LE PIANTE DA FRUTTA E I FRUTTI

La frutta compariva sulla nostra tavola quando c’era, cioè quando maturava, ma senza particolare interesse, quasi per caso, perché la funzione principale delle piante da frutto era quella di intercalarsi ai pali di castano per reggere la vite. Fatta eccezione per l’innesto, non vi era alcuna particolare tecnica colturale per quegli alberi, li si potava giusto il necessario per non lasciarli crescere troppo. E poi agli anziani non gradiva che fossero sfrondati in eccesso raccomandando moderazione agli improvvisati potatori : quel ram lì lasél a stà, quel lì tajél nò parchè al gà i fiur, ma racumàndi e così di seguito, tanto che il povero operatore doveva rassegnarsi a una misera ed insufficiente spuntatina. Preoccupati com‘erano di garantirsi tanta produzione non si accorgevano che, così facendo, favorivano la crescita di numerosi frutti, ma tutti piccoli . Pumèi, persaghit, mugnäg, perit e scirés, non ricevevano alcun trattamento chimico ed era normale che fossero abitati dai cagnot vermi, in particolare le ciliege, delle quali ridendo ci si chiedeva se di venerdì non rompessero il precetto del magro. Queste quando maturavano verso i primi di maggio, rappresentavano per noi bambini una irresistibile attrattiva. In frotte di discolacci, si andavano a cogliere sugli alberi avendo cura di scegliere quelli che il tempo e l’esperienza ci avevano insegnato offrissero le migliori qualità. Sorretti dai più grandi, che facevano da scala, si saliva su tronchi dalle fronde maestose, abboffandoci di gustosissimi frutti e strappandone a rami interi per chi fosse rimasto a terra. Si badava anche di conservare quelle con doppio peduncolo unito, da offrire alle bambine che avrebbero gradito posandole a cavaliere delle orecchie. Quante volte le ciliegie erano troppo acerbe e quanti mal di pancia ci avrebbero regalato. Sull’albero si rimaneva comunque sempre in campana con l’orecchio teso ad anticipare l’arrivo del contadino, che non doveva sorprenderci. Eravamo profondamente convinti che, se anche ciò fosse accaduto, mai avrebbe attuate le sue tremende minacce, era stato ragazzo anche lui e ci avrebbe sicuramente perdonati. Lo temevamo come si temono quei vecchi cani da guardia che abbaiano più per onor di firma che per convinzione, ma se lo avesse detto al papà, questo sì ci avrebbe fatti tremare!. Mi sono accorto dei tempi cambiati, quando ho notato le ciliegie marcire sui rami, così come tanta altra frutta. Ma più ancora quando ho visto ragazzi, che per dispetto hanno divelto una intera pianta di pesche lanciandone i frutti come fossero palle da tennis. Ben lontani i tempi di quando tutta la frutta veniva raccolta e accorgendosi di qualche frutto rimasto, le nonne ripetevano, riecheggiando insegnamenti evangelici, che non ci affannassimo, perché anche gli uccelli dovevano pur vivere. Mi interessa la storia dell’albero dei caki, introdotto all’inizio del secolo a motivo della  conservabilità invernale dei suoi frutti. Molto presto furono disprezzati per la falsa nomea di essere cancerogeni e forse, ancor più, per il fastidio dello strano sapore che rimaneva  in bocca quando li si  addentava non maturi, ean rap come si diceva in dialetto, legavano il palato.

