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Restauro e manutenzione della Chiesa di San Rocco

Fonte immagine: Un popolo in cammino – disegno di A. Vanzini

Pubblicato su Un popolo in cammino nel 1992

La Chiesa di San Rocco è parte della parrocchia di Jerago. Manutenzione e conservazione sono di stretta competenza della parrocchia. Naturalmente al Parroco don Angelo si affianca il “Comitato di San Rocco”, per massima parte composto da volontari del Rione, che attraverso varie iniziative si preoccupa di raccogliere quanto necessario per le ristrutturazioni.

Ora e´stata restaurata la Madonna del Carmine. E´desiderio vivo piu´volte espresso da quanti amano San Rocco ripristinare l´intonaco in calce, nel quale le tonalita´beige, bianco sporco erano date non solo dalla vetustà, ma dal tipo di sabbia (quella locale che si trova nelle piccole cave dei nostri boschi e che era di tono beige-ruggine); mettere in evidenza tutti gli elementi di mattone, perche´proprio Jerago era sede di importanti  fornaci; ripristinare il vecchio altare con pala al centro in considerazione della originale dedicazione al Santo.

L´attuale vista dell’abside con un effetto peraltro molto bello, non è quella voluta dall’  originale pietà popolare.  Si verrebbe così a ricreare quella caratteristica penombra, propria degli ambienti settecenteschi, molto più invitante alla meditazione.

L´eliminazione poi, dell´attuale massiccio altare postconciliare ridarebbe equilibrio a tutto l´insieme.

Storia della Chiesa di San Rocco

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Mese di Aprile

dipinto raffigurante San Giorgio e il Drago realizzato dal Sig. Gianfranco Battistella per la Chiesa Vecchia di San Giorgio restaurata – si notino ai lati le raffigurazioni degli ex parroci don Remo Ciapparella e don Angelo Cassani

Tratto  da ” Le ricette della Nonna -cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose – nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940”, a cura di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti, Tipografia Moderna, Collana Galerate, Gallarate, 2000

Celebrate le festività pasquali troviamo la Festa del S. Patrono: “ ul San Giörg”.

L’effigie del patrono a cavallo che uccide il drago contrassegna le nostre campane, appariva bellissima sulla facciata della vecchia parrocchiale, nel grande affresco del Tagliaferri, rimane ancora sullo Stendardo dei Confratelli, sulla croce Capitolare, ed è affrescata sulla volta della chiesa nuova dal pittore Orsenigo e sul quadro ad olio dell’ingresso laterale . Come non ricordare il San Giorgio della bandiera bianca della Unione Giovani Cattolici . Nel 1931 per ordine ministeriale, tutte le associazioni cattoliche nazionali dovettero essere sciolte, i dirigenti furono diffidati dallo svolgere attività e fu imposta la consegna dei simboli all’autorità. I Carabinieri si presentarono a Don Massimo per eseguire l’ordine. Egli rispose loro che quel simbolo non si trovava nella casa parrocchiale e forse, nel merito, poteva essere più preciso il Presidente Mario Paoletti. Il Carabiniere garbatamente lo tranquillizzò invitandolo a non preoccuparsi perché anche lui “ era un giovane cattolico” ; la bandiera fu così salvata. Con la stessa determinazione don Massimo difese anche le nostre Campane dal conferimento obbligatorio, ordinato nel periodo bellico, nascondendole sotto la terra del vecchio Cimitero della Chiesa.

Le campane della antica chiesa di San Giorgio In Jerago – Uno dei primi concerti di campane del famoso fonditore varesino Bizzozzero

Ul San Giörg”

Si è sempre celebrato la domenica successiva al 24 aprile, data della ricorrenza, e veniva preceduto da un  triduo di preparazione.

Domenica 30 aprile 1944

Ricordo di Vergerio Quinto

Ripubblichiamo un ricordo del soldato jeraghese Vergerio Quinto apparso a firma del commilitone Giovanni Balzarini sul giornale parrocchiale Un popolo in cammino nella primavera del 1995. Riportiamo per fedeltà la scansione di quelle pagine pubblicate originariamente in occasione della scomparsa del nostro concittadino

Merlüz in pastela 

fonte immagine: ricette.donnamoderna.com

(Ricetta sig.ra Giulia Bollini Carabelli)

Ingredienti:

 – per la pastella: 1 uovo, 1 dl. di latte, 5 cucchiai di farina, sale.

