
Per noi ragazzi degli anni cinquanta questi erano gli ingredienti classici della merenda pomeridiana, quando, verso le quattro la nonna ci preparava quelle indimenticabili leccornie. Il pane, la michetta del Mastorgio o dell’Alzati, il buter quello che si produceva in casa dopo aver scremato la panna dalla calderina, che riposava nella muschireula, o in alternativa una michetta con una stecca di cioccolato che si andava a comperare dal Turri , dal Ruel o al mercato dal Pedron e dal Bielin. Mi ricordo anche di tavolette avvolte nelle prime carte trasparenti, solo dopo lo avremmo chiamato cellophane, che consentivano di vedere la medaglietta di metallo con l’effige di un calciatore. Quel cioccolato, in realtà si trattava di surrogato, era una autentica schifezza, lasciava quello che oggi palati raffinati direbbero un retrogusto da medicina, però era l’unica possibilità di iniziare una collezione che solo i più abili avrebbero ampliato vincendole ad un gioco inventato o trasformato per l’occasione. Più concorrenti mettendosi in riga a circa tre metri da un muro, stringevano il dischetto con l’effige dell’eroe pedatorio, tra l’indice e il medio e lo lanciavano con abilità , chi arrivava più vicino al muro col suo lancio avrebbe vinto il dischetto degli altri giocatori, immaginatevi le risse. Ma la cosa più emozionante in estate, era quella ritrovarsi ad addentare quei panini nei prati, in allegra banda di marmocchi e correre verso i boschi. Che fortuna abbiamo avuto senza accorgerci, siamo stati gli ultimi a permetterci questi lussi , oggi manchiamo delle materie prime essenziali: un prato vicino a casa dove correre spensierati; i cortili, quando va bene sono parcheggi, i boschi meglio non parlarne; i nostri polmoni, come fossimo cozze, depurano l’aria dal pm10, ed allora i bambini è meglio stiano a casa a rimbambirsi alla televisione o coi videogiochi. La nonna moderna li ingozza di merendine, quelle light mi raccomando, così leggere da gonfiarli come palloni. Il burro è sparito, attenti al colesterolo, ma ritorna come grasso industriale sotto altre mentite vesti e che magari proprio burro non è ma condimento idrogenato. E lo zucchero, come era inarrivabile quel pane bagnato e zuccherato, cosi come la fetta di polenta rimasta, che tagliavamo di nascosto e pucciavamo nella zuccheriera, senza badare che i pezzettini di polenta sbriciolata ci avrebbero svelati alla mamma quali innocui ladruncoli, eum fai maron come si diceva in dialetto. Ma lo zucchero, non sia mai, meglio una caramella dolcificata senza zucchero, di quelle che sullo stick avvertono non più di quattro al dì, quasi fossero una medicina. Ed infatti se ne prendi di più, sono più efficaci del guttalax. Belli i tempi di quando per andar di corpo si usavano le pere cotte, zuccherate. Lo zucchero era ed è l’ingrediente principe dei dolci, ma comunque sempre un prodotto che si andava ad acquistare dal droghiere, che lo prendeva a palotti dal sacco di carta da 50 chili e lo pesava sui piatti delle bilance sopra una carta blu , la famosa carta da zucur che avrebbe poi avvolto in sacchetto. Certo ci voleva una tecnica particolare per fare quell’involto chiuderlo rapidamente, senza che i lembi si sciogliessero, altrimenti nella sporta della masera, oltre al danno di perdere il contenuto, sarebbe successo il finimondo. Zucchero dappertutto, nel borsellino bursin, e visto che solitamente prima di andare a far la spesa si passava in Chiesa, zucur anche in dul vel e in dul lbret di urazion –zucchero anche nel velo e nel messalino, che ogni mamma portava nella borsa. L’azzurro scuro della carta da zucchero si identifica anche con l’azzurro aviazione. Quanti sogni avrà mai suscitato nelle giovani di prima della guerra, avide e vituperate lettrici dei racconti della Liala, quel colore inequivocabile che caratterizzava le divise da parata degli aviatori, sulle cui maniche le alte righe d’oro ne qualificavano il grado. Quel bel tenente o quel capitano impavido, che oltre a popolare i sogni delle nostre, con fortuna si potevano intuire nelle carlinghe degli aerei, basati a Cascina Costa, quando con ardimento volteggiavano sui nostri cieli. A Cardano gli aerei li chiamavano Sguatuni così come Sguatè era il pilota, sostantivi derivati dal verbo sguatà che è il volare proprio di un uccello pesante: un’ aquila o più.modestamente un corvo; mentre di un passero si dirà cal sgura- vola .Vola così come ha preso il volo la mia fantasia nel ritornare agli anni dell’ infanzia.