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Il Boom Economico in Provincia di Varese

Riportiamo qui di seguito una serie di cartelloni preparati per una mostra sull’industrializzazione postbellica nei nostri territori, mostra svoltasi nel 2006 a cura di Aleph Associazione culturale nel corso della rassegna Terra, arte e radici.

I testi e i grafici sono a cura di Francesco Carabelli sulla base di studi storici personali relativi al periodo e di dati statistici concernenti lo stesso.

 

Il file completo della mostra è scaricabile per uso didattico e per una visualizzazione ottimale con un lettore pdf al link sottostante

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Appunti per una conferenza dal tema:  “Dall’economia agricola a quella industriale nel Gallaratese- Bustese dal 1700 al 1900”

A chi osservasse la nostra situazione attuale, definita post-industriale e su questo temine ci sarebbe alquanto da discutere, potrebbe facilmente sfuggire che nei nostri territori si vivesse, almeno fino al 1880 quasi esclusivamente di agricoltura. Ecco perché si rende necessario richiamare la memoria della fase di transizione, illustrando il punto di arrivo di questa indagine rappresentato dalla statistica riepilogativa dell’industria Gallaratese per i territori di Gallarate e Somma Lombardo per l’anno 1924. Un punto di partenza remoto che può essere collegato alle vicende agricole lombarde nella Lombardia austriaca, passando per il Lombardo-Veneto, attraversando le vicende unitarie.

Dalla sovra accennata statistica apprendiamo che: limitatamente alle zone di Albizzate, Arsago Seprio, Besnate, Cardano al Campo, Casale Litta, Casorate Sempione, Cassano Magnago, Cavaria e Uniti, Ferno, Gallarate, Golasecca, Jerago, Lonate Pozzolo, Mezzana Superiore, Mornago, Oggiona, Samarate, Sesto Calende, Solbiate Arno, Somma Lombardo, Sumirago, Vergiate, Vizzola Ticino, zone la cui popolazione residente di fatto è di 78.712  unità (1921 censimento) con 3844 emigrati temporanei, vi sono:

2.500 operai occupati nel 1870 (in 39 industrie) – 4500 nel 1890 (55) – 6000 nel 1900 (114)- 18.000 nel 1914 (195), per arrivare a 24.000 nel 1924 (473).

Quindi nel 1924 la distribuzione per tipologia di industria delle 473 unità censite sarà di 123/tessili, 111/meccaniche , 88/ricamifici, 53/edili, 98/diversi. Di esse 168 hanno meno di 10 addetti, 12 piu di 300, quindi 3.600 addetti sono concentrati in grosse imprese, 1400 in piccole, 13.000 in medio-piccole.

Per arrivare a comprendere lo stato delle infrastrutture ricordiamo che la ferrovia ebbe questa progressione (elenco delle date di inaugurazione): Rho–Milano 18-10-1858 – Rho Gallarate 20-12-1860- Gallarate-Varese 26-9-1865-Gallarate Sesto Calende 21-7- 1865 – Sesto Calende – Arona 8-9-1868- Gallarate- Laveno 1894- Sesto Calende- Laveno 1882- Como- Varese- Laveno 1885

Quindi una prima osservazione è che le ferrovie che sono complete nel 1868 favoriranno il crescere dell’industria, comunque in modo non così immediato e vistoso in termini di unità produttive e occupazione indotta, perché il notevole impulso verrà solo dall’avvento della produzione e della distribuzione di energia elettrica (e notiamo che ciò avviene a non più di 15 anni dalla nascita della tecnologia specifica che vide in Edison a Milano nel 1884 l’illuminazione a corrente continua, il maestro e propulsore, e in Galileo Ferraris, l’inventore del motore asincrono trifase, che affrancherà dall’uso del motore a vapore, l’unico che nelle nostre zone a carente disponibilità di acque poteva sostenere una produzione industriale.

Ma se in così poco tempo si ottiene tale sviluppo, ciò indica che, a monte, ci sono delle situazioni, geografiche, politiche sociali che hanno creato un humus adatto.

Per un approccio sull’origine dell’industria nel Gallaratese con particolare riferimento a Jerago 

La provincia di Varese nacque solo nel 1927 dalla riunione di territorio comasco e milanese all’uopo ceduto. E’ quindi comprensibile come una ricerca vada comunque sdoppiata o triplicata nelle sedi dei precedenti mandamenti. Inoltre i dati in nostro possesso fanno riferimento al primo rendiconto territoriale ufficiale[1] e ai dati quantitativi di quel censimento. Non è certo, che tutte le attività esercitate vi fossero censite, perché in esso sono considerate industrie quelle che, oltre al proprietario, occupavano almeno un dipendente. Sono escluse quelle a carattere prettamente familiare, le più numerose in loco. Per questo abbiamo ritenuto corretto integrare i dati statistici con la memoria In questa sede ci preme rilevare come tutte le attività nascano da un lento abbandono della agricoltura a far tempo dal 1871 fino al 1940. Anteriormente al 1800 l’attività delle fornaci per mattoni fu l’unica risorsa locale non agricola, però antichissima [2] è rilevabile con certezza nei siti di estrazione già dal catasto teresiano. Lo studio della nascita delle attività consente di comprendere come le nostre popolazioni, seppur inconsciamente, abbiano risposto alle politiche economiche dei vari governi che si sono succeduti fin dal 1800. Si possono verificare, anche sul territorio locale, eventi che ebbero grandi ricadute sul futuro sviluppo economico, quali il frammentarsi della proprietà terriera, facilitato dallo scarso valore reddituale dei suoli e dalla conseguente assenza di una vasta proprietà fondiaria nobiliare già a partire dal XVIII sec. Le vicende economiche recenti si potrebbero far risalire già alle scelte di politica economica e sociale operate all’epoca austriaca. L’individuazione nel nostro di territorio di un’agricoltura dalle risorse appena sufficienti alla popolazione, spinse inizialmente l’amministrazione austriaca ad attivare politiche di integrazione al reddito agricolo. Dalla iniziale bachicoltura,[3] col fermento napoleonico e con la successiva restaurazione austriaca del 1814, si arrivò al sorgere delle attività cotoniere atte a favorire il lavoro femminile in fabbrica, soprattutto nei distretti di Gallarate e Busto Arsizio, che diverranno i futuri distretti cotonieri. Da qui prenderà avvio la locale moderna economia capitalistica, le cui risorse finanziarie dovranno essere impegnate nell’approvvigionamento di una materia prima che proveniva prevalentemente da mercati americani, egiziani e indiani. Si dovranno sviluppare tecniche commerciali e bancarie del tutto sconosciute alle antiche corporazioni mercantili operanti in altre realtà territoriali italiche tese solo ad irrigidire e a monopolizzare gli scarsi ed asfittici mercati. Apprese le nuove tecniche fu facile applicarle ad altri settori indotti, quali il meccanotessile di Busto e Legnano. Ciò può contribuire a spiegare l’odierna vivacità del nostro contesto industriale. Si affacciarono famiglie e nomi nuovi, a partire dagli albori del 1800, la cui nobiltà non necessariamente derivava dal sangue, ma dalla mercatura, mancava poi la resistenza al progresso frapposta  dalla nobiltà latifondista proprietaria di enormi casali sorti in altre realtà agricole lombarde, ma totalmente assenti dai nostri magri territori. Le nostre terre poco produttive, erano state trascurate e riservate a rami collaterali delle famiglie nobili. Come abbiamo visto[4] le proprietà  terriere erano già state frazionate e in parte vendute a fattori o a persone estremamente attive. E le piccole proprietà diverranno ossatura per il futuro sviluppo. Ma anche più recentemente fin verso il 1920 continuò il provvidenziale sfaldamento territoriale. Interessante, quasi paradossale, per noi lettori di oggi, conoscere la motivazione che la Camera del Lavoro di Gallarate nella Relazione Morale per l’anno 1922 dà al carente successo delle Leghe dei contadini: “il Gallaratese è forse la zona dell’alto milanese in cui la piccola proprietà ebbe uno sviluppo maggiore che altrove. Specie in questi anni del dopoguerra, vuoi per realizzare un guadagno per sé sproporzionato al valore dei terreni, vuoi per esimersi dal pagamento delle tasse, i proprietari dei fondi rustici, furono presi dalla mania folle di sbarazzarsi dei terreni. Per raggiungere il loro intento, mandarono disdette ai coloni dipendenti. I coloni, malgrado i nostri consigli, si lasciarono prendere dal timore panico e, affrontando sacrifici inauditi, parecchi di essi comperarono. Si è così sviluppata artificialmente la piccola proprietà. Il colono diventa così il piccolo proprietario sfruttato dal capitale che ha dovuto prendere a prestito, e ora sopporta i balzelli che Stato, Provincia e Comune sono costretti ad applicare per riparare alle larghe falle aperte dalla guerra di lor signori. Il colono divenuto piccolo proprietario, non sente più il bisogno della Lega.”