 – per il merluzzo: 800 gr. di merluzzo già lavato

Per la pastella : in un recipiente di vetro si sbattono insieme il latte, la farina, l’uovo, il sale e si amalgamano bene fino ad ottenere un composto di consistenza sufficiente per aderire ai pezzi di merluzzo precedentemente preparati e asciugati.

Si immergono i pezzi di merluzzo nel recipiente con la pastella rigirandoveli e lasciandoveli per 10/15 min.

A parte si fa friggere olio abbondante in padella larga e bassa, quando bolle immergervi i pezzi di merluzzo ricoperti di pastella e farli cuocere per 5 minuti da un lato e per 5 minuti dall’altro, comunque fino a doratura. E’ bene assicurarsi che le carni siano ben cotte. Si posano su una carta assorbente e si servono ben caldi. Si accompagna con patatine fritte a fiammifero o con insalata verde.

Lo si serve il Venerdì della settimana di Carnevale.

Modi di dire dialettali jeraghesi

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Pubblicato su Un Popolo in Cammino – anno 1997

Öeuv in ceraghin -uovo al Chierichetto. Si chiama così perché ricorda l’abito rosso e bianco dei chierichetti nelle occasioni solenni. Quando per un motivo qualsiasi una persona in casa mette il broncio e non dà risposte di proposito, per i vecchi “la mett giò i Quarantur”. Se per sfuggire al caldo si chiudono tutte le imposte e le porte di un locale, a Jerago si diceva che “Se fa ul Scureu da San Carlo” con evidente richiamo al buio e al raccoglimento dello Scurolo del Venerdì Santo. In quel “scapa Signor ca ghe rivo’ i Muradur” si fa riferimento al fatto che l’eloquio dei “Magutt” non era certamente dei più consoni ad orecchie pie e non solo per il disastro che essi producevano, perché “par fa urdin bisogna fa un disurdin”. La semplicità con la quale si rispondeva alla “Curona dul rusari”  e che richiamava la collegialità con la quale tutte le persone valide  rigiravano il fieno in fila sul prato, faceva dire che “a vultà ul fin e a  di rusari in bon tucc da restà in pari”. Quando una persona dà fastidio la si manda “a fass Benedì” o a “Bacc a sunà l’organ” con rifermento al fatto che in quel di Baggio a Milano l’organo era dipinto sul muro. L’invito a non frequentare cattive persone si esprimeva con un “dà mia tra a quel lì, cal ta fariss perdi Mèsa anca al dì da Natal” (non dar retta a quello che ti farebbe perdere Messa anche il giorno del S. Natale). “Andà a sculèta” indicava la frequenza all’insegnamento per gli adulti. “Ul Fuiett dul Curad” è l’antesignano de Un Popolo in Cammino che don Luigi Mauri iniziò col nome di Voce del Parroco, aveva le dimensioni di un foglietto litografato sulle due facciate e veniva diffuso settimanalmente in tutte le famiglie. Ogni famiglia lo pagava 100 lire e permise di finanziare i lavori per l’Auditorium. La pesca e L’incant di Canestar  erano altre fonti di raccolta di fondi per le opere Parrocchiali. Nella casa si aspetta “Ul Sciur Curad” per la “benedizion da Natal” e la mamma – Masèra si fa punto di orgoglio perché “a cà la sia lustra me na Cana da fusil – la casa brilli come una canna di fucile”, nella cucina è sempre appeso un “Crusin”: piccola Croce offerta dal Parroco il giorno della prima benedizione della casa nuziale. La camera da letto presenterà sempre ul “Quadar da a Madonna cul Bambin in brascia – Madonna col Bambino in grembo” posto sopra la testata del letto ai cui lati potevi ritrovare anche “L’Aquasantin e ul quadrett di Devuzion” l’acquasantiera riempita con l’acqua che si andava a prendere in chiesa di Sabato Santo e il quadretto con le preghiere della buona notte. Una persona che gode di una cattiva salute di ferro sarà “Mezz in Gesa” (Quasi in Chiesa per il suo Funerale). All’uomo che generalmente sbianca al primo impercettibile dolorino, paventando chissà quali brutti mali, la moglie si rivolge ironica con un “te set lì c’al par ca te ghet i Oli Sant in sacogia – Sei lì bianco e smunto come se ti avessero già data l’estrema unzione”. L’ultima destinazione terrena di uno Jeraghese è la “Pigna” dal toponimo del sito del Camposanto.