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Quell’albero, quando non sia stato abbattuto, rimane ancora nei nostri giardini una sicura risorsa invernale di sperduti uccellini, i quali ad albero completamente nudo di foglie, ne svuotano i frutti lasciandone gli involucri come palle di vivo arancione, appese ad un inusuale albero di Natale. E come non ricordare, le nespole che si mettevano a maturare in cascina in dul cas dul fen nel mucchio del fieno, o i zinzurlit  azeruoli piccoli frutti rossi ricchi di semi, ul curnà il corniolo con frutti simili ad olive, i nus le noci cui l’adagio associava che: partagà i nus, fa via la nèv, mazà la gent, l’è tüt laurà fài par nagòtbattere il noce per far cadere i frutti, ammazzare la gente, spalar la neve, è lavoro inutile, dal momento che già la natura vi provvede se si ha la pazienza di attendere. Ma l’albero di noce ritenuto malefico non godeva buona fama presso i vecchi, che raccomandavano di non lasciarlo crescere nell’orto perché avrebbe fatto morire tutte le verdure. Esso si riabilitava nel dire che pan e nus l’è un mangià da spus mentre si sostiene che : nus e pan l’é un mangià da can. L’adagio potrebbe fare intuire un antico pane matrimoniale lievitato e cotto con noci sminuzzate nella pasta e a gherigli interi anche sulla superficie, una brusella matrimoniale insomma. Mangiare invece noci con pane, nel tentativo di rifare un banchetto di nozze sarebbe proprio disdicevole, quasi un mangiar per cani. Ottimi ed apprezzati i fig, quelli piccoli nostrani le cui piante, con l’ausilio della golosità di qualche passero, nascono da sole negli anfratti alla base dei muri e si sviluppano in zone assolate, protette dalle prime brezze settembrine. Ricordo mia nonna Ida Tomasini, di Orago che lamentava come il vento gelido della valle dell’Arno, impedisse ai fichi di maturare, così le mie prime uscite in bici furono verso la sua casa per portarle cestini di fichi appena raccolti e lei mi mostrava in che modo i nostri vecchi li seccassero al sole per conservarli. La fretta e l’impegno nelle attività industriali, associati alla scarsa qualità dei nostri frutti ed ad una maggiore disponibilità di soldi, offrirono l’opportunità agli ortolani di aprire le loro prime botteghe. Tra questi il Sig. Alessandro Bogni Bogn, che rimasto invalido si industriò a coltivare verdura e piante da frutta in un terreno nei pressi dei Ronchetti. Raccoglieva gli ortaggi e la frutta che sistemava sul suo carrettino da spingere a mano dal Rià fin verso la piazza. Più tardi con l’avanzare dell’età mise al carro un asnin, un grazioso asinello di piccola taglia e si spinse fino a Solbiate, ma erano tanto apprezzate le sue verdure che già prima di arrivare alla piazza erano tutte vendute. Nessuno avrebbe però mai prestato fede alla vanteria che il suo terreno fosse cosi fertile, che una sola pianta di Cornetti, dall’orto dei Ronchetti, abbarbicandosi ai filari delle vicine viti del castello riuscisse a svilupparsi fin quasi a Besnate. Rivedo in particolare il Sig. Gaetano Alberio Ruel da Rovello Porro suo luogo di origine. Egli oltre a tenere negozio in via Cavour, dove serviva la sorella Annetta, per tutti noi zia Nèta, con l’ausilio di un indimenticabile motocarro stracarico di cassette di frutta, di mele di sacchi di patate con la indispensabile stadera per pesare, raggiungeva un vasto numero di affezionate clienti ad Orago, a Solbiate, ad Oggiona. A me in particolare colpiva quel suo mezzo da lavoro a tre ruote, dai colori bianco e azzurri, che grazie alla amicizia col figlio Massimo potevo ammirare fermo in quella che una volta fu la stalla del cavallo. Ci si sedeva con Massimo in sella ed aggrappati al grande manubrio ci si buttava, ora su un fianco, ora sull’altro per simulare curve da gran premio . Modulavamo il rombo del motore con la bocca e ingaggiavamo con la fantasia irripetibili tenzoni motociclistiche. Ma quando quel motofurgone si muoveva, alla guida del Signor Gaetano era di una potenza meccanica unica, equipaggiato com’era dal monocilindrico Guzzi. Esso, quando potenziava la versione da strada, si diceva sviluppasse ogni culp cinc metar cinque metri per ogni colpo di pistone, ma in versione da lavoro, come quella, trasformava il veicolo in un autentico mulo di ferro che niente avrebbe fermato tanto meno le nostre brevi ma toste salite. Anzi il diffondersi in valle del suo possente e inconfondibile rombo teso all’immane meccanica fatica dell’affrontarle, avrebbe sicuramente richiamate per tempo le numerose clienti. Altro ortolano, fu il Sig. Santino Cassani Santin, che aveva negozio di fronte alla chiesa di San Giorgio sull’angolo con via Mazzini, abilissimo nell’attrarre le clienti che uscivano da Messa Prima con la accattivante mostra di golose ceste di primizie. Amante di buona musica egli fu per lunghi anni il coordinatore ufficiale degli impegni della nostra banda, il glorioso Corpo Musicale S. Cecilia dalle 135 primavere . Sapendo di questo amore per il canto e della bonaria rivalità col Sig. Alberio, da ragazzi avevamo inventato sul refrain di  c ’est si bon, una nota canzone allora in voga,  questo ritornello oh c’est si bon– cunt cent franc tri limonul Santin ta na da dü- e ul Ruel vun da pù(oh c’est si bon- con cento lire tre limoni- Il Santin te ne dà due- e il Ruel uno di più). Oppure, quando si voleva far arrabbiare il Sig. Alberio “ Ul Ruel ta na da dü e ul Santin vun da pù.

Brano tratto da LE RICETTE DELLA NONNA Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose. Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940 di Anselmo Carabelli con Enzo Riganti

Presentazione al pubblico del libro di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti “Le ricette della Nonna”

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