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Panorama di Jerago dall’alto del Campanile (inizio anni ’90)

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Premessa ad una raccolta di studi sul Campanile e sulla Chiesa  restaurata di San Giorgio in Jerago 

(testo di Anselmo Carabelli)

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Fin da  studente, ho sempre nutrito interesse verso le ricerche di storia locale antica, in particolare per l’attenzione verso queste discipline suscitatami da un indimenticabile insegnante del Liceo Statale di Busto: il Professor Don Carlo Costamagna.[1]

Grazie poi alla cortesia di Don Luigi Mauri, parroco di Jerago, ho potuto anche consultare l’Archivio Parrocchiale quando ancora era sito nella demolita canonica. Lo stesso archivio, fu poi riordinato da Monsignor Eugenio Cazzani per interessamento di don Luigi e di Monsignor Francesco Delpini,  dotandolo di regesto, estremamente utile per qualsiasi studio mirato[2].

Ovviamente le necessità della vita quotidiana, accostandomi agli studi economici aziendali ed alle relative conseguenti attività, mi avevano fatto relegare negli interessi dimenticati tutte quelle prime ricerche.  Ma a conferma che sono sempre stati gli uomini di Chiesa a custodire e a suscitare interesse per la storia e per l’arte, l’incontro con don Angelo Cassani, successore di Don Luigi Mauri  mi ha riavvicinato  a quegli studi rinverdendo quella passione che credevo ormai di aver accantonata. Don Angelo mosso da grande amore, per la nostra storia, nel corso dei lavori per ridare voce alle campane del nostro borgo, che da troppo tempo rimanevano mute per inagibilità del campanile,  intuì che il campanile fosse assai antico e testimone sicuro, quanto ignorato, della millenaria fede cristiana delle nostre genti.  Affrontò con successo un’opera, da tutti ritenuta impossibile, il recupero della torre campanaria e del Complesso seicentesco della chiesa di san Giorgio,  quando ormai erano quasi ridotti a fatiscenti rovine. Grandissima l’emozione di constatare, nel corso del restauro, che la muratura del campanile ritenuta seicentesca, o addirittura ricostruita nel 1820, era invece millenaria e di una imponenza tale da fare intuire la presenza di un borgo antico assai numeroso. Iniziavo così, accogliendo l’invito di don Angelo una serie studi per supporto e  documentazione di quella impresa diffusi con scritti apparsi nel bollettino parrocchiale. Studi che oggi vorrei ripubblicare con maggiore precisione e compiutezza, anche come sincero grazie all’infaticabile opera di Don Angelo. Mi sono pure accorto come tanto interesse potesse indurre sofferenza, allorquando nascono divergenze, tra chi osserva professionalmente un monumento e vuole un restauro conservativo, e chi lo osserva in funzione didattica e storica, muovendo dal desiderio che le testimonianze di un passato, per essere riconosciute e rispettate, debbano anche essere leggibili, negli stessi parametri murari. Ne consegue che all’osservatore, debitamente guidato, deve essere  permesso di risalire in una visita alla nostra chiesa: dalla primitiva costruzione romanica, a San Carlo, al periodo Austro-ungarico, alla prima industrializzazione, ai nostri giorni e tutto questo senza affaticarsi in estenuanti ricerche di archivio o ricercando in poderosi volumi, con il risultato di perdersi. L’osservatore deve essere messo nella  condizione di emozionarsi al pensiero del muratore che con un colpo di cazzuola assestava quella pietra  alla base del campanile, che ancora  vedevamo, o stupire  della circostanza che affacciandosi ad una finestrella monofora del campanile in una ventosa e limpida giornata di febbraio, lo spettacolo delle Alpi è quello stesso che appariva a chi mille anni addietro si fosse trovato nella stesso luogo con la stessa luce. Il tempo quindi si poteva dilatare in un percorso a ritroso  che avvicina noi osservatori di oggi a quel muratore e quell’osservatore antichi per il tramite della comune fede cristiana.

Infatti solo un restauro che evidenziasse le varie fasi storiche del nostro monumento poteva meglio aiutare nell’opera di riconoscimento immediato delle nostre radici cristiane e della  vita medioevale del nostro borgo. L’entusiasmo di don Angelo coinvolse Carlo Mastorgio, che seppe individuare e mappare gli elementi inequivocabilmente romani presenti nel campanile, cosa che, come in altre realtà simili[3], ne avrebbe certificato la romanicità, pur in mancanza del dato archelogico. Questo fu inconfutabilmente individuato da Carlo in un elemento di suspensura[4] in cotto, tipico dell’ambiente di un calidarium romano, riusato come elemento decorativo nel parametro romanico del campanile.

Rilevata l’imponenza della costruzione millenaria Mastorgio volle anticipare, a conferma, il frutto di una sua laboriosa ricerca presso l’archivio capitolare del Duomo di Novara,  la notizia del ritrovamento, di un atto di permuta di terreni nel Seprio datato 976, che riportava la  presenza, come testimoni, di due individui: Taudalaberto ed Ato da Allierago. Poichè la potestà di testimoniare veniva attribuita solo a uomini liberi[5]; ne conseguiva che  nella  località medievale di Allierago- Jerago[6] doveva vivere  un congruo numero di famiglie legate all’attività di questi due personaggi. Una popolazione così numerosa da  giustificare la presenza di una Chiesa ed un Campanile di tale mole. Il Campanile lo avevamo ritrovato intatto e della antica Chiesa si vedevano alcuni parametri murari inclusi nei successivi ampliamenti.

Con un ulteriore intuizione e supporti di archivio, alla individuazione dei quali aveva già contribuito Mons. Cazzani, si poteva ricostruire la storia delle due Chiese antiche di Allierago San Giorgio e  San Giacomo, poi raggruppate nella comune parrocchia di San Giorgio [7].

Purtroppo Carlo Mastorgio, nonostante la giovane  età è venuto a mancare negli stessi giorni in cui la Sovraintendenza ritrovava l’antica abside della primitiva chiesa di san Giorgio, cioè quel supporto archeologico, che mancava a sigillo di quegli studi, ritrovata lì proprio dove assieme Don Angelo, Carlo Mastorgio e lo scrivente,  ritenevamo si celasse.

La miriade di documenti consultati e la frequentazione di Mastorgio, al quale chiedevo confronto su alcune mie ipotesi, mi aveva permesso di capire, che se lo studio di fatti antichi, era sicuramente affascinante, non era poi cosi urgente, soprattutto ora che la chiesa era stata salvata.  Rimane comunque la necessità di ordinare il materiale raccolto per facilitare il lavoro di chi volesse addentrarsi in uno studio aggiornato sulla storia alto-medioevale e romana dei nostri siti alle luce anche di queste nuove scoperte e di liberare il campo da interpretazioni azzardate precedenti a questi ritrovamenti.

