(Dalla agricoltura alla industrializzazione- 1870-1920, note di Anselmo Carabelli)
Il mondo del lavoro ha sempre presentato una gerarchia di ruoli e di competenze al suo interno e le espressioni dialettali con medesime radici anche se con suoni un poco diversi nei vari mandamenti industriali, offrono utili considerazioni. La ricorrente espressione di padron, in origine atteneva al proprietario della fabbrica in quanto tale, ma chi lavorava all’interno di essa si rivolgeva al titolare con l’espressione di pricipäl, che evidenziava antica familiarità tra proprietario ed i suoi collaboratori. In effetti esso aveva potuto costruire una fabbrica tutta sua, grazie a doti di intelligenza di volontà e di rischio, sempre e con l’aiuto di una moglie operosa in casa ed al lavoro che l’ea stai a so fortuna, vigile e silenziosa sostituta quando egli era fuori per clienti. E non fu raro il caso che venendo a mancare, per i normali ed infausti casi della vita il fondatore, fosse stata proprio la moglie a sostituirlo, svolgendo il duplice compito da tirà grand i bagaj, allevare i figli e purtà innanz a butega, nell’attesa che diventati grandi sostituissero il padre precocemente morto. Il nostro aveva messo in piedi un laureri–impresa e raramente difettava di quella spontanea umanità che, gli veniva dal provenire dal medesimo tessuto sociale dei dipendenti e di conseguenza essi lo stimavano come un primo, un principes inter pares, principäl dunque, primo nel lavoro, ma per il resto pari a loro. Era perciò normale che principaj e uperari la domenica frequentassero le stesse osterie e giugasan a càrti insema – giocando a carte assieme. Se poi le ditte invece prendevano una consistenza di grandi imprese, ecco che fu necessario formare delle gerarchie. Al principal si sostituisce ul diretur, ed ogni reparto si inquadra con un cap. Ul cap repärt cunt ul so galupin,[1] cioe colui che porta gli ordini ai subalterni, ul cap scuädra, i capitt . Alla umanità dei padroni si era aggiunto contemporaneamente il paternalismo espresso nelle opere di solidarietà che portano ancora il nome dei benefattori. Si pensi per esempio alla nascita dei nostri ospedali[2], coi reparti finanziati dalle famiglie di coloro che verranno chiamati capitani d’industria. Il loro nome risuona ancora nella intitolazione degli antichi padiglioni e in molte altre opere sociali necessarie per mantenere viva l’umanità ed il mutuo soccorso in un mondo che si trasformava rapidamente ed arrischiava di emarginare gli ultimi. Ad una società di regiù e masere, si stava sostituendo una società di famiglie mononucleari, alla mutualità della famiglia patriarcale, doveva lentamente, ma necessariamente sostituirsi una mutualità sociale, costellata da cooperative, ospedali , asili e scuole. Sicuramente il tessuto sociale, in trasformazione stava producendo anticorpi benefici, ed a questo fu lievito la Chiesa, si pensi a Don Bosco, alle figlie di Maria Ausiliatrice che si faranno carico, della educazione e della assistenza dei bambini piccoli, quando le mamme erano al lavoro, le numerose società operaie di mutuo soccorso, coi banchi sociali alimentari. Nel trasformarsi delle società personali in società anonime o di capitale, quando la butega diventa dita l’abilità della proprietà di imprese, non più a misura di uomo si misurerà nello scegliere i capp capi e siccome nemo est profeta in patria, molte volte capitò che per porre fine a discussioni, incomprensioni ed odii si andasse a prendere un direttore di fuori, straniero,[3] possibilmente un tudesc, un cruco memori ancora del timore e rispetto che i funzionari del mai dimenticato impero austro ungarico sapevano incutere. Si sperava che questo straniero, abile nella tecnica, poco pratico della lingua, non si sarebbe perso in sterili italiche