Putisc

fonte immagine: cannamela.it

Premessa e ricetta

La putiscia sta alle tortelle come i brüsej stanno ai dolci. Fu l’antica tortella di quando si era poveri e si disponeva di pochi ingredienti, ad esempio non vi era il lievito per dolci. E’ semplice perché basta mettere due uova intere in una scodella aggiungere due cucchiai di farina, due cucchiai di zucchero o anche meno, amalgamare. Poi si versano un paio di cucchiai del composto nell’olio bollente di un pentolino, che spesso per risparmiare era l’ultimo olio che rimaneva quando si fa un fritto. La peculiarità della putiscia era quella di essere piatta e ben cotta. Ottenuta dopo che la si fosse girata sui due lati, messa a sgocciolare su di un canovaccio e servita zuccherata. Deve ricordare una piccola bistecca.

In Memoria di Carlo Scaltritti – Jerago 18-1-2016

(testo letto al termine della Messa con Esequie di Carlo Scaltritti)

Grazie Carlo per la tua frequenza assidua alle attività del Gruppo di San Rocco cui si affida la tutela dell’Oratorio dedicato al Santo. Oratorio che raccoglie tante testimonianze della devozione di un quartiere e di tutti noi che abbiamo quella chiesa nel cuore. Erano preziosi i tuoi suggerimenti, sostenuti con la tenacia che ti era propria, perché tutto all’interno ed all’esterno fosse efficiente in ordine come il luogo richiede. Apprezzabile il tuo impegno perché la porta di ingresso fosse aperta, per la devozione di chi recandosi al cimitero, voleva pregare presso l’immagine delle Antica Vergine del Carmelo, accendere un cero, dire una orazione. Quanta soddisfazione coglievamo nel tuo sguardo, quando il giorno delle Palme osservavi la processione che prendeva le mosse proprio dal Sagrato sempre molto affollato per raggiungere la Chiesa Parrocchiale. Ti abbiamo visto ancora recentemente, con fatica, salire i gradini dell’ingresso aiutandoti a quel corrimani che proprio tu avevi insistito fosse installato per la necessità di chi col passare degli anni era diventato più debole.

Suoni ancora per te, oggi  quella campana, con la quale ci invitavi alla Messa del Lunedi. Ti accolga con affetto la nostra Signora del Carmelo cui tanto eri devoto.

fonte immagine: https://www.beweb.chiesacattolica.it/edificidiculto/edificio/14314/Chiesa+di+San+Rocco

Presentazione a cura di Elio Bertozzi del libro “Le ricette della nonna” di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti

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Siamo nel periodo classico della dominazione viscontea. Ottone, da buon politico pensa a perpetuare nella sua famiglia il potere civile. Ottiene dal Consiglio Generale la nomina del pronipote Matteo Visconti, figlio di Teobaldo a cui Napo Torriani mozzò la testa sulla piazza di Gallarate, aveva un fratello chiamato Umberto e uno zio detto Pietro. Nella divisione dei beni paterni, fatta nel 1288, ai due fratelli toccarono le terre di Somma, Golasecca, Vergiate, Lonate Pozzolo e Ferno, e allo zio, con Besnate, Albizzate, Crenna, Rovate, Solaro, Brunello e Massino, anche Jerago.

Jerago, che Bonaventura Castiglioni, nella prima metà del Cinquecento, indicava con il termine Hieracium. Jerago anche vicus villaggio romano, che con il termine Algerago troviamo in una pergamena del 1178; detto Alierage nel Liber notitiae sulla fine del Duecento: scritto Mierago nel 1455 e, dal Cinquecento in poi, come sottolineava lo scomparso storico Monsignor Eugenio Cazzani, è presente nella documentazione ecclesiastica con la forma Alierage. Insieme con Jeragum permarrà sino alla fine dell’Ottocento, quando si cominciò ad usare,anche per atti ecclesiastici, la lingua italiana. L’etimologia suggerita, infine, da Dante Olivieri vuole Jerago, dialetto Jeragh, derivato da Alliaricus. Aggettivo dal nome personale Alliarius, da ritenersi un personaggio, distinto per censo e per virtù civico–militari, il quale lasciò il nome al locus da lui abitato.