L’Illustrazione del Lombardo – Veneto tomo I ° redatta da Cesare Cantù in Milano 1857, offre invece un quadro contemporaneo alla origine delle industrie tessili gallaratesi. In essa si può leggere: “ [5] ……..Più che le vicende storiche dan rinomanza e insieme ricchezza a questo luogo le industrie ed il commercio. Le prime consistono in variate manifatture di cotone, tenute ora dalla ditta Ponti, che è la principale, dalla Cantoni, e in minori proporzioni dalle Ditte Crespi, Locarno, Mozzati, Pasta ed altre. La ditta Ponti nel principio di questo secolo (1800) eresse qui il primo opificio lombardo, mosso da buoi e cavalli, in cui siensi introdotte le Janettes o Jenny, cioè la macchina da poco tempo inventata per filare cotone. Ma dopo aver innalzato a Solbiate Olona la sua grandiosa filatura, l’opificio di Gallarate fu convertito, dir si può, in una casa di ricovero in cui si accolgono a facili e leggeri lavori più di cento donne, la maggior parte inatte a guadagnarsi altrimenti il pane. La ditta Ponti, che ha casa anche in Milano, trae direttamente il cotone greggio dalle Americhe e dalle Indie, e lo smercia in natura, in filati ed in tessuti di varia maniera, a preparare i quali, oltre ai telaj meccanici che tiene a Solbiate Olona, ne lavorano 1200 a braccia. La ditta Cantoni, che ha bella e vasta filatura a Castellanza, fa pure commercio di filati e tessuti, alla cui confezione servono circa 700 telai. Le altre ditte non hanno filatura propria e si occupano solo di tessuti, dando lavoro a circa 900 telaj e gli operai sono per la massima parte de’ circostanti paesi. V’hanno, benché assai meno estese, anche manifatture di lino, specialmente delle ditte Sironi e Calderara, con 500 telaj. Moltissime donne attendono ai ricami, principalmente di collari da donna, camicette, sottane, e ai lavori all’uncinetto e dell’ago in lana ed anco in seta per far calze, guanti, reticelle, ecc, che si spacciano in paese, o a Milano ed in altre città”.

Utilizzando l’approccio dell’Economia Politica si potrebbe rilevare che le nostre vicende agricolo industriali, dal 1800 ad oggi siano state legate inizialmente alla introduzione di processi L.I ( Labor intensive – ad alta concentrazione di lavoro) favoriti dalla presenza di manodopera agricola in abbondanza, successivamente e lentamente sostituiti con processi L.S ( Labor Saving, con l’introduzione del concetto di macchina che risparmia lavoro) sempre più accelerati dal pungolo della competitività del prezzo, in risposta alle altalenanti aperture dei mercati o alle politiche protezionistiche. Ma oltre allo studio della formazione di una coscienza di classe, già accennato, non si debbono trascurare:

– il ruolo assunto nel processo di sviluppo fine ottocento dalla piccola proprietà terriera appena formata da cui direttamente derivò la classe artigianale;

– l’influenza degli insegnamenti della dottrina cristiana in ambito locale e lombardo;

– il paternalismo industriale e le società operaie di mutuo soccorso tra artigiani operai e industriali, che qui iniziano circa 10 anni dopo le analoghe iniziative Gallaratesi o Varesine, perché la grande industria si sviluppa solo nel 1906.

E’ comunque rilevante osservare, che nei nostri territori si sono vissute e non marginalmente tutte le vicende della storia recente, tanto da trovarne ancora tracce nel ricordo delle singole famiglie. Abbiamo notizia della preoccupazione di due jeraghesi il Sig. Celeste Riganti e il Sig. Paolo Biganzoli, assai vicini al parroco don Angelo Nebuloni[6] di far arrivare a Jerago e diffondere tra le famiglie copie del giornale cattolico “Il Resegone”, opuscolo cattolico stampato a Lecco, al fine di offrire valide argomentazioni da parte cattolica in contrasto alla diffusione del foglio La lotta di Classe – periodico della lega dei metallurgici. Di questi periodi a cavallo del 1900 permane nei documenti la memoria di un atto di profondo disprezzo verso la Chiesa, quale fu il gravissimo sacrilegio di Orago, attribuito alle componenti ispirate all’ateismo positivista di destra. Ma questi episodi non ci appartenevano: furono l’onda lunga di qualcosa che ci era sostanzialmente estraneo, infatti se escludiamo il discorso massonico, ignorato dalle nostre popolazioni e quello positivista, riservato a tendenze intellettuali a noi estranee, rimaneva la simpatia verso il socialismo, che fu stimolata da una naturale reazione ai gravissimi episodi milanesi del generale Bava Beccaris. Si deve però apprezzare un distinguo, che i nostri vecchi premettevano sempre ai racconti sulle lotte sociali. Quando nel discorso si voleva indicare una persona affascinata dalle teorie socialiste, essi sempre la qualificavano come “un sucialista ma da qui giüst,è un socialista ma di quelli che stanno nel giusto”, con evidente riferimento ad un uomo che, affascinato da Turati, sicuramente non aveva sposato le posizioni atee di Labriola. Il nostro socialista rispettava la Chiesa e i suoi ministri, anche se la sua posizione lo teneva appartato, facendosi sovente ricordare dalla moglie gli obblighi dei precetti ecclesiastici.