discussioni, volgendo teutonicamente all’ obbiettivo. Ma inizialmente ogni gerarchia si basò sul naturale riconoscimento del merito dei primi collaboratori e da lì presero forza le nostre imprese. Distinguendosi pertanto il termine principal dal termine padron, col tempo questo acquisirà una connotazione negativa. Soprattutto col formarsi di una coscienza di classe contemporaneamente all’affacciarsi in fabbrica dei figli e dei nipoti dei primi proprietari, che avendo studiato sui libri, savean na riga pusè dul silabäri, volevano far vedere come si fa a fare i soldi. Disdegneranno il circolino della briscula a ciamà, per più esclusive compagnie. Costoro, per distinguerli dai rispettati fondatori venivano definiti, nasù in dul teren dul canuf,[4] nati in un periodo ricco e quindi, se non ben guidati ed educati alla gavèta[5] con un tirocino di fatica in fabbrica, potranno anche ignorare i sacrifici condivisi coi dipendenti, e quando nelle fabbriche nascerà la lotta sindacale saranno un facile bersaglio per l’iconografia operaia del sciur padron da le bèle braghe bianche. Ma quella canzone mal si adatta alle nostre realtà, perchè fa riferimento ad un mondo agricolo dove il contrasto tra il ricco, pigro e grasso latifondista ed il mondo dei braccianti era più che palese, ma quello non fu mai il nostro mondo agricolo. Le nostre terre erano troppo poco produttive, perché si fosse formata una proprietà latifondista, in sostanza mancavamo dei casali tipici della pianura padana irrigua. I secoli avevano consentita una diffusa proprietà di terreni magri con cascine anche malmesse, che avevano costretto i figli in soprannumero ed emigrare. Ean andai in Merica[6] a fa fortuna, prevalentemente in Sud America. Ma erano tornati, e molti anche con i soldi necessari per comperare terreni, che proprio perchè di poco valore, i proprietari nobili avevano venduti o stavano vendendo. Da queste storie venivano i primi operai e i primi artigiani e i primi imprenditori. Forse lo si apprezza da un detto che era tanto caro alle nostre famiglie, ogni volta che si faceva riferimento ad un nonno o ad un parente prossimo di simpatie socialiste lo si indicava come un socialista, ma da qui giust. Uomo tosto, tutto di un pezzo, di quelli che con l’avvento del fascio verrà emarginato da qualsiasi attività, non avendo voluto piegare la testa ai nuovi padroni del vapore, ma era stato rispettato e forse non solo perché vecchio, ma autorevole. Bene quando questa nonna definiva il papà, cioè il bisnonno un socialista, ma da qui giust evidentemente, lei che aveva fatto solo la quinta elementare, voleva evidenziare la diversità di un ideale di uguaglianza condiviso, rispetto all’ateismo scientifico del serpeggiante massimalismo che non fu mai nostro. Un socialismo, che unitamente al popolarismo cattolico nasceva anche come contraltare ad un liberismo che semplificava la povertà e l’emarginazione ritenendo che chi è causa del suo mal pianga se stesso, quasi che i poveri fossero causa della loro povertà. Si diceva anche Quel li al ga ne leg ne fed associando il rispetto della legge umana alla conoscenza ed al rispetto degli insegnamenti della Chiesa. Ma il vecchio nonno fu sempre pronto a piegarsi ai desideri della moglie quando gli richiamava i doveri di buon cristiano, l’è domenica bisogna andà a mesa, l’è Pasqua bisogna anda a cunfesass. Ecco quelle persone, che poi erano ragazzi del 1870, furono i primi a servirsi del treno per andare a lavorare a Milano, o a Varese, furono testimoni dei fermenti di classe e le rimasticarono adattandole alla nostra vita. Il loro ideale, sfociò nel desiderio di darsi da fare per migliorare le condizioni dei compaesani, attraverso l’associazionismo per esempio nella Cooperativa o nella Banda musicale, che non furono connotate politicamente. La