Posto in una posizione preminente, sovrasta la vallata. In tempo si diceva che Jerago venisse derisa, di fronte da Oggiona che sembrava beffeggiarlo dal culmine del colle, detto Monte Oliveto. Da secoli, i due paesi, a guardarsi in eterna sfida, anche se nessuno,mai, si mosse ad affrontare l’altro. Jerago mostrava ai vicini le sue chiese: la vecchia, con il suo alto campanile e la nuova in stile romanico. Ma paladino ne era in particolare l’antico castello, cui ben si adattano questi versi di Olindo Guerrini nel suo Canzoniere:

 “ O passegger che per la via diserta

 affretti il passo

 leva la fronte tua verso quest’erta “.

Balconcini con eleganti ringhiere, terrazze, posterle, torrette, bertesche, spalti, barbacani, avancorpi, merli: tutto l’apparato di un vero castello feudale. Sopra passavano nubi bianchissime, che adornavano il cielo di una tenuità di spuma. Passano da secoli. Le avranno guardate la castellana, il signorotto, il paggio, l’armigero, la comare. Nubi che raccolsero pensieri e segreti, sogni delusioni e che, ancora oggi, con il loro attuale “carico”, scivolano dolcemente sugli immensi campi vellutati del cielo che sovrasta la vallata su cui campeggia Jerago.

La riscoperta della cultura locale, alla quale assistiamo ormai da vari anni, ha favorito la produzione, recente, di volumi dedicati alla storia di singole località o di specifici aspetti della vita dei tempi passati. Alcuni di tali libri si limitano ad una semplice rielaborazione di argomenti già presentati da altri, senza offrire al lettore sostanziali novità nei contenuti. Il volume di Anselmo Carabelli ed Enrico Riganti si discosta nettamente dalle pubblicazioni consimili sia per argomento che per originalità. E’ ambientato in un singolo paese: Jerago, ma coinvolge una cultura che riguarda tutto il Seprio; è dedicato ad un tema principale: la cucina tradizionale, ma ci informa su una molteplicità di usi, costumi, detti, proverbi, significati.

Frutto di una lunga ed appassionata ricerca  “sul campo“ offre al lettore un quadro del mondo contadino del buon tempo antico, con un pizzico di nostalgia, ma senza dimenticare che la vita continua ad evolversi ed a progredire.

La lettura è snella e piacevole per tutti: gli Jeraghesi ritroveranno l’anima del loro paese, oltre alle ricette di pietanze più volte gustate, altre parimenti appetitose, ma anche tanti ricordi e tante curiosità. I non Jeraghesi riscontreranno incredibili somiglianze con fatti ed usanze dei rispettivi paesi. I lettori di una certa età ricorderanno il sapore di un mondo che ancora esisteva durante i loro anni migliori, anche se già avviato al declino, i più giovani avranno il gusto di scoprire come vivevano i loro coetanei quando non c’erano le discoteche e la televisione. Mondo migliore o peggiore? Semplicemente un mondo diverso: l’aria era più pulita, ma mancavano tante comodità, non c’erano i soldi ma la vita era più genuina. Non beghe legali, fiscali o aziendali, però contrasti di paese, più semplici, ma non per questo spesso meno amari.

In tutta la trattazione domina, com’è giusto, il dialetto, senza tuttavia escludere dalla lettura chi non lo capisce o chi non lo parla più. Anzi proprio costoro potranno gustare alcune espressioni interessanti, che magari provengono direttamente dalla lingua latina o francese o tedesca.

A questo proposito mi pare che quanto scrisse Cesare Cantù oltre 150 anni fa, nella sua semplicità, sia tuttora il più valido orientamento per il lettore:

“il nostro parlarsi sopra estesissimo tratto, con modificazioni locali …. Dell’antica origine gallica fa esso fede nella pronunzia dell’ u dell’oeu  (feug se peu); degli an, on, en, nasali (pan, porton, ben) nello scempiare spesso le consonanti e mutare la z in s; oltre un grandissimo numero di voci, non adottate nella lingua italiana e viventi nella francese, ben distinte dalle poche lasciatevi dalla recente dominazione  e dalla moda. Chi ode il dialetto di Marsiglia, può scambiarlo pel milanese, mentre a fatica è intellegibile ai Francesi, e la somiglianza è tanto più notevole, in quanto che già si riscontra nelle poesie de’ i Trovadori, poeti provenzali del XII secolo, e non solo quanto a parole, ma anche a forme grammaticali.