[1] Egli soleva portare i suoi  allievi, in visita  alla Biblioteca Capitolare di San Giovanni in Busto, mostrando loro i preziosi Incunaboli  ed i codici miniati,  accompagnandoli anche  alle consuete visite alle città d’arte. Lui, di origine piemontese, si preoccupava di accostarli alla storia locale, si entusiasmava  in visita alla rovine di Casteseprio, a San Vittore ed al Battistero di Arsago, a Santa Maria Foris porta col suo ciclo di affreschi  inquadrando quei monumenti nelle vicende antiche del Seprio, con una passione ed una competenza raramente riscontrata in altri studiosi. E’ citato anche da Renato Farina  nel libro  “Luigi Giussani  un Caffè in compagnia”, pag. 53,  dove si legge: “Don Carlo Costamagna e don Luigi Giussani, preti milanesi, hanno diviso con l’arcivescovo di Bologna Enrico Manfredini gli anni di seminario …. costituendo negli anni 39-40 un gruppo di studi chiamato “studium Christi”,  pubblicando una rivista “Christus” dove Costamagna dice testualmente “ognuno sviluppava il tema secondo le proprie attitudini, chi artisticamente, chi letterrariamente, …. chi filosoficamente.” (n.d.r.: queste in nuce furono probabilmnete le radici di gioventù studentesca  prima e di Comunione e liberazione poi). Chi scrive infatti ricorda don Carlo responsabile in Busto di una iniziativa verso i giovani studenti che si chiamava raggio, tenuta presso Sedes Sapientiae e di aver partecipato su sua indicazione ad un raduno autunnale di GS  a Cattolica ed Urbino nel 1964- praticamente antesignano dell’attuale Meeting) .

[2] Regesto– elenco ordinato, per secoli ed argomenti del contenuto dei faldoni formanti l’archivio (i materiali versati all’archivio capitolare di Gallarate , sono contenuti nei faldoni in  fotocopia).

[3] La prassi vuole che negli edifici romanici databili da X. XI sec, siano sempre presenti elementi di recupero dalle preesistenti costruzioni romane.  Quali, ad esempio, monoliti con iscrizioni romane: come nel campanile di San Vittore di Arsago, o le Are romane  nel Campanile di Santa Eufemia ad Erba.

[4] Suspensura– trattasi di cilindro in terracotta rossa, tipo mattone circolare del diametro di 19 cm alto 12 cm che, con altri elementi simili messi in pila, consente la costruzione di una colonnina di 50 cm.  Per capirne la funzione bisogna riferirsi all’uso romano di riscaldare un ambiente in zone a clima freddo, come le nostre, o un bagno caldo (calidarium) in zone miti. Una stufa faceva passare aria calda in una intercapedine sottostante al piano di pavimento dell’ambiente da riscaldare. Il piano di calpiestio era sorretto da una selva di quelle colonnine disposte su linee geometriche ortogonali tali da permettere la sospensione dei mattoni formanti il pavimento, da cui il nome di pavimento in suspensura. Questi mattoni da noi prendono la dimensione del cosiddetto Luteziano (Lutaetia-Parigi  romana, nei cui scavi sono assai diffusi).  Molto più vicino si ritrovano numerosi nei parametri esterni della chiesa di Santo Stefano ubicata all’interno del cimitero di Oleggio (NO).

[5] Uomini liberi, per essere tali, secondo le regole del tempo, occorreva essere possessori di almeno 20.000 mq di terreno (cosa  assai poco comune all’epoca per degli uomini).

[6] Citato negli atti come luogo di provenienza dei due uomini liberi.

[7] In un capitolo successivo ci si addentrerà sulla questione della  appartenenza della chiesa di San Giacomo alla chiesa di San Giorgio, avvenuta per volontà di Federico Borromeo, tramite atto notarile, materia già trattata dal Cazzani, nel suo libro su Jerago.

Dal campanile romanico di San Giorgio al tempio romano di Jerago

Nei precedenti articoli ho messo in evidenza la presenza sul territorio di una comunità ben organizzata sotto il profilo agricolo e sufficientemente numerosa da poter costruire quel Campanile che ancora oggi apprezziamo. Da documenti del 1400 si evidenzia che la popolazione è composta da circa 14 fuochi (focolari-famiglie), che risiedevano nelle attuali zone del Cantoon (Can-Thun-zona chiusa o recinta), nel centro del paese attuale (tra le due piazze e una strada che iniziava al n. 6 di Via Cavour e proseguiva verso la facciata della Vecchia Chiesa tenendosi parallela al Vicolo Beneficio) e nella zona della Madonnina.

La antica struttura della proprietà (X-XI sec.) è in Mansi, cioè unità agricole condotte generalmente in regime di servitù o se condotte in regime di libertà limitatamente ad un periodo di 29 anni. Le proprietà sono del feudatario o della Chiesa. il Manso è un sedime di territorio sul quale sorge anche l’abitazione rappresentata da una capanna o da una costruzione più solida, è composto da 10 campi arativi, cinque dei quali lasciati a riposo per un periodo di 2 anni di attività, per garantire la fertilità del suolo; 2 vigne per la produzione del vino (ritenuto alimento), 3 boschi sono coltivati a “Maroni” o castagne per l’alimentazione invernale, un campo a “Zerbo” o bosco ceduo per la legna da ardere.

L’economia si mantiene stabile fino al 1300, quando le tecniche innovative della concimazione con strame di foglie secche e deiezione animali porteranno una migliore resa unitaria dei campi, con conseguente eliminazione del riposo forzato degli stessi e migliori condizioni di vita e aumento demografico dei residenti. Fatti storicamente comprovati dai successivi allargamenti della Chiesa vecchia di San Giorgio (si vedano i precedenti articoli). Nel 1000 non si conoscono “regulae” per l’uso dei boschi, come avviene nelle zone montane o pedemontane del Veneto. Il grave problema degli uomini nei secoli precedenti l’XI è quello della conservazione delle derrate agricole, prodotte per la sopravvivenza, nei periodi invernali. Ma se tale difesa, nel senso della conservazione, sarà guidata dalla millenaria saggezza nell’uso del metodo più adatto: salatura, essiccazione, costruzione di ghiacciaie; per la difesa dalle incursioni delle orde degli armati di passaggio ci si comportò attraverso il sistema dell’incastellamento.

Nasce l’uso di ricoverare, all’appropinquarsi del pericolo, le derrate in luogo forte e ben difeso, sufficiente anche a proteggere la popolazione. Il castello di Jerago in origine sorge per questa esigenza e dà vita a quel primo nucleo di fortezza costruita sulle rovine di una torre romana, appartenente al reticolo di avvistamento del castrum .