Cooperativa fu associazione di operai artigiani ed imprenditori, il parroco ne fu presidente. Lo stare insieme di quegli uomini rispondeva alla necessità di migliorare le condizioni di vita dei soci, offrendo mutualità nei confronti di una sorte che poteva presentarsi difficile. Si pensi ancora alle mutue sanitarie, famosa ed ancora attiva quella di Besnate, alle condotte mediche. Contemporaneamente. Verso la fine del XIX secolo si prese coscienza della necessità di partecipare alla gestione della cosa pubblica, dapprima affidata ai notabili[7], unanimemente riconosciuti come i sciuri, ma nel senso buono del termine. A l’è un sciur si diceva, con riferimento alla nobiltà ed al censo e anche in questo caso, mai disgiunto da una consorte o da una famiglia sempre attiva nelle opere di bene[8]. Molte volte si distingueva tra puarit e sciuri dicendo ul Signur di Puarit rivolgendosi a Nostro Signore, per distinguerlo dall’altro quel di sciuri cal ga i curnitt il demonio. In molti casi si parlava di un gran signore come di un signuron. Ma se nella memoria, come a Busto Arsizio rimane il dispregiativo sciuazzu, vuol pur dire che ce n’erano anche di indisponenti e cattivi, cioè di quelli che dovevano guardarsi dal ciapin, quello che acchiappa, in altre parole che ti porta all’inferno. Altro argomento che non possiamo ignorare fu la permeabilità sociale. In effetti se dividiamo la popolazione in classi sociali, la divisione poteva essere fatta per censo, cioè ricchezza raggiunta, ma se si escludono i nobili, i quali nasean gia cul marì destinò, non si e mai frapposta divisione fra persone se non per la ricchezza raggiunta se si vuole, ma la ricchezza non la si negava a nessuno, se questi aveva voglia di rischiare e di lavorare mettendosi in proprio. Certo doveva partir da una piccola ricchezza di famiglia, al duea mia veg i pè frec. Per il resto poco importava la famiglia di provenienza, in sostanza un brau fieu pa a me tusa era l’ambizione di ogni madre. E quanto agli studi essi sono sempre stati ritenuti utili ed interessanti, basti rifarsi al detto lengi, studia, impara, fa il dovere- leggi studia impara e fa i compiti a casa.
[1] Galupin o Galoppino in meccanica è detta la ruotina oziosa che tende la catena per evitare che scarrucoli, in sostanza fa da aiuto per il trasferimento della forza motrice
[2] Gallarate, Somma, Busto, Varese
[3] Michaud per la Rejna ad esempio.
[4] Questa espressione fa riferimento al terreno per la coltivazione della canapa o canuf, quindi un terreno molto concimato, grasso, e per la traslazione vuol significare nati in un periodo ed in una famiglia diventata ricca, molto distante da quella prima famiglia di imprenditori che fecero sacrifici immani per far fronte ai numerosi debiti necessari per diventare proprietari dei mezzi di produzione
[5] a gavetta e tratto dal linguaggio militare e fa riferimento alla gamella o recipiente per la distribuzione del rancio alla truppa. Nel linguaggio operaio il mangiare viene portato in una schisceta.
[6] Si noti come nell’eloquio, di persone con poca confidenza con la scrittura l’America diventi La Merica per cui correttamente diventerà, correttamente andà in Merica. Non diversamente da quando si diceva L’Aradio per indicare la radio. Montevideo è stato un luogo elettivo per la nostra emigrazione
[7] G. Bianchi , Cornaggia Medici- Sindaci di Jerago con Besnate e con Orago
[8] l’ Asilo infantile Ippolita Bianchi Gori nasce per volontà e con la donazione della famiglia Bianchi (fratelli Senatore Giulio e sorella Ippolita Bianchi maritata Gori – benestanti Milanesi Proprietari del Castello di Jerago) e con l’affido nella conduzione alle Rev. Suore figlie di Maria Ausiliatrice (salesiane) – Ma gli anni e le vicende sono simili per tutte le pari istituzioni nei paesi del Gallaratese