Nel Varon Milanes, opera di un Capis ampliata da un Milani, si cercano radici greche a molti vocaboli lombardi, con quelle solite stiracchiature per le quali le etimologie son divenute un giochetto simile a quello delle sciarade: ma certamente alcuni ve n’ha di derivazione latina e di greca e non conservatasi nell’italiano: pochi n ha di tedesca, moltissimi invece di spagnola, senza contare la fratellanza delle due lingue. Il nostro dialetto nel plurale non discerne l’articolo maschile dal femminile ( i fioeu e i tosann); l’articolo indeterminato distingue dal numerale (un omm, damenn vun); i numerali due e tre forma diversamente pel femminile  (du sold, do lir; tri foeuj, tre pagin); alcuni plurali ha differentissimi dal singolare (om e omen, tosa e tosann, casa e ca , boeu e bo) usa un suono della s ignoto al toscano ( s’ciopp);…alla tedesca pospone la negazione al verbo (mi so no) esclude affatto quelle inversioni che fanno arditamente bello l’italiano“.

Come si nota quasi tutti i popoli europei hanno contribuito alla formazione della lingua dei nostri avi e quindi delle nostre radici. Forse la nostra preoccupazione riguardo la cosiddetta società multietnica del futuro è esagerata. Forse, soprattutto a patto che non si dimentichi il passato.

                                                  Elio Bertozzi

Don Carlo Crespi

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Il giorno 29 maggio 1945  arriva in Jerago parrocchia di San Giorgio, quale vicario spirituale, proveniente dal Collegio Nicolò Tommaseo di Vimercate,  dove era direttore spirituale.

Era nato a Mezzago nel 1899 e consacrato  sacerdote nel 1930 dal Card. Schuster, dopo aver prestato servizio militare. Ordinato sacerdote fu coadiutore di Inzago, nel 1933, assegnato alla parrocchia di S. Maria Nuova in Abbiategrasso e nel 1935 coadiutore a san  Gioachimo in Milano.  Sfollato a Vimercate per i bombardamenti di Milano, fu nominato  direttore spirituale del Collegio Arcivescovile Niccolò Tommaseo. Il 5 agosto 1945, prese possesso canonico della Parrocchia presente il Prevosto di Gallarate Antonio Simbardi.

Il 30 sett. e il 1° ott.  furono dedicati ai festeggiamenti molto belli e all’insaputa del festeggiato che aveva espresso il desiderio “che non si facessero spese“.

Mons.  Cazzani  nel libro Jerago traccia questo ritratto: ”La permanenza di don Carlo Crespi a Jerago non fu lunga. Assiduo al Confessionale, attento alle funzioni liturgiche, che celebrava con fervore e con dignità, si dimostrò particolarmente premuroso verso gli ammalati. Accanto al letto degli infermi dimenticava sè stesso, i suoi fastidi, la stanchezza: quasi ringiovaniva. Sorridente si accostava a loro comunicando serenità. Ogni ammalato aveva la certezza che don Carlo era venuto per lui e per lui solo.”

Durante la sua permanenza don Carlo Crespi accolse a Jerago il Card. Schuster in Visita Pastorale.

Nel 1952  don Carlo rinunciò alla Parrocchia e fu nominato cappellano dell’istituto per lo studio e la cura dei Tumori a Milano, dove per un ventennio profuse le sue energie nell’assistenza spirituale dei malati.

L’ultimo incarico e residenza fu al Cottolengo di Cerro Maggiore come cappellano e ospite, dove si spense il 25 luglio del 1975. La sua salma è sepolta a Mezzago.

Il presente testo, estratto dall’archivio parrocchiale di Jerago, è stato redatto da Anselmo Carabelli, che vuole aggiungere un ricordo personale: “Ero piccolo quando Don Carlo fu parroco di Jerago, lo conobbi all’ospedale dei Tumori. Non dimenticherò mai una  festa del Corpus Domini all’Ospedale dei Tumori di Milano, quando Don Carlo portando il Santissimo in processione tra le camere e i malati dell’ospedale, lo avvicinò al letto della mia Mamma, lì ricoverata, arrecandole immenso conforto”.