La nascita della Società Anonima Cooperativa di Consumo avvenuta nel 1900, [7]sicuramente permette di accostarci a quel momento storico valutando, sulla scorta della variegata e contemporanea presenza di soci: artigiani, operai e imprenditori in uno stesso sodalizio, una sostanziale carenza di conflittualità sociale se si pensa che pressochè in ogni famiglia era presente un socio. Fu un tentativo di rispondere coralmente a necessità mutualistiche, caldeggiate anche dal Parroco Don Nebuloni e dal successore Don Cervini, che della Cooperativa rimase sindaco, fino al sorgere dell’impedimento concordatario del1929. La stessa fortuna non riuscì al sodalizio, sorto tra i dipendenti Rejna con le stesse finalità denominato Unione e Progresso [8]nato nel 1911 e liquidato nel 1914.  La società comunque fu solo apparentemente di iniziativa operaia, perché il presidente, Sig. Luigi Valsecchi, era amministratore della società così come dirigente fu il liquidatore ing. Pellizzari.

Non dobbiamo dimenticare l’importanza della ”Società Mutua Assicurazione contro le malattie e la Morte del Bestiame bovino“ che  sorge il 1° aprile 1896 con lo scopo di tutelare i soci dell’evento non raro della morte di un bovino. La società oltre ad aiutare il contadino nella cura più appropriate del patrimonio bovino, prevede l’indennizzo del rischio morte dell’animale, commisurandone il valore alla bestia in vita, ciò al fine di garantire il riacquisto. Ci si preoccupa solidalmente tra soci della sopravvivenza della stalla con la conseguente sicurezza per la famiglia. Le carni del bovino, saranno vendute al meglio e se commestibili ripartite fra i soci. Tali iniziative, che vedono l’impegno personale sia del Sindaco, il besnatese Cornaggia Medici, che del Parroco don Nebuloni, permettono di capire ed apprezzare la comune tensione verso il miglioramento delle condizioni economico – sociali locali. Lo stesso dicasi per la  Mutua Sanitaria, del 1905. Se Ercole Ferrario, come abbiamo visto [9], poteva parlare dei rischi connessi al sorgere della famiglia mononucleare isolata e affrancata dalla vita della curt e dei regiù, con queste ulteriori iniziative a tutela del piccolo coltivatore, che cominciava  ad associare al rischioso reddito agricolo monofamiliare anche un costante reddito da lavoro dipendente, si entrava in una nuova era. Gli uomini di chiesa, vicini alle loro popolazioni, si fanno sul campo fedeli interpreti della Rerum Novarum [10] nella attuazione concreta della dottrina sociale della Chiesa. Da rilevare l’arrivo delle suore di Maria Ausiliatrice per interessamento di don Nebuloni e della famiglia Bianchi Gori, proprietaria del Castello, quale risposta all’esigenza di educare i figli piccoli di mamme che sempre più troveranno lavoro nelle vicine tessiture. Molto impegno le suore dedicheranno alla educazione delle giovani ragazze. Il grande insegnamento di Don Bosco, che illuminava di fede e di opere cristiane una Torino che si faceva industriale, grazie alle Figlie di Maria Ausiliatrice si diffonderà nel nostro paese che pure si stava industrializzando.

Le industrie nasceranno prevalentemente dalla trasformazione delle primitive attività artigianali in industriali a far tempo dai primi anni del 1900. I problemi connessi ai potenziali conflitti ed alle trasformazioni sociali indotti dall’industrializzazione furono  anticipati dall’iniziativa attenta dei parroci, dei loro collaboratori e di molte persone attente, tese al benessere spirituale e sociale delle loro genti. Tra quelle iniziative, non sfuggono, perché ancora lì da vedere, la costruzione delle Caserma e delle Casermette quali abitazioni per dipendenti. Realizzazioni importanti che mitigarono la conflittualità almeno fino alla fine del conflitto mondiale. Infatti solo nel 1908 nasce un primo tentativo di sezione Jeraghese della Lega dei metallurgici. Ma ancora sei anni dopo il periodico “Lotta di Classe” del 31 luglio 1914 deve constatare amaramente come il sopralluogo di martedì 28 luglio fatto del compagno Canziani – propagandista di Gallarate– fosse deludente perché anche quelli che si dicono nostri simpatizzanti- non hanno compreso la necessità dell’organizzazione di classe e quindi la sezione è anemica [11]. Nel gennaio del 1919 gli operai dell’industria tessile gallaratese, avevano già avanzato le richieste per la riduzione dell’orario di lavoro ad 8 ore ed il sabato a mezza giornata. Al diniego della Federazione degli industriali gallaratesi, verrà proclamato uno sciopero, attuato il 22 del mese di febbraio, cui seguirono altri tre giorni di sciopero che produrranno il conseguimento di tutto quanto richiesto. Perciò per festeggiare la vittoria, il 30 marzo 1919 fu organizzato a Gallarate un raduno celebrativo.

Lo storico P.G. Sironi [12] spiega che i socialisti ritenevano che il successo fosse stato loro esclusivo e così descrive il raduno: “La massa affluita a Gallarate da tutto l’Alto Milanese a piedi, in treno, in bicicletta o col tram, se non è certo pari a quella vantata per Busto da “ il lavoro “ fa purtuttavia la sua bella figura. Sono infatti presenti le rappresentanze operaie di oltre una cinquantina di Sezioni socialiste, società operaie varie, circoli e cooperative rosse, ognuna recante le proprie bandiere. Introdotto dal Buffoni, parla dopo altri il deputato socialista Costantino Lazzari, uno degli estremisti più noti del momento. Ed è la sua una concione, che dopo aver inneggiato al successo conseguito, chiede l’estensione agli operai di tutta Italia delle otto ore, attacca il padronato e la borghesia e chiude infine esaltando, fra le acclamazioni della folla eccitata al punto giusto, la rivoluzione russa, Lenin e la conquista del potere da parte dei proletari. Raccoltasi in corteo, con bande musicali intercalatevi, la massa si dirige poi verso il centro cittadino. E’ un unico enorme coro che a tratti intona Bandiera Rossa o l’Internazionale, un susseguirsi a gruppi di evviva Lenin e alla rivoluzione proletaria, di slogan contro i padroni, contro la borghesia, contro i nemici dei lavoratori e i loro servi vergognosi adattatisi senza fiatare a quattro anni di guerra. Un certo numero di partecipanti, non condividendo queste ultime grida, abbandonano il corteo, alcuni anche ostentatamente………”

Una manifestazione, nata per celebrare degnamente un grande successo sindacale si era trasformata nella occasione di propaganda massimalista e rivoluzionaria che molti fra gli astanti non condivisero abbandonando in maniera ostentata il corteo. Al massimalismo rivoluzionario si associava una forte spinta anticlericale. A questo si riconduce il racconto di treni bloccati alla stazione di Gallarate da macchinisti delle ferrovie che si rifiutavano di farli partire fino a quando non fossero scesi quei preti che vi erano saliti, perché l’interpretazione estremista vedeva nella Chiesa e nei Sacerdoti un nemico da abbattere. E questo fatto, non il solo, dovette impressionare chi, presente in stazione con la mamma, ancora oggi, anziano, me lo racconta. Quindi anche nel nostro piccolo borgo, che abbiamo visto assai equilibrato nella relazione fra classi sociali, si dovette constatare, appena dopo la guerra, un acuirsi della conflittualità.

Il periodico Lotta di Classe del 14 febbraio 1920 può titolare: ”Fascio Giovanile Socialista. Jerago – Domenica scorsa, con l’intervento di un compagno di Milano, ebbe luogo una cerimonia fra giovani socialisti in cui venne costituito il Fascio Giovanile, denominato Spartaco.”

Di contro nell’ottobre del 1919 per ispirazione di parte cattolica, nascerà la sezione locale del Partito Popolare e per i lavoratori cristiani l’Unione del lavoro. Nel 1920 al Resegone, si aggiungerà la diffusione del settimanale Vita Popolare stampato a Gallarate, avente per direttore Guido Sironi. Indiscutibile la prevalenza del sindacato cattolico nella organizzazione delle operaie delle tessiture locali come constata Don Massimo Cervini nel Libro delle Cronache parrocchiali. Non è del tutto casuale che la spinta alla organizzazione di parte cattolica dell’ottobre del 1919 segua i fatti del marzo 1919, con il loro carico di anticlericalismo. Sono testimone del racconto del Parroco di Orago, don Alberto Ghiringhelli, che ricordava quegli anni, di quando giovane prete a Milano viaggiava in bicicletta sulla Ripa di porta Ticinese ed era fatto oggetto di battute sarcastiche da parte delle lavandaie che dalla riva ironizzavano sulla sua talare, a soca e lui per niente intimorito, da uomo energico, quale era, faceva dietro front con la sua bici e metteva a tacere le importune, quasi un Don Camillo, e non per niente del Don Camillo di Guareschi era coetaneo.

Vi è un grave turbamento nella vita civile di quegli anni vissuti tra il 1920 ed il 1922, culminato con la occupazione nel luglio del 1922 della fabbrica simbolo di Jerago, la Rejna S.A. e di turbolenze anche nelle altre fabbriche. Lo rileviamo senza aggiungere commento nella descrizione delle due parti contendenti. Il periodico Lotta di Classe dell’8 luglio 1922:  “Malgrado il perdurare della lotta, la massa metallurgica si mantiene compatta e disciplinata, sempre fidente nella sua forza. Sono apparsi però come funghi velenosi alcuni untorelli che, certamente pagati da chi ha interesse, girano il paese visitando le famiglie per raccogliere le firme di possibili crumiri. Tale indegna ed odiosa opera è adatta proprio a coloro che si prestano a fare da tirapiedi e ruffiani dei padroni, ma è bene che sappiano che ad Jerago non v’è pane per i loro denti e che se non la smettono c’è il caso di ricevere pan per focaccia”.

Leone Michaud, direttore della Rejna nell‘opuscolo a memoria dei suoi “25 anni di Vita Industriale a Jerago 1904-1929″, scrive: “Finita la guerra lo stabilimento ha subito la sorte di tutti quelli del genere, tutti i fatti svoltesi dal 1920 al ’22 sono stati da me giudicati come conseguenza di mancato affiatamento fra capitale e lavoro, la mia convinzione è nata nel tempo di guerra. Per considerazione avuta dal Comitato di Mobilitazione Industriale sono stato chiamato a far parte della Commissione per le vertenze operaie. Se in qualche caso ho dovuto dare torto agli operai, in molti casi ho dovuto giudicare che la colpa era degli industriali, o per egoismo o per ingordigia. Molte questioni sono nate e purtroppo hanno preparato quegli eventi disastrosi che capi coscienti od incoscienti hanno condotto per i loro scopi personali, a scapito degli operai, dell’industria e del paese, portato all’orlo della rovina e dell’anarchia. La occupazione delle fabbriche ne è stata l’ultima fase. Ricorderò quando la commissione operai venne a cacciarmi fuori dallo stabilimento, abbiamo un esempio tipico della riconoscenza che le masse sono capaci di dimostrare! Tre dei miei operai, forse i più considerati, i più aiutati, vennero colla frase sacramentale imparata nel tempio del bolscevismo nascente “ Sem num i Patron[13] ghe voeur ch’el vaga via” quei momenti di tristi ricordi, vissuti di piena vita non sono e non possono essere vantati da chi è lontano dall’Industria. …… “.

Nel trattare il periodo della trasformazione del borgo da agricolo a industriale, è stato necessario soffermarci sulla dinamica sociale, che da quella trasformazione ha subito una forte accelerazione. Abbiamo ripercorso le tappe dell’associazionismo di matrice cristiana tra il 1870 e il1910. Le prime iniziative socialiste, più volte giudicate timide dagli stessi organi del Partito e dalle Camere del Lavoro di Gallarate. Abbiamo rilevato la spinta rivoluzionaria ed atea della componente massimalista che nel distretto gallaratese si evidenzia nella manifestazione del 30 marzo del 1919. Ma anche nel borgo alla componente socialista di vecchia matrice si aggiungerà  una componente più recente di ispirazione marxista-comunista. Per contro il primitivo associazionismo cattolico prenderà coraggio, ispirato dalla dottrina sociale della chiesa e si ritroverà nel Partito Popolare e nella Unione del Lavoro. Gli scioperi del ’22 furono per tutta la nazione l’espressione del gravissimo disagio sociale ed economico postbellico.

Dopo questi fatti inizia storicamente il periodo di ascesa nazionale del fascismo, che applicando il suo apparato dottrinario alla situazione contingente stravolgerà tutti gli ordinamenti sociali e rappresentativi, servendosi delle sole leggi ordinarie[14] . La vicenda di quel periodo non verrà qui analizzata riservandola ad un approfondimento futuro. Con leggi ordinarie si arrivò al partito unico il P.N.F., al Sindacato Unico Fascista. Quel periodo di transizione fu sofferto da coloro che, non avendo preso tessere fasciste, subirono l’emarginazione e la minaccia, fortunatamente simbolica, di un patibolo: una forca innalzata la notte in piazza Vittorio, prima delle elezioni politiche del 1924. Immaginarsi la paura nelle famiglie di quei vecchi socialisti la cui militanza era  nota e che non avevano voluta la nuova tessera. Nessuno subì violenze fisiche, ma su quel patibolo era stata sospesa la libertà di dissentire. Il borgo si adattò alle adunate, agli orpelli e alle divise di moda, comparve in Piazza Vittorio, messa sulla facciata della Cooperativa, quasi sotto alla grondaia, l’effigie di Mussolini che dominava sulle adunate organizzate per ascoltare la voce del Duce data per radio e diffusa dall’altoparlante. La casa del fascio fu alla Caserma. Nacque una colonia estiva elioterapica in Via Roma. Poi tutto, dal ’43 al ’45, si sgretolò passando per i lutti della guerra mondiale e riprenderanno forza quegli stessi Partiti aboliti nel periodo fascista con le stesse componenti, socialista, popolare e comunista, che avevamo visto formarsi verso il 1919.

[1] Statistica Riepilogartiva dell’industria nel Territorio di Gallarate e Somma per l’anno 1924 ( si vada a nota 1 e 44 ).

[2] Carlo Mastorgio ha tenuto interessantissime conferenze sulle fornaci locali, attive già in epoca romana.

[3] Si vada al capitolo bachi supra.

[4] I terman, supra.

[5] ( ad integrazione del testo si  trascrive  la parte omessa e  punteggiata nel testo) “Il nome di Gallarate, alcuni derivano dall’essere fondato dai Galli, altri dal soggiorno di una legione romana detta Gallarita. Da parecchi si giudica questa terra di assai remota origine, ma a provar ciò mancano i documenti; tuttavia le lapidi latine, che ancora vi si vedono, e le numerose monete di imperatori romani, che a quando a quando si rinvengono, lasciano congetturare che fin dai tempi dell’impero romano fosse di qualche importanza.. ( segue il testo).

[6] Paolo Biganzoli nato nel 1880 fratello del Sacerdote don Enrico Biganzoli e fondatore di quella che rimane una delle piu antiche industrie locali ancora operante nel settore del giocattolo la Paolo Biganzoli s.r.l. – Celeste Riganti – fabbro ferraio, classe 1885 padre di Enrico Riganti coautore del presente volume.

[7] Infra, ampiamente illustrata nello studio di F. Delpini.

[8] Fonte: Cazzani E. “Jerago

[9] Nota n.28 supra

[10] di Leone XIII 1891

[11] Cazzani .”Jerago” op citata pag 319, rif Archivio Parrocchiale Jerago, liber chronicus, vol 1, pp 123-124- Don Massimo Cervino scrive: “ per salvare almeno la donna dall’organizzazione socialista, si è tentato di riunire le nostre donne nella Unione del Lavoro ed a tale scopo molto si adoperò con varie conferenze ed abboccamenti il Sig. Gallazzi dell’Unione di Gallarate. Si riuscì ad organizzare quasi tutte le operaie della Ditta Carabelli e tutte le nostre operaie che lavorano a Besnate e a Cavaria, ma poi per difficoltà aziendali, gran parte delle operaie si staccarono e l’Unione si sfasciò, come già per lo stesso motivo si era sfasciata la lega Socialista.”

[12] Sironi P.G “ Quei Camion che facevano paura, lo squadrismo nel gallaratese – 1919 al 1922 –“

[13] Leone Michaud è francese e quindi nel suo scrivere il nostro Padron per lui diventa Patron

[14] Lo statuto albertino non prevedeva leggi straordinarie per le modifiche costituzionali e i padri costituzionalisti nel redigere la Costituzione Repubblicana odierna, per evitare episodi simili al fascismo, che potè trasformare lo statuto con leggi ordinarie, furono particolarmente attenti perché essa non fosse facilmente modificabile. La blindarono come si dice ora.

Ul padron – ul principal

(Dalla agricoltura alla industrializzazione- 1870-1920,  note  di Anselmo Carabelli)

Il mondo del lavoro ha sempre presentato una gerarchia di ruoli e di competenze al suo interno e le espressioni dialettali con medesime radici anche se con suoni un poco  diversi nei vari mandamenti industriali, offrono utili considerazioni. La ricorrente espressione di padron, in origine atteneva  al proprietario della fabbrica in quanto tale,  ma chi lavorava all’interno di essa si rivolgeva al titolare con l’espressione di pricipäl, che evidenziava antica familiarità tra proprietario ed i suoi collaboratori.  In effetti esso aveva potuto costruire una fabbrica tutta sua, grazie a doti di intelligenza  di volontà e di rischio, sempre e con l’aiuto di una moglie operosa in casa ed al lavoro  che l’ea stai a so fortuna, vigile e silenziosa sostituta quando egli era fuori per clienti. E non fu raro il caso che venendo a mancare, per i normali ed infausti casi della vita il fondatore, fosse stata proprio la moglie a sostituirlo, svolgendo il duplice compito da tirà grand i bagaj, allevare i figli e purtà innanz a butega, nell’attesa che diventati grandi sostituissero il padre precocemente morto.  Il  nostro aveva messo  in piedi  un laureriimpresa  e raramente difettava di quella  spontanea umanità che, gli veniva dal provenire dal medesimo tessuto sociale dei dipendenti e di conseguenza  essi lo stimavano come un primo, un principes inter paresprincipäl dunque, primo nel lavoro, ma per il resto pari a loro.  Era perciò normale che principaj e uperari la domenica frequentassero le stesse osterie e giugasan a càrti insema – giocando a carte assieme.   Se poi le ditte invece prendevano una consistenza di grandi imprese, ecco che fu necessario formare delle gerarchie. Al principal si sostituisce ul diretur, ed  ogni reparto si inquadra con un cap. Ul cap repärt  cunt ul so  galupin,[1] cioe colui che porta gli ordini ai subalterni, ul cap scuädra, i capitt . Alla umanità dei padroni si era aggiunto contemporaneamente il paternalismo espresso nelle opere di solidarietà che portano ancora il nome dei benefattori. Si pensi  per esempio alla nascita dei nostri ospedali[2],  coi reparti finanziati dalle famiglie di coloro che  verranno chiamati capitani d’industria. Il loro  nome risuona ancora nella intitolazione degli antichi padiglioni  e in molte altre opere sociali  necessarie per mantenere viva l’umanità ed il mutuo soccorso in un mondo che si trasformava rapidamente ed arrischiava di emarginare gli ultimi. Ad una società  di regiù e masere, si stava sostituendo una società di famiglie mononucleari, alla mutualità della famiglia patriarcale, doveva lentamente, ma necessariamente sostituirsi una mutualità sociale, costellata da cooperative, ospedali , asili e scuole. Sicuramente il tessuto sociale, in trasformazione stava producendo anticorpi benefici, ed a questo fu lievito la Chiesa, si pensi a Don Bosco, alle figlie di Maria Ausiliatrice che si faranno carico, della educazione e della assistenza dei bambini piccoli, quando le mamme erano al lavoro, le numerose  società operaie di mutuo soccorso, coi banchi sociali alimentari. Nel trasformarsi delle società personali in società anonime o di capitale,  quando la butega diventa  dita l’abilità della proprietà  di imprese, non più a misura di uomo si misurerà nello scegliere  capp capi e siccome nemo est profeta in patria, molte volte capitò che per porre fine a discussioni, incomprensioni ed odii si andasse a prendere un direttore di fuori, straniero,[3] possibilmente un tudesc, un cruco  memori ancora del timore e rispetto che i funzionari del mai dimenticato impero austro ungarico sapevano incutere. Si sperava che questo straniero, abile nella tecnica, poco pratico della lingua, non si sarebbe perso in sterili italiche discussioni, volgendo teutonicamente all’ obbiettivo. Ma inizialmente ogni gerarchia si basò sul naturale riconoscimento del merito dei primi collaboratori  e da lì presero forza le nostre imprese. Distinguendosi pertanto il termine  principal dal  termine padron, col tempo questo acquisirà una connotazione negativa. Soprattutto col formarsi di una coscienza di classe contemporaneamente all’affacciarsi in fabbrica dei figli e dei nipoti dei primi proprietari, che avendo studiato sui libri,  savean na riga pusè dul silabäri, volevano far vedere come si fa a fare i soldi. Disdegneranno il circolino della briscula a ciamà, per  più esclusive compagnie. Costoro, per distinguerli dai rispettati fondatori venivano definiti, nasù in dul teren dul canuf,[4] nati in un periodo ricco e quindi,  se non ben guidati ed educati alla gavèta[5] con un tirocino di fatica in fabbrica, potranno anche ignorare i sacrifici condivisi coi dipendenti, e quando nelle fabbriche nascerà la lotta sindacale saranno un facile bersaglio per l’iconografia operaia del sciur padron da le bèle braghe bianche. Ma quella canzone  mal si adatta alle nostre realtà, perchè fa riferimento ad un mondo agricolo dove  il contrasto tra il ricco, pigro e grasso latifondista ed il mondo dei braccianti era più che palese, ma quello non fu mai il nostro mondo agricolo. Le nostre terre erano troppo poco produttive, perché si fosse formata una proprietà latifondista, in sostanza mancavamo dei casali tipici della pianura padana irrigua.  I secoli avevano consentita una  diffusa proprietà di terreni magri con cascine anche malmesse, che avevano costretto i figli in soprannumero ed emigrare. Ean andai in Merica[6] a fa fortuna, prevalentemente in Sud America. Ma erano tornati, e molti  anche con i soldi necessari per comperare terreni, che proprio perchè di poco valore, i proprietari nobili avevano venduti o stavano vendendo. Da queste storie venivano i primi operai e i primi artigiani e i primi imprenditori. Forse lo si apprezza da un detto che era tanto caro alle nostre famiglie, ogni volta che si faceva riferimento ad un nonno o ad un parente prossimo di simpatie socialiste lo si indicava come un socialista, ma da qui giust. Uomo tosto, tutto di un pezzo, di quelli che con l’avvento del fascio verrà emarginato da qualsiasi attività,  non  avendo voluto piegare la testa ai nuovi padroni del vapore, ma era stato rispettato e forse non solo perché vecchio, ma autorevole. Bene quando questa nonna definiva il papà, cioè il bisnonno un socialista, ma da qui giust  evidentemente, lei che aveva fatto solo la quinta elementare, voleva evidenziare la diversità di un ideale di uguaglianza  condiviso, rispetto all’ateismo scientifico del serpeggiante massimalismo che non fu mai nostro.  Un socialismo, che unitamente al popolarismo cattolico nasceva anche come contraltare ad un liberismo che semplificava la povertà e l’emarginazione ritenendo che chi è causa del suo mal pianga se stesso, quasi che i poveri fossero causa della loro povertà. Si diceva anche Quel li al ga ne leg ne fed  associando il rispetto della legge umana alla conoscenza ed al rispetto degli insegnamenti della Chiesa. Ma il vecchio nonno fu sempre  pronto a piegarsi ai desideri della moglie quando gli richiamava i doveri di buon cristiano, l’è domenica bisogna andà a mesa, l’è Pasqua bisogna anda a cunfesass. Ecco quelle persone, che poi erano ragazzi  del 1870, furono i primi a servirsi del treno per andare a lavorare a Milano, o a Varese, furono testimoni  dei fermenti di classe e le rimasticarono adattandole alla nostra vita. Il loro ideale, sfociò nel desiderio di darsi da fare per migliorare le condizioni dei compaesani, attraverso l’associazionismo per esempio nella  Cooperativa o nella Banda musicale, che  non furono connotate politicamente. La Cooperativa fu associazione di operai artigiani ed imprenditori, il parroco ne fu presidente.  Lo stare insieme di quegli uomini rispondeva alla necessità di migliorare le condizioni di vita dei soci, offrendo mutualità nei confronti di una sorte che poteva presentarsi difficile. Si pensi ancora alle mutue sanitarie, famosa ed ancora attiva quella di Besnate, alle condotte  mediche. Contemporaneamente.  Verso la fine del XIX secolo si prese coscienza della  necessità di partecipare alla gestione della cosa pubblica, dapprima affidata ai notabili[7],  unanimemente riconosciuti  come i sciuri, ma nel senso buono del termine. A  l’è un sciur si diceva, con riferimento alla nobiltà ed al censo e anche in questo caso, mai disgiunto da una consorte o da una famiglia  sempre attiva nelle opere di bene[8]. Molte volte si distingueva  tra puarit e sciuri dicendo ul Signur di Puarit rivolgendosi a Nostro Signore, per distinguerlo dall’altro  quel di sciuri cal ga i curnitt  il demonio.   In molti casi si parlava di un gran signore come di un signuron. Ma se nella memoria, come a Busto Arsizio rimane il dispregiativo sciuazzu, vuol pur dire che ce n’erano anche di indisponenti e cattivi, cioè di quelli che dovevano guardarsi dal ciapin, quello che acchiappa, in altre parole che ti porta all’inferno. Altro argomento che non possiamo ignorare fu la permeabilità sociale. In effetti se dividiamo la popolazione in classi sociali, la divisione poteva essere fatta per censo, cioè ricchezza  raggiunta, ma se si escludono i nobili, i quali nasean gia cul marì destinò, non si e mai frapposta divisione fra persone se non per la ricchezza raggiunta se si vuole, ma la ricchezza non la si negava a nessuno, se questi aveva voglia di rischiare e di lavorare mettendosi in proprio. Certo doveva partir da una piccola ricchezza di famiglia, al duea mia veg i pè frec.  Per il resto poco importava la famiglia di provenienza, in sostanza un brau fieu pa a me tusa era l’ambizione di ogni madre. E quanto agli studi essi sono sempre stati ritenuti utili ed interessanti, basti rifarsi al detto lengi, studia, impara,  fa il dovere- leggi studia impara e fa i compiti a casa.


[1] Galupin o Galoppino in meccanica è detta la ruotina oziosa che tende la catena per evitare che scarrucoli, in sostanza fa da aiuto per il trasferimento della forza motrice

[2] Gallarate, Somma, Busto, Varese

[3] Michaud per la Rejna ad esempio.

[4] Questa espressione fa riferimento al terreno per la coltivazione della canapa o canuf, quindi un terreno molto concimato, grasso, e per la traslazione vuol significare nati in un periodo ed in una famiglia diventata ricca, molto distante da quella prima famiglia di imprenditori che fecero sacrifici immani per far fronte ai numerosi debiti necessari per diventare proprietari dei mezzi di produzione

[5] a gavetta e tratto dal linguaggio militare e fa riferimento alla gamella o recipiente per la distribuzione del rancio alla truppa. Nel linguaggio operaio il mangiare viene portato in una schisceta.

[6] Si noti come nell’eloquio, di persone con poca confidenza con la scrittura  l’America diventi La Merica per cui correttamente diventerà, correttamente andà in Merica. Non diversamente da quando si diceva L’Aradio per indicare la  radio. Montevideo è stato un luogo elettivo per la nostra emigrazione

[7] G. Bianchi , Cornaggia Medici- Sindaci di Jerago con Besnate e con Orago

[8] l’ Asilo infantile Ippolita Bianchi Gori nasce per volontà e con la donazione della famiglia Bianchi (fratelli Senatore Giulio e sorella Ippolita Bianchi maritata Gori – benestanti Milanesi Proprietari del Castello di Jerago) e con l’affido nella conduzione alle Rev. Suore figlie di Maria Ausiliatrice (salesiane) – Ma gli anni e le vicende sono simili per tutte le pari istituzioni nei paesi del Gallaratese   

Ul fer du l’acua

(testo di Anselmo Carabelli)

Se volessimo ricostruire l’origine di questo modo di dire ormai completamente perso, in uso ancora tra gli assistenti di tessitura a Busto Arsizio, si scoprirebbe che fer du l’acua altro non è che la leva di avviamento dei cari telär a frusta,  espressione gergale  traslata  anche per l’avvio delle macchine moderne con gli interruttori on- off , verde- rosso. L’espressione rimanda alla origine della nostra industrializzazione, quando l’energia nella sala di tessitura, di torni o altre macchine utensili  o in una butega  da legnamè o da farè  per dar moto a bindèla,  mola, maj, pulidura, trapan, proveniva dalla trasmision, albero di trasmissione  che girava in alto vicino al tetto su bronzine  ancorata ai pilastri o al muro perimetrale, dotato di semipulegge imbullonate in corrispondenza delle varie macchine. Questa trasmission era mossa da un motore primario che in antico all’origine della nostra industrializzazione 1820 sull’Olona, poteva essere la ruota  a pale del mulino. Il mulino prendeva a muovere quando la canaletta di derivazione dell’acqua del fiume veniva fatta scivolare di lato perché buttasse direttamente il getto sulle sue pale avviandolo e, per far ciò, ci si serviva di una leva di ferro che prese appunto nome di fer du l’aqua.  Da cui l’inizio di un movimento meccanico fu associato all’ azione della mano sul  fer du l’aqua o leva di avvio. L ’asse principale di movimento di ogni macchina antica presentava due pulegge, una solidale con lo stesso, l’altra folle che girava a vuoto. Una cinghietta,  in cuoio zinta collegava la ruota folle, con la ruota in corrispondenza della trasmissione a soffitto. In prossimità delle due pulegge della macchina la cinghia passava in una forcella collegata con la leva di avviamento. Il nostro fer du l’acua  avviava perciò la macchina spostando la cinghia dalla ruota folle a quella fissa dell’albero e in più consentiva una partenza dolce, perché la cinghia passando dalla folle alla ruota fissa con tutta l’inerzia della macchina ferma, tendeva a scivolare facendo da frizione e la macchina non si inceppava. Naturalmente le cinghie giravano sempre sia che la macchina fosse in trazione o fosse ferma  e quindi erano pericolose,  e apparvero le prime  scritte antinfortunistiche, dal perentorio invito, operaie portate vesti attillate e cuffie, capelli corti, attenti agli organi di movimento.

Gli alberi di trasmissione primaria li potevi vedere in tutte le nostre botteghe. Dai faré : gli Aliverti al Cantun, i Turi; ai Legnamé: ul Gerolum, I fradèj Cardan, ul Biganzoli, ul Rico da a Mirina, ul Giuanò e ul Salvatur dul Mola, ul Romildo, ul Sèsa  Milieto; i tesitur : Ul Carabell, ul Nibela, ul Mario Aliverti, ul Labärd, ul Tani, ul Taravela, ul Guglielmo. Prima di avviare le singole macchine quindi bisognava avviare il sistema di trazione centrale con le trasmissioni a muro e soffitto collegate fra loro da grosse cinghie e ruote più grosse e zintuni. Ma la  trasmissione di moto tra grandi pulegge di ferro solidali alle trasmissioni in alto e la piccola puleggia liscia, coassiale col rotore del motore centrale era alquanto problematica, soprattutto nelle mattine d’inverno quando il  cuoio del Zinton si irrigidiva ed allora sota cunt a pesa greca-pece greca. Si spalmava la zinta di pece a accostando il provvidenziale cilindro di pece al zinton dall’avvio riluttante e per la ravvivata aderenza via che si partiva. Certamente operando a mani nude tra motori cinghie e volani queste operazione risultavano particolarmente rischiose e riservate ad esperti macchinisti. Noi non abbiamo mai avuto mulini per colpa dell’Arno, poco affidabile; le prime macchine di moto furono motori a vapore, le famose caldaie a vapore del tipo Cornovaglia. Prima del 1907 gli unici che ne avevano erano le officine Sessa ubicate tra la via Cavour, la via Onetto e il Ria, la Reina,  e la forgia di Scaltritti Eugenio Maraz, in via Roma.  Poi li sostituirono i motori elettrici,  monumentali,  in corrente trifase dagli statori e rotori con gli avvolgimenti in bella vista, da cinquanta- cent cavaj 50 –100 H.p e l’avviamento avveniva con il sistema cosiddetto stèla- triangul. Per prima cosa bisognava collegare il motore alla line , tirando giò i curtej abbassando i coltelli che facevano da interruttore tra  la linea del motore e la linea principale. In pratica l‘interruttore era una specie di tridente con tre punte a lama di coltello incernierate singolarmente sulle tre fasi del circuito del motore, isolate tra loro, ma unite nell’impugnatura a manico di legno che consentiva, con movimento a compasso dell’impugnatura di inserire i coltelli nelle molle del circuito principale. Dopo tale interruttore i tre fili o Fäs  fasi,  entravano in una apparecchiatura chiusa dotata di volano, che  partendo con l’iniziale configurazione a stella par dag ul spont, cioè l’avvio del solo motore,  quando l’operatore avesse ritenuto opportuno dal sibilo del rotore, passava alla configurazione a triangul che permetteva il traino di tutto l’apparato di trasmissione delle macchine operatrici. Operazione più facile da fare che da descrivere, comunque ci voleva un buon orecchio per apprezzare dal fischio del motore il momento giusto per il cambio di configurazione. Oggi tutto avviene elettronicamente ed automaticamente.  Attenzione però che se per qualsiasi motivo si voleva spegnere la macchina abbassando i coltelli, bisognava per prima cosa portare al minimo carico della sala, altrimenti sarebbe partito il famoso corto, non una scintila, ma una vera e propra scalmana– un fulmine artificiale  Per questo quei coltelli venivano schermati con coperchi di materiale isolante.    

1 Telai col lancio a batter, Batireu, bastone con cinghie che lanciava la navetta

2 Sulla storia dei nostri opifici, botteghe artigiane si veda di A. Carabelli-E Riganti.” Le ricette della Nonna” da pag. 125 a pag 139 – Ed.  Galerate 2000 

3 Hp Horse power. La misura di Potenza era in Cavalli Vapore  0,760 kw.  Non dimentichiamo l’iniziale riferimento alle unità di misura nel sistema inglese, proprio della prima industrializzazione fino a tutto il 1960 quando nel mondo del lavoro europeo continentale si adottò il sistema metrico decimale. Tutti gli organi di connessione, viti, dadi, bulloni si espressero in unità decimali Ma, Mb, sostituendo il vecchi pollice o polis a  come riferimento la forza di un cavallo da tiro. Ormai abbiamo dimenticato che in assoluto il primo filatoio Janette dello svizzero Cantoni ad Arnate (il progenitore dell’industria tessile  gallaratese e bustese)  era mosso da cavalli che agivano su un tapis roulant, una specie di tappeto rotolante  sul quale i cavalli camminavano rimanendo fissi, che dava poi moto al motore primario. Ma senza andare molto lontano Enrico Riganti mi ricorda che quando la sua nonna  Paolina da piccola andava alla festa della Madonnetta di  Gornate, il giorno dell’Assunta siccome, come si diceva, tuti i salmi finisan in gloria, dopo le preghiere o devuzion come si diceva allora, c’era sempre la ricreazione, ci si concedeva anche pei bambini un giro in giostra, e quelle antiche giostre erano mosse da motori a cavallo.  Gli stessi animali che poi trainavano le carovane dei giostrai, itineranti da fiera in fiera. 

A curent eletrica – la distribuzione della corrente elettrica

La produzione e la distribuzione di energia elettrica fa data dal 1906 e consentì di potenziare le attività sorte per la produzione di manufatti artigianali con l’ausilio del motore elettrico. Ne beneficiarono le produzioni: tessili, meccaniche per la fornitura di molle ed assali richieste dai mezzi di trasporto, le falegnamerie con le loro varie applicazioni: pesi e misure, casalinghi, mobili per la casa. Fino al 1900 tutta l’energia meccanica richiesta era fornita dal lavoro manuale, dal lavoro animale, dal lavoro meccanico dei mulini ad acqua e dal 1850 dalla macchina a vapore. La  consistenza per la provincia di Milano in termini di potenza installata delle macchine a vapore si poteva stimare nel 1876 in 9.403 Hp. forniti da 565 caldaie, e nel 1889 in 32.478 Hp. forniti da1557 caldaie. Il comprensorio di Gallarate e Legnano nel 1891 allineava 253 caldaie con 7.968 Hp . Fino al 1900, disporre di un patentino per la conduzione di caldaie a vapore era un titolo assai ricercato presso il personale tecnico. Il vapore fu per noi, prima del motore elettrico, l’unica possibilità moderna di disporre di energia, ma fu usato solo in tre officine: Sessa, Rejna e Scaltritti Maraz. Per ovvi motivi geografici non potevamo utilizzare energia meccanica da molini, mancando corsi di acqua a regime costante. Questa attività fu riservata verso gli albori del 1800 alla sola Valle dell’Olona. A Castiglione, a Gurone, a Malnate si cominciò ad utilizzare industrialmente la forza motrice del fiume. Lì nacquero i primi opifici tessili con filatoi e con telai meccanici accanto ai mulini per grani, mutuandone la tecnica di presa della forza meccanica. Osserviamo anche, come nelle nostre officine più vecchie sia assente la caratteristica struttura verticale a più piani, tipica degli opifici anteriori al 1850, funzionali ad una attività con prevalente manualità operaia. A Jerago il solo edificio a due piani fu quello della antica officina di bilance a pendola del Sig. Ambrogio Macchi in Via San Rocco. I nostri edifici industriali sono più recenti datano dal 1890 e furono costruiti su di un unico piano orizzontale con capannoni avvicinati, formanti sale i cui tetti poggiano su colonne in ghisa grigia, in ritmi fissi detti a shed . Essi saranno costruiti in modo similare fino al 1940 grazie ad uno standard modulare di capriate e travi in legno da posizionare su colonne prefabbricate che consentono la copertura di ampie sale richieste dalla meccanizzazione della produzione moderna. Ancora oggi possiamo osservare queste architetture industriali in quelle che furono: l’edificio centrale della ditta Sessa in via Onetto, la casa della musica ex fonderia Sessa in Via Roma, l’edificio della Tessitura di Anselmo Carabelli in Via Cavour, la falegnameria Caruggi in Via Dante. La ditta Rejna è stata completamente rifatta ed all’archeologia industriale, lascia quale testimonianza di un’epoca la Caserma e le Casermette e le Ville dei dirigenti. Le Casermette e la Caserma furono costruite con concetti modulari e nacquero come abitazione degli operai dipendenti, rispondendo al cosiddetto paternalismo industriale. In Germania tali costruzioni presero il nome di Mieten Kasernen – case in affitto per operai, da cui il nostro : Caserma e Casermette. Di rilievo anche se più tardo il complesso industriale della ditta Liasa ad Orago, integro e sorto su unico progetto. 

Distribuzione di energia elettrica 

 L’anno 1906 segna l’inizio della distribuzione di corrente elettrica . In Cazzani  si legge :”il 9-4-1906, fu concesso alla “Società lombarda per distribuzione di Energia Elettrica, l’esecuzione per la conduttura elettrica interessante il Comune e fu ratificato il contratto per l’impianto di Illuminazione Elettrica in Jerago, già stipulato il 21-1-1902 con la Società Cooperativa di Jerago.” La prima cabina elettrica di trasformazione fu in prossimità della Piazza Vittorio con accesso dalla via Garibaldi. Tuttora esistente.

In tutte le case da quella data si cominciò a pagare il servizio in base alle lampadine installate, ma successivamente, siccome i carichi divennero eccessivi, si introdusse il limitatore di portata ul magatèl  saltimbanco . Più tardi arrivò ul cuntadur da a Vizzeula –Il contatore della Società Vizzola. Appaltatori per gli allacciamenti il Sig. Aperlo di Cavaria