La residenza che noi vediamo oggi è certamente legata alle vicende viscontee, ma è il risultato della trasformazione di quelle remote strutture. Questo luogo di incastellamento si forma verso il VI secolo d.C. quando, con la caduta dell’Impero romano, viene meno quella grande potenza unificatrice che aveva trasformate le nostre zone di Carnago-Castronno-Crenna-Jerago-Albizzate-Besnate, in sede di accampamenti stativi, magazzini e retrovie necessarie al passaggio delle legioni romane verso le Alpi e il mondo germanico e verso le Gallie.

Accampamenti sorti per favorire e controllare i movimenti est-ovest: Aquileia-Brixia-Comum-Novaria-Eporedia, o sud-nord: Mediolanum-Ticinum-Verbanum-Coira.

Quando per le vicende storiche della caduta dell’Impero romano, queste zone persero la loro funzione elettiva, le locali popolazioni, che vivevano ai margini della presenza militare (in modo non dissimile da come oggi vive una città dove sia prevalente la presenza di caserme e militari) dovettero rapidamente imparare a convivere con i nuovi padroni e con i nuovi equilibri. Videro il sorgere di Castelseprio, dove gli antichi capi militari romani magistri equitum divennero potenti nel loro piccolo e fortificato mondo alle prese ora con  i Bizantini e poi con i Longobardi e con i Franchi. Videro il sorgere di Arsago longobarda e cristiana sulle rovine e con le rovine di quella romana. 

Molte zone precedentemente utilizzate dagli antichi romani, rese fertili grazie a canalizzazioni, furono abbandonate perché la popolazione si era fortemente ridotta e il bosco e la brughiera si ripresero quelle zone.Solo così  si spiegano i ritrovamenti del Prof. Bertolone in luoghi malsani e palustri che mai i Romani avrebbero frequentato.

La popolazione locale da una di quelle torri antiche abbandonate cavò anche i 300 metri cubi di sassi con cui si costruì il campanile.

Ecco questa storia sta racchiusa nel campanile e nella chiesa vecchia e con opportune indagini potremo capire se questa chiesa venne costruita su una antica Villa Padronale Romana, come la teoria suggerirebbe o come più probabilmente accadde essa sia una costruzione più recente, dell’VIII secolo, ove i materiali romani, sono presenti, ma non sono quelli nobili, are o sassi istoriati, ma mattoni, tegulae, suspensurae. I Benedettini autori della ricristianizzazione di queste zone avevano portato nelle loro sedi di provenienza i materiali più significativi.

La chiesa vecchia di San Giorgio in Jerago

In data 31 gennaio 1995 indirizzato a Don Angelo Cassani-Parrocchia di San Giorgio Martire-Jerago con Orago perviene un dispaccio della Regione Lombardia-Settore Cultura e InformazioneServizio Musei e Beni culturali, protocollo PG/ma n. 493/95, avente per oggetto la legge Reg. 14-12-1991 n. 33, con il quale si comunica la concessione alla Parrocchia di Jerago  di un contributo di Lire 1.356.000.000 finalizzato alla ristrutturazione della Chiesa di San Giorgio.

In tale documento sono contenute le indicazioni di tutte le pratiche da esperire e le modalità di rimborso.

Tale modalità prevede la restituzione del contributo in 10 quote annuali senza aggravio di interessi, a partire entro il 30 giugno del secondo anno successivo a quello in cui è avvenuta la prima erogazione.

Compito di chi scrive sarà quello di documentare l’importanza di questo atto che permetterà di salvare la Vecchia Chiesa dal suo inevitabile destino di rovina.

Le cronache ricordano che la Chiesa Vecchia cessò di essere utilizzata per la celebrazione della S. Messa dal 16 luglio 1927 e già dal giorno 23 luglio dello stesso anno verrà utilizzata come oratorio cinema e teatro parrocchiale dall’allora Rev.do Parroco don Massimo Cervini.

Tale utilizzo rimarrà fino al 21 maggio 1955 quando don Luigi Mauri potrà inaugurare il nuovo oratorio con annesso Auditorium Cine Teatro. Da quella data comincerà l’abbandono della Chiesa Vecchia. In effetti tutte le attese saranno verso la necessità di abbattere la Chiesa Vecchia per poter costruire al suo posto quegli spazi che effettivamente mancavano alla completa realizzazione dell’oratorio maschile. A questa soluzione, però si frapposero diversi ostacoli. In primo luogo la necessità di avviare nuovi lavori solo dopo aver finito di pagare i debiti, la scelta di affrontare prioritariamente altri lavori altrettanto necessari e da ultimo il divieto assoluto della Sovraintendenza ai Beni Artistici e Monumentali di intraprendere qualsiasi lavoro a qualsiasi titolo nella Chiesa Vecchia senza il suo benestare. Tralascio le circa 15 lettere intercorse fra don Luigi Mauri, la Prefettura, la Sovraintendenza, il Comune negli anni dal ’60 al ’70 aventi per oggetto la pericolosità della Chiesa Vecchia, la richiesta di abbattimento, i veti a procedere in tal senso e infine le richieste di contributi al restauro sempre accolti dalla controparte con un “manchiamo di fondi”.

Alla Chiesa Vecchia si addossava la Canonica con annesso cascinale che furono abbattuti nel 1961 per far posto alla nuova casa parrocchiale. Ma questa operazione mise maggiormente in evidenza il suo  volume architettonico molto interessante unitamente a quello del Campanile. Naturalmente questo non sfuggiva ai tecnici della Parrocchia, quali l’architetto Francesco Moglia, il quale, nello stesso momento in cui faceva perizie tecniche sullo stato del degrado del tutto, si preoccupava di far rilevare, con corrispondenza archiviata e indirizzata al Parroco di essere contrario a qualsiasi forma di d’abbattimento. Non dimentichiamo che i lavori degli spalti del Campo sportivo nel 1966 (come da rilievi fatti dalla ditta Consonda, all’epoca della ristrutturazione del Campanile) se da un lato consolidarono la massicciata su cui insistono sia la Chiesa Vecchia che il Campanile e l’Oratorio, furono causa di assestamenti nel terreno che forse provocarono fratture nella sagrestia vecchia e nel catino absidale, poi demoliti e pure causa della torsione del Campanile verso nord-ovest. Di questo tutti si resero conto nella impossibilità di continuare a suonare le campane. Le campane rimasero dunque mute per molti anni. All’inizio degli anni ’80, cominciarono pure a manifestarsi problemi al tetto della Chiesa Nuova con evidenti infiltrazioni di acqua. Anche sul versante dell’Auditorium, la nuova legge in materia di sale teatrali, praticamente inibì l’uso della sala per qualsiasi tipo di manifestazioni. Il Parroco don Luigi Mauri cercò di provvedere alle necessità immediate con manutenzioni ordinarie e privilegiando il desiderio suo e della popolazione di risentire il suono delle campane, commissionò alla ditta Perego il nuovo castello della torre campanaria in sostituzione di quello ammalorato.