Pan buter e zucur- pan e ciculat- pane burro zucchero e  pane e cioccolato- Ricordi di Anselmo Carabelli

fonte immagine: ricette.eu

Per noi ragazzi degli anni cinquanta questi erano gli ingredienti classici della merenda pomeridiana, quando, verso le quattro  la nonna ci preparava quelle indimenticabili  leccornie. Il pane, la michetta  del Mastorgio o dell’Alzati, il buter quello che si produceva in casa dopo aver scremato la panna dalla calderina, che riposava nella muschireula, o in alternativa una michetta con una stecca di cioccolato che si andava a comperare dal Turri , dal Ruel o al mercato dal Pedron e dal Bielin. Mi ricordo anche di tavolette avvolte nelle prime carte trasparenti, solo dopo lo avremmo chiamato cellophane, che consentivano di vedere la medaglietta di metallo con l’effige di un calciatore. Quel cioccolato, in realtà si trattava di surrogato, era una autentica schifezza, lasciava quello che oggi palati raffinati direbbero un retrogusto da medicina, però era l’unica possibilità di iniziare una collezione che solo i più abili avrebbero ampliato vincendole ad un gioco inventato o trasformato per l’occasione. Più concorrenti mettendosi in riga a circa tre metri da un muro, stringevano il dischetto con l’effige dell’eroe pedatorio, tra  l’indice e il medio e lo lanciavano con abilità , chi arrivava più vicino al muro col suo lancio avrebbe vinto il dischetto degli altri giocatori, immaginatevi le risse. Ma la cosa più emozionante in estate,  era quella  ritrovarsi ad addentare quei panini nei prati, in allegra banda di marmocchi e correre verso i boschi. Che fortuna abbiamo avuto senza accorgerci, siamo stati gli ultimi a permetterci questi lussi , oggi manchiamo delle materie prime essenziali: un prato vicino a casa dove correre spensierati; i cortili, quando va bene  sono parcheggi, i boschi meglio non parlarne; i nostri polmoni, come fossimo cozze, depurano l’aria dal pm10, ed allora i  bambini è meglio stiano a casa a rimbambirsi alla televisione o coi videogiochi. La nonna moderna li ingozza di merendine, quelle light mi raccomando, così leggere da gonfiarli come palloni. Il burro è sparito, attenti al colesterolo, ma ritorna come grasso industriale sotto altre mentite vesti e che magari proprio burro non è  ma condimento idrogenato. E lo zucchero, come era inarrivabile quel pane bagnato e zuccherato, cosi come  la fetta di polenta rimasta, che tagliavamo di nascosto e pucciavamo nella zuccheriera, senza badare che i pezzettini di polenta sbriciolata ci avrebbero svelati alla mamma quali innocui ladruncoli, eum fai maron  come si diceva in dialetto. Ma lo zucchero, non sia mai, meglio una caramella dolcificata senza zucchero, di quelle che sullo stick avvertono non più di quattro al dì, quasi fossero una medicina. Ed infatti se ne prendi di più, sono più efficaci del guttalax. Belli i tempi di quando per andar di corpo si usavano le pere cotte, zuccherate. Lo zucchero era ed è l’ingrediente principe dei dolci, ma comunque sempre un prodotto che si andava ad acquistare dal droghiere, che lo prendeva a palotti dal sacco di carta da 50 chili e lo pesava sui piatti delle bilance sopra una carta blu , la famosa carta da zucur che avrebbe poi avvolto in sacchetto. Certo ci voleva una tecnica particolare per fare quell’involto chiuderlo rapidamente, senza che i lembi si sciogliessero, altrimenti nella sporta della masera, oltre al danno di perdere il contenuto, sarebbe successo il finimondo. Zucchero dappertutto, nel borsellino bursin, e visto che solitamente prima di andare a far la spesa si passava in Chiesa, zucur anche in dul vel  e in dul lbret di urazion –zucchero anche nel velo e nel messalino, che ogni mamma portava nella borsa. L’azzurro scuro della carta da zucchero si identifica anche con l’azzurro aviazione. Quanti sogni avrà mai suscitato nelle giovani di prima della guerra, avide e vituperate lettrici dei racconti della Liala, quel colore inequivocabile che  caratterizzava le divise da parata degli aviatori, sulle cui maniche le alte righe d’oro ne qualificavano il grado. Quel bel tenente o quel capitano impavido, che oltre a popolare i sogni delle nostre, con fortuna si potevano intuire nelle carlinghe degli aerei, basati a Cascina Costa, quando con ardimento volteggiavano sui nostri cieli. A Cardano gli aerei li chiamavano Sguatuni  così come Sguatè era il pilota, sostantivi derivati  dal verbo sguatà che è  il volare proprio di un uccello pesante: un’ aquila o più.modestamente un corvo; mentre di un passero si dirà  cal sgura- vola .Vola così come ha preso il volo la mia fantasia nel ritornare agli anni dell’ infanzia.