lurago nel comasco, Viéna che ne denuncia la provenienza austriaca- a Galarà– a Créna– a Sulbiära – da Solbiate, a Valdärna, a Carnäga, a Besnà, a Sésòna, a Menzäga, a Milanésa, a Travaìna-, a Cardana” . I nostri compaesani erano quindi gentili nell’ indicare le nuove spose. Nei paesi circostanti invece le ragazze che provenivano da Jerago erano individuate col soprannome del paese “A Baslot” e questo evidentemente non piaceva né a noi, quando le sentivamo chiamare così, e tanto meno ai loro mariti; fu comunque una usanza antica, se anche il povero Renzo nell’ospitale terra di San Marco si offendeva a sentir chiamare Baggiana la diletta Lucia.