Tale sua decisione rappresenta un punto di svolta nella generale convinzione che tutto il vecchio complesso dovesse essere abbattuto. Infatti pur essendo vero che la maggioranza della popolazione desiderava un Campanile funzionante, non era comune convinzione che si dovesse restaurare il vecchio: alcuni proponevano una torre in ferro affiancata alla nuova Chiesa, altri un campanile totalmente nuovo per il quale erano già pronti i disegni fin dall’inaugurazione della Chiesa Nuova.

Poi, come sempre, i progetti, si scontrarono con la dura realtà delle ristrettezze economiche e avvenne che furono riposti nel cassetto, unitamente alle polemiche che avevano generato.

Il Parroco don Luigi Mauri, a compimento della sua missione pastorale presso la Parrocchia di San Giorgio nel 1987, lascia la Cura al successore don Angelo Cassani.

Don Angelo si accorge subito della bellezza e dell’importanza di quei due beni architettonici che sono il Campanile e la Chiesa Vecchia e si propose di recuperarli.

In effetti questi due monumenti oltre ad essere artisticamente assai interessanti, sono lo scrigno che racchiude le radici della vicenda cristiana della nostra comunità e singolarmente di ognuno di noi. Basta riflettere, che proprio lì, in quella vecchia Chiesa, sicuramente fino dal 1300 hanno pregato i nostri antenati, si sono sposati i nostri nonni e hanno ricevuto il S. Battesimo i nostri genitori. Lì si è rafforzata quella fede condivisa con tutti coloro che hanno avuto la ventura di ritrovarsi in questa Parrocchia. Non si può passare del tutto indifferenti davanti a quei ruderi. Quante volte, troppe forse, abbiamo consentito la distruzione di quanto aveva l’unico difetto di ricordarci le privazioni dei tempi passati?

Breve storia delle campane del campanile di San Giorgio

La necessaria descrizione delle campane evidenzia che furono fuse negli anni dal 1820 al 1865, mentre si era sempre ritenuto, anche dagli storici, che esse datassero 1820.

Perche´dunque questo errore? Tentero´di spiegare, oltre a questo, anche perche´ si sono resi necessari gli odierni lavori attorno al nostro campanile.

Il primo documento certo sul concerto delle campane, redatto in una grafia impeccabile, propria dei tempi dell´imperial-regio governo austriaco, e´del 1820. Rappresenta un impegno notarile assunto dal parroco Giovanni Castagnola, solidarmente con i signori Franco e Pasquale Molla, Giorgio Caruggi, Giacomo, Giovanni senior e Giovanni junior Bardellini, Francesco Cardani, Francesco ed Antonio Puricelli a pagare in quattro anni le suddette cinque campane al fonditore Giuseppe Bizzozzero di Varese, sollevandolo pure dal rischio del trasporto da Varese a Jerago. Una assicurazione, insomma, sia sul trasporto che sulla solvibilita´del debitore nei confronti del creditore (cosa plausibile perche´un concerto di tale entita´corrispondeva ad un valore attuale di circa 250.000.000 di lire, ma la popolazione era meno numerosa).

In acconto di tale debito erano state versate le due vecchie campane del peso di 66 rubbi, gia´in dotazione del campanile romanico  e, successivamente, del campanile barocco.

Il campanile non era adatto alle dimensioni delle nuove campane e non lo sara´ fino alla ristrutturazione del 1991 (quella odierna per intenderci). Cio´era dovuto al fatto che le campane  erano  troppo grosse e non potevano ruotare all´interno  senza ostacolarsi. Nel 1820 fu quindi costruito un castello in legno che sostenesse le campane fuori dalla loggia stessa e tale castello, allora come adesso, fece si che le campane fossero quasi per tre quarti sporgente dalla verticale dei muri della torre. Ecco perche´ tutte le campane, ad eccezione della prima (la piccola che e´incernierata appena sotto la cuspide centrale) sono quasi completamente sporgenti ed il castello e´esposto in maniera violenta alla continua azione degli agenti atmosferici.

La campana piccola e´, pertanto, rimasta la stessa perche´ protetta dalla cuspide,mentre le altre, che in contrasto con l´anno di datazione del primo concerto (1820) portano date successive, vennero rifuse in quanto la rottura del castello in legno faceva si che le stesse, pur senza crollare, andassero a sbattere malamente contro le strutture danneggiandosi irreparabilmente.

Il concerto delle campane era stato inaugurato nel 1820 ma gia´nel 1832 il parroco, don Battista Maroni, fu costretto a sospendere il suono delle stesse perche´il castello era cosi´sconnesso e cosi´ logoro che le campane erano nell´imminente pericolo di cadere. La riparazione del castello in questione avvenne nel 1834 a cura del carpentiere Antonio Maria Bianchi di Sacro Monte e di Gaetano Cattaneo di Oggiona. Si giustificano cosi´le date di rifacimento delle campane: il 1834 per la quarta, il 1837 per la seconda (entrambe rovinatesi probabilmente nel 1832) e il 1844 per la terza.

Tutto filo´ liscio fino al 1865, quando la storia si ripeteva: Il castello di nuovo logoro, fu rifatto dal capomastro Bianchi Giovanni di Gorla e si provvide, nel contempo, al rifacimento della quinta campana, che era anche la piu´grossa. Il fatto di aver commissionato alla stessa fonderia la rifusione delle campane permise di mantenere la medesima intonazione.

Fattisi poi accorti della eccessiva delicatezza del  castello in legno, nel 1888 si provvide a sostituirlo con uno interamente in ferro, opera del meccanico Angelo Bianchi di Varese, “capomastro macchinista patentato”.

Da allora, fortunatamente, il campanile non sembra avere piu´storia; ci sono le solite riparazioni periodiche, ma nessun fatto degno di nota. Ma eccoci al 1943, esattamente il 10 luglio. Leggiamo nel “Liber cronicus”

10 luglio – la rimozione delle due campane maggiori

In seguito ad avviso precedentemente avuto dalla ditta Bianchi di Varese, oggi arriva una squadra di operai per rimuovere le due campane maggiori, del peso complessivo di circa 20 quintali. Il Parroco protesta che la richiesta fatta dall´Ente Rottami per ordine del Ministero e´di 6 quintali e che si rifiuta di darne di piu´, e non consegna le chiavi. In seguito arriva l´ingegnere Bianchi, della ditta omonima di Varese, accompagnato dal maresciallo dei carabinieri di Albizzate. Il Parroco chiarisce il suo punto di vista, l´Ing. Bianchi insiste per la consegna del 60% del peso complessivo delle campane, dichiarando che si assume ogni responsabilita´. Il Parroco consegna le chiavi rinnovando la sua protesta. E purtroppo il crimine viene compiuto. La popolazione tutta nel suo contegno dimostra tutta la sua avversione per l´inconsulto provvedimento.

12 luglio – Le campane rimangono

Oggi vengono calate le due campane e posate sul ripiano alto dell´oratorio, gia´cimitero vecchio. Incaricato del trasporto delle campane a Varese e´Tondini Paolo il quale ha la buona idea di chiedere consiglio al Parroco. Quindi il Tondini rifiuta l´incarico, tanto piu´ quando sa che le campane, per essere condotte via, dovevano ridursi in pezzi: e cio´per la difficolta´di calarle dal pianerottolo. E cosi´le campane rimangono a Jerago. Fino a quando? Speriamo per sempre.

20 settembre – Sepoltura provvisoria delle campane

Per evitare che una eventuale visita da parte dei tedeschi al nostro Oratorio possa dar occasione ad una eventuale requisizione delle due campane maggiori, troppo in vista, si pensa di dare loro una sepoltura. Alla sepoltura aiutano Delpini Antonio, Rabuffetti Gianluigi, i soldati fratelli Carlo e Vittorino….e Cardani Francesco. Per adesso sono salve…

27 aprile 1945

(…) dissotterrate le campane che da 20 mesi giacevano nascoste: una squadra di operai diretti dal capomastro Magistrali, da Scaltritti e da Paoletti preparano il ponteggio per innalzare le campane sul campanile.

30 Aprile

Oggi la campana piu´grossa sale al suo posto. Si puo´quindi immaginare la grande gioia degli jeraghesi nel vedere le campane di nuovo al loro posto. Ma quella gioia e quel tripudio paesano erano  destinati  a durare poco: don Massimo, che aveva scritto le parole sopracitate tre giorni prima, veniva a morire. E la persona che scrisse il diario di quei giorni annoto´testualmente: “ le campane che dopo la nuova sistemazione dovevano suonare a festa per la prima volta nella prima domenica di maggio, suonano l ´agonia del sig. Parroco.

 


 

Il Castello rifatto da Angelo Bianchi, in sostanza, resisti´fino all´anno 1967 quando, per gravi motivi di degrado sia dei vani di accesso al locale delle corde, che di pericolosita´ incombente, si decise di sospendere il suono delle campane che furono poi portate a terra nel giugno 1984 e collocate nel prato della canonica.

Il problema della precaria solidita´e´stato risolto nel corso dei recenti lavori di restauro in quanto l´ing. Emilio Aliverti ha progettato un´ incastellatura che, sita nell´interno del campaanile, oltre a svolgere la funzione di rampa di accesso alla loggia, scarica direttamente a terra la maggior parte delle sollecitazioni dinamiche e del carico statico proprie delle campane nel loro esercizio, eliminando radicalmente il grosso problema della manutenzione.

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IL GIORNO 16 LUGLIO 1991; RICORRENZA DELLA MADONNA DEL CARMINE; TRA LA ESULTANZA DEI PARROCCHIANI DI SAN GIORGIO E LA GIUSTA FELICITA´ DI  DON  ANGELO CASSANI LE CAMPANE TORNANO IN CIMA AL LORO CAMPANILE.

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Il restauro del Campanile della Chiesa di San Giorgio visto dalla stampa

Di seguito riportiamo copia di alcuni articoli relativi al restauro del Campanile di Jerago, apparsi nella stampa locale in quel periodo (1991)

 

 

Il campanile della chiesa di Jerago

Marzo 1991

di Anselmo Carabelli

La parte romanica del campanile di S. Giorgio vecchia, in Jerago, presenta le seguenti caratteristiche:

altezza dal piano piano della chiesa circa 16 metri, cui si deve aggiungere la cuspide piramidale in sassi, che e´stata successivamente asportata all´epoca della costruzione della loggia delle campane; tale cuspide poteva essere di 70 cm. circa, piu´croce in ferro.

Sezione perimetrale quadrata con lato di circa 310 cm. , costante alle diverse quote.

All´interno, nella parte cava di accesso alla cima, le mura si vanno riducendo, per dare grande staticita´all´insieme.

Esternamente i primi due ordini sono segnati da finestrelle monofore con arco in cotto, mentre il terzo ordine, attualmente coperto dal quadrante dell´orologio, dovrebbe celare una finestrella bifora, sede delle originali campane.

I sassi che formano la costruzione sono legati da malta ottenuta con impasto di calce idraulica e litta.

Un campanile similare, almeno nei primi tre ordini, e´sito a Lasnigo, nei pressi di Erba. Torri campanarie di origine romanica, osserviamo pure ad Arsago (S. Vittore), Buzzano  (bellissimo campanile, privato maldestramente della sua chiesa verso il 1950), ma il complesso che puo´offrirci maggiore spunto di riflessione, oltre naturalmente ad Arsago- S. Vittore, e´la chiesa di S. Donato in sesto Calende. Altrimenti nota come abbazia benedettina.

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                  Lasnigo- S. Alessandro (fonte immagine: exploratoridelladomenica.it)

Questi riferimenti sono importanti per una ricerca che tragga il supporto delle vestigia architettoniche. Infatti, a differenza dei documenti scritti che per questo periodo diventano estremamente rarefatti e di difficile interpretazione, spesso menzioni di cose viste da altri, cosi´non si puo´dire delle opere architettoniche che sono sotto i nostri occhi. In breve, negli anni attorno al 1000, le nostre localita´facevano parte del contado del Seprio; la zona di Angera, dal lago fino a Locarno, faceva parte del contado di Stazzona, vecchia denominazione di Angera,  e comprendeva il complesso architettonico di Santa Caterina del sasso Ballaro.

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Complesso romanico di S. Vittore in Arsago (foto di Francesco Carabelli)

Per rendere piu´apprezzabile il contesto storico, ritengo utile trascrivere alcuni brani da Corrado Barbagallo- Storia Universale- Vol. III – parte 1° – pag. 276 – U.T.E.T. Torino, 1968.

Con riferimento alla politica di Carlo Magno, l´autore sostiene: “… il piu´importante di questi fenomeni e´il giungere a maturita´dell´economia praticata dagli istituti religiosi: chiese, monasteri,  conventi…le chiese e i conventi soccorrono i loro coloni e fittavoli in momenti di carestia, li forniscono di bestiame da lavoro, pongono a loro disposizione il mulino per macinare il grano, il torchio per l´uva, dando ai loro dipendenti il mezzo di conquistare la piena proprieta´ del suolo, ricevuto in usufrutto, permettendo di ascendere dalla servitu´alla liberta´. E´questo uno dei punti piu´interessanti della storia economico-sociale del primo Medioevo- cosi´gli istituti religiosi, pur mirando al proprio interesse, incoraggiano il dissodamento di terre abbandonate, favoriscono la coltivazione intensiva del suolo, vanno trasformando lentamente le classi servili in ceti di liberi agricoltori”.

Fin qui il Barbagallo, con riferimento al IX secolo.

Dalla descrizione del campanile di S. Giorgio vecchia ci rendiamo conto che deve essere opera di abili muratori i quali conoscevano l´uso di strumenti e macchine, propri di corporazioni estremamente severe e gelose della loro arte, che lavoravano sotto la direzione di maestri provenienti da queste zone., prevalentemente Como, ma anche dall´attuale Canton Ticino. Li chiamavano “Magistri Comacini”, con riferimento alla loro terra di origine, o “Magistri cum macinis”, con riferimento all´uso di macchine e strumenti edili.

Fra loro vi erano molti scalpellini. Questi operai stavano dando prova di grande abili´ad Arsago, a sesto Calende, ad Albizzate (S. Venanzio), Castelseprio.

La piccola comunita´di agricoltori, che qui risiedeva, seguita e stimolata dai beneddetini dell´abbazia di Sesto, dissodando queste terre, abbattendo alberi, aveva recuperato una grande quantita´di sassi, che sarebbero serviti per i muretti di contenimento a secco sulla collina delle vigne (Vigneur), ma anche per la chiesetta di S. Giorgio.

SestoCalende_SanDonato

Abbazia di San Donato in Sesto Calende (fonte immagine: wikipedia.org)

Questa chiesa poteva essere la stessa descritta nel 1586 da Padre Leonetto Clivone (Cazzani, Jerago – la sua storia-pag. 65) che misurava mt. 12 x 9 ad aula rettangolare cui andava aggiunto il piccolo presbiterio” (ed essere in tutto simile, ad eccezione del portico. Alla chiesetta di san Giacomo, cosi´ come la vediamo ora. Nel 1596 il visitatore mons. Luigi Bossi dice che il campanile sta sulla parte settentrionale di detta chiesa ed  e ´a forma di torre. (Cazzani-supra pag. 67).

Tra il campanile, lato ovest e lo stesso lato del campanile visto pero´dall´interno della chiesa vecchia, vi e´una intercapedine sul fondo della quale si intravede il muro originale della vecchia chiesa con un bellissimo fregio che si richiama agli stessi fregi del campanile romanico.

Questo ritrovamento e´stato fatto da don Angelo Cassani e permette di stabilire coevita´romanica fra campanile e chiesa vecchia.

Il campanile, descritto gia´nel 1596 come “Turris”, era stato costruito con pietre ben squadrate, non con i sassi di risulta del disboscamento come per la chiesa vecchia, pietre che molto probabilmente i benedettini di  Sesto avevano fatto recapitare qui dal porto lacuale di Angera, proveniente dalle valli dell´Ossola.

Il motivo di questa costruzione, che supera le necessita´ della popolazione locale, ma che e´integrata in una rete di campanili e torri romaniche sopradescritte, era legato alla necessita´dei vescovi di Pavia di esercitare e controllare la propria influenza attraverso una rapida diffusione di messaggi con segnali acustici di giorno e luminosi di note.

A quell´epoca era il vescovo di Pavia che dall´abbazia di San Donato controllava i traffici fluviali del Ticino e del porto lacuale di Sesto, ed esercitava la sua influenza su Arsago.

Traggo queste considerazioni proprio osservando il comune uso del mattone di cotto e dei fregi, sia nelle finestrelle monofore del campanile di Jerago, che nell´abside della navata settentrionale di San Donato.

La storia letta nei nostri monumenti

La forte industrializzazione che ha caratterizzato gli anni successivi alla seconda guerra mondiale ha compromesso molto la visibilità e la stessa esistenza delle vestigia antiche, sia naturalistiche che monumentali che caratterizzavano il nostro territorio; gli anni sessanta del secolo ventesimo hanno coinciso con una sistematica distruzione di tutto quanto anche vagamente ricordasse un passato povero, pericolo dal quale anche oggi non siamo purtroppo esenti, con l’affannosa ricerca di aree edificabili che rischia di annullare quel poco di verde rimasto.

Solo la presenza di Enti e persone amanti del bello e della storia, riuniti anche in associazioni: la Società Gallaratese di Studi Patrii, le pro loco, sensibili  alla conservazione degli antichi cimeli,  hanno permesso di conservare e di salvare a futura memoria molte vestigia antiche ed interi monumenti, ed in questo elenco di volonterosi  non si ignori il grande impegno di molti uomini di Chiesa e delle Parrocchie.    

L’identificazione dei monumenti, il recupero, la conservazione, lo studio degli stessi, rappresenta il modo immediato di avvicinare il pubblico alla conoscenza della propria storia e delle proprie radici cristiane.

E’ pure necessario saper suscitare interesse verso quelle iniziative attraverso l’apertura al pubblico degli stessi monumenti e, con  una guida sapiente alla loro fruizione,  rinnovare  l’entusiasmo che permise l’inizio di molte avventure, artistiche, archeologiche, naturalistiche e culturali, ad esse associate  e  trasmettere alle future generazioni  l’amore per il nostro territorio .

La chiesa di San Giorgio Restaurata in Jerago è un esempio di queste attenzioni ed anche il Parco della Valle del Boia nacque come percorso natura con l’ottica di conservare un ambiente naturale fra i comuni di Besnate, Jerago con Orago e Cavaria con Premezzo.

 

Brevi cenni sulla Chiesa restaurata di San Giorgio in Jerago.

La chiesa come appare oggi è il risultato del restauro iniziato nel 1990 per iniziativa del parroco don Angelo Cassani, col consolidamento e recupero del Campanile, rivelatosi in corso d’opera Romanico, con il successivo  recupero dell’aula, così come appare oggi, e con il recupero del battistero e degli affreschi. 

La chiesa come  si può costatare è priva di ogni arredo sacro, perché dismessa all’uso del culto negli anni 20 del XX sec., col trasferimento degli stessi nella nuova parrocchiale. Da quegli anni comincia il degrado. Prima utilizzata come oratorio e aula di teatro e cinema parrocchiale, negli anni tra le due guerre, poi completamente abbandonata, con l’edificazione del nuovo oratorio e Auditorium, nonché della nuova canonica.

Un unico complesso parrocchiale di impianto sette-ottocentesco composto di: chiesa, campanile e canonica, con annessa cascina,  per la sussistenza del parroco, con equile per il cavallo e torchio di pigiatura delle uve e cantina; fu abbandonato al degrado. Scomparirono per demolizione la canonica e le cascine; negli anni sessanta, rimasero in attesa del loro destino: la Chiesa, detta vecchia, col tetto ormai sfondato e cadente, il campanile pericolante e privo di campane, che nel frattempo erano state posate a terra perché inagibili all’uso.

Si può ben dire che osservare ora questo monumento di Chiesa antica e Campanile ancora funzionante, rimessi in ordine e fruibili è fonte di grande soddisfazione. 

Un campanile prima ritenuto settecentesco si è rivelato, agli  esperti, di costruzione  millenaria.  Il pensiero che dall’alto di quella torre, oggi non più accessibile, per evidenti motivi di sicurezza, si possa osservare lo stesso spettacolo di alpi ammantate di neve che si offriva a chi mille anni prima si fosse trovato nelle stesse condizioni di luminosità e di clima, beh questo è veramente impressionante e straordinario.

Le campane della antica chiesa di San Giorgio In Jerago – Uno dei primi concerti di campane del famoso fonditore varesino Bizzozzero

(Testo e ricerche di Anselmo Carabelli)

I Campana- 

Senza decorazioni floreali, reca circolarmente la scritta: PAX DOMINI SIT SEMPER VOBISCUM ANNO 1820 (La pace del Signore sia sempre con voi) – BIZZOZZERI VARESIENSIS FECERUNT (fatta dai Bizzozero di Varese nell’anno 1820)

II Campana- 

Senza fregi, reca circolarmente la scritta: GLORIA IN EXCELSIS DEO ANNO 1837 (Gloria a Dio nell’alto dei cieli anno 1837)- FELIX BIZZOZZERO VARESIENSIS FECIT (fatta da Felice Bizzozzero varesino)

Reca il bassorilievo di un Evangelista, di un Vescovo, di Cristo risorto e della Madonna in Trono. In basso due cinesini (riconoscibili dal copricapo a pagoda) che portano  sulle spalle un bastone cui é appeso un enorme grappolo d’uva, una donna che insegna ad uno scolaro, un San Giorgio a cavallo, Il Crocifisso

III Campana– Senza decorazioni. Reca circolarmente la scritta: SALVA NOS DOMINE   VIGILANTES  ANNO 1844 (Salvaci o Signore mentre siamo nella tua attesa) FELIX BIZZOZZERO VARISIENSIS FECIT. Reca il bassorilievo di un apostolo, di San Pietro, di Maria con Il Bambino, di San Giovanni.

IV Campana– Decorata con fregi e grappoli d’uva. Reca circolarmente la scritta – A FULGORE ET TEMPESTA LIBERA NOS DOMINE ANNO 1834 (dal fulmine e dalla tempesta preservaci o Signore) FELIX BIZZOZZERO VARISIENSIS FECIT

Reca il bassorilievo della Madonna del Carmine, di Sant’Agostino, di un vescovo che sta inserendo in un sacco alcuni frutti, di Sant’Antonio da Padova. In basso una Crocifissione (Cristo in Croce tra la Madonna e San Giovanni).

V Campana– Decorata con fregi e festoni floreali. Reca circolarmente la seguente scritta: CONVOCO-SIGNO-NOTO-DEBELLO ARMA-DIES HORAS NUBILIA LAETA ROGO ANNO 1866 (convoco, segnalo, do notizia-respingo il nemico e le sue armi-Invito a pregare per i giorni e le ore serene, la pioggia e le nubi). BIZZOZZERO FELICE FECE

Reca il bassorilievo della Madonna che sciaccia la testa del serpente, di un angelo che protegge alcuni bambini, di San Giacomo. In basso la Crocifissione, un San Giorgio, la Trinità. Si nota una abrasione come se si fosse cancellato un motto od una parola.

La descrizione delle campane corrisponde a quanto visibile ancora sugli attuali bronzi e da me rilevato durante il lungo periodo che le vide inattive e posate a terra per  instabilità del campanile,  dal 1 marzo 1970 al 6 ottobre 1991. Solo  la ristrutturazione del campanile della antica Chiesa di San Giorgio consentì di apprezzarne nuovamente il  suono. Oggi le campane sono mosse a motore, ma fino al 1970 per suonare bene le campane e fare una bella campanata necessitavano 5 persone disposte alle corde delle campane. Le corde, dalla sommità del campanile scendevano nella cella alla base, cui si accedeva dalla sacrestia vecchia con una scala di sei gradini. Il locale era angusto e quattro persone vi stavano appena. La 1^ campana, campanella aveva la sua corda subito a sinistra della scaletta, la 2^ subito a destra, la 3^ di fronte alla seconda, la 4^ di fronte alla 1^. Cosicché la 5^ o campanone, cadeva al centro della scala fra la 1^ e la 2^ . Chi teneva il Campanone rimaneva sulla scaletta e comandava la partenza delle varie campane, questi fu per molti anni l’espertissimo sig. Giovanni Riganti. Iniziando il concerto, le campane venivano messe in piedi, a bicchiere, leggermente inclinate, perché fossero pronte a partire muntà i campann si diceva. Si iniziava con una drizza cioè si rilasciavano a scalare al comando di: prima, segunda, terza, quarta e campanon. Poi i quatar: segunda, terza, quarta e campanon.  I tri: terza, quarta e campanon. Così si variava il suono e si ricominciava con na riversa che partiva dal campanon, quarta, terza, segunda, prima. Tra le varie possibilità di suono, il campanat dava alcuni preavvisi: Sulbià, Albizà, Cavaria, ci si preparasse dunque ai virtuosismi propri dei paesi indicati. Con Albizà si richiedeva che nella sequenza, terza e campanone suonassero all’unisono a buciada. Elenco dei Sacrestani: Alabardi Alessandro – Molla – Balzarini Valentino – Riganti Celeste – Cardani Carlo – Alabardi Angelo – Pigni Romano ed Attilio.

Comunque da questa ricerca mi rimaneva ancora un interrogativo generato dalla discordanza fra i dati di archivio che datano la consegna del completo concerto delle campane  al  26 luglio del 1820 in Varese e la data impressa ancor oggi sulle singole campane. Quel giorno, sono ormai due secoli , otto jeraghesi , rappresentanti del Parroco Giovanni Castagnola, i sigg: Franco e Pasquale Molla, Giorgio Caruggi, Giacomo e Giovanni senior  e Giovanni  junior Bardellini, Francesco Cardani e Francesco Antonio Puricelli,  si erano recati nella fonderia Varesina di Giuseppe Bizzozzero  per ritirare il concerto di cinque campane. Firmarono una liberatoria accollandosi il rischio e il pericolo del trasporto fino a Jerago, garantendo inoltre ed in solido col parroco  Castagnola il pagamento del debito residuo, previa autorizzazione per iscritto al Bizzozzero della confisca  delle due campane più grosse, se il debito non fosse stato estinto nei 4 anni a seguire. Ora se le carte erano state redatte così bene, perché in archivio si ha notizia della sola rifusione della campana N 5, rottasi nel 1865 per ammaloramento del castello e rifusa con esborso di denaro della parrocchia, anzi del parroco Maroni, ad opera dello stessa  officina Bizzozzero.  Le altre, ad eccezione della 1 campana ancora originale del 1820, portano altri anni, e quindi sono evidentemente state rifuse: 1837 rifusione della 2^, 1844 rifusione della 3^, 1834 rifusione della 4^;  rifusioni  senza  documento alcuno.

Siamo in presenza della amministrazione imperiale austriaca e tutti gli interventi sulle  fabbriche ecclesiastiche, presentati dalle fabbricerie sono soggetti a vigilanza del governo imperiale austriaco. Pertanto si obbliga al soggetto richiedente il controllo allo stesso iter usato per le opere pubbliche. La precisione, la leggibilità e la chiarezza di quegli atti, consultabili nel nostro archivio  sono una ulteriore testimonianza del  rigore di quelle amministrazioni.   In tale periodo, vigono per le fabbricerie  le stesse norme di garanzia previste per le forniture pubbliche, strade, appalti. Si  garantisce il fornitore sulla copertura e sulla certezza del suo credito, ma lo si obbliga ad un prezzo che preveda il ripristino a nuovo delle cose fornite per un tempo illimitato, qualora gli ammaloramenti fossero da addebitare a difetto di fornitura.  Chiaramente le campane sono garantite da rotture, ed è prevista la rifusione non onerosa a tutela del committente. Non dimentichiamo poi che il concerto di Jerago rappresenta forse uno dei primi concerti del fonditore Bizzozero, il quale stava introducendo proprio in quegli anni una nuova forma della campana, che consentiva, a parità di peso, un suono più potente e brillante. Quindi poichè il nostro concerto addirittura precede quello del  campanile del Bernascone a Varese S. Vittore è pensabile che proprio qui il fonditore abbia fatto i suoi esperimenti  per nuove forme e sonorità e di buon grado e a sue spese il Bizzozzero abbia rifuso le tre campane che si erano deteriorate.

Diverso il discorso per il campanone. I fatti risalgono al 1866, siamo ormai nel regno sabaudo. E’ sparito il latino dall’iscrizione e appare l’italiano del BIZZOZZERO FELICE FECE e forse sono venute meno anche le famose garanzie illimitate, anche se da un documento si rileva che fu il castello ad ammalorarsi  facendo battere la campana contro la cella. La campana fu rifusa a spese del parroco don Maroni e nella lega di bronzo per impreziosirne il suono i vecchi narrano che le nostre bisnonne regalarono, perchè vi fossero fusi i cuazz d’argent, cioè quegli spilloni che ingentilivano le capigliature delle donne lombarde, si pensi alla Lucia del Manzoni. La voce  di questo campanone poi,  i vecchi narravano che con vento favorevole si potesse sentire fino ai cinc strä da Busti oggi cinque ponti di Busto.

Osservazioni in calce alla conferenza sul Campanile romanico di S.Giorgio in Jerago

(Jerago 3/10/1991 – di Anselmo Carabelli)

Chiesa

Nel corso della conferenza indicata, tenuta per la parte storica da Carlo Mastorgio e dallo scrivente, e per la parte tecnico architettonica dall’Arch. Vassalli e dall’ing. Battaini, e’ stato rilevato, che l’avvenuto restauro del Campanile di San Giorgio, eseguito nel pieno rispetto dei canoni architettonici romanici, ha messo in evidenza una struttura millenaria, prima ignorata.  Tale restauro ha portato un nuovo ed importante contributo alle ricerche sulla storia locale integrata nelle vicende di Arsago, Castelseprio e Sesto Calende. Il nostro territorio, sotto lo stimolo di questa scoperta, si e’ rilevato ricco di tracce sempre piu’ evidenti degli avvenimenti che hanno interessato la Storia nel suo più vasto divenire. La prima cristianizzazione delle nostre contrade. ad opera dei missionari di Ambrogio, si evidenzia anche nella possibile presenza di una cappellina paleocristiana inglobata poi dalla più grande chiesa successiva dedicata a San Giorgio. La dedicazione a San Giorgio, santo che per la sua figura di guerriero e’ particolarmente legato alla gente longobarda ed alle tradizione bellicose di questo popolo, rivela la presenza di una comunità longobarda  territorialmente coinvolta con le vicende del Seprio. Si tratta di una comunità socialmente ed economicamente ben strutturata, tanto da consentire nell’anno 976  a due suoi membri di censo elevato, Ato e Teudalberto di fare da testimoni a permute di terreni nel Seprio [Mastorgio]. 

Intorno all’anno mille le persone cominciano a muoversi in pellegrinaggio verso i luoghi Santi di Gerusalemme, di Roma e di Santiago di Compostella (ricordiamo che Santiago e’ il nostro San Giacomo). La grande diffusioni di Abbazie Benedettine e Cluniacensi in tutta Europa facilita con la ospitalità propria di tali ordini, i pellegrini. Le Alpi poi con la costruzione di vari ospizi San Bernardo, Monginevro, diventano un logo di grande passaggio.

Chiesa

L’anno mille e’ poi il primo millenario della nascita di Cristo e tutte le comunità religiose tendono a solennizzare tangibilmente questa irripetibile ricorrenza. Nasce allora il cosiddetto campanilismo, inteso come accesa rivalità fra comunità limitrofe, un campanile  o una chiesa nuova  possono dunque ben celebrare l’evento millenario  e far  morire di invidia i vicini. Di questa tensione rimangono, ora, solo poche tracce e fortunatamente la parte romanica del campanile di San Giorgio e’ una di queste.

Lo stile romanico e’ poi una caratteristica architettonica peculiare di quel tempo, in tutta Europa e la culla di tale stile fu proprio la Lombardia. Fu proprio Guglielmo da Volpiano, abate e architetto di San Benigno di Digione, divenuto verso il 1040 rettore di ben quaranta monasteri in Europa a diffondere il romanico avvalendosi esclusivamente di maestranze lombarde, fra le quali si distinsero gli Anterami dalla Val d’Intelvi. Era consuetudine di tali maestranze che migravano fino in Norvegia, in Normandia in Borgogna, ritrovarsi annualmente in Val d‘Intelvi in occasione di mostre specifiche,  per scambiarsi e accomunare le esperienze maturate nei più diversi luoghi di lavoro. Quindi il campanile di San Giorgio altro non e’ che una traccia estremamente ben conservata e restaurata, di questo crescere della umanità del mille illuminata dalla fede cristiana.

Nel corso del restauro si e’ ben posta in evidenza un’altra particolarita’ del romanico. il cromatismo.

In una nota dell’ing. Aldo Castellano, docente al Politecnico di Milano e dell’Arch.Vittorio Mira Bonomi, espressa nella conferenza tenuta il 9/11/91 presso la Societa’ di Studi Patri di Gallarate, si evidenziava la stupenda ricerca del colore nelle costruzioni religiose romaniche. La tendenza dei restauri conservativi ha purtroppo ignorato tale cromatismo facendo prevalere il grigiore della pietra.

Bene, se noi osserviamo il nostro campanile, sotto le diverse illuminazioni diurne, vediamo chiaramente una grande varieta’ nelle tonalita’ dei grigi e degli azzurri dello gneiss granitico, uniti al tenue rosa delle pietre di risulta, in uno stupendo contrasto con il rosso del cotto. Il restauratore, Architetto Vassalli ha quindi saputo cogliere pienamente il messaggio cromatico di quel primo progettista che abbiamo visto appartenere alla grande famiglia dei Maestri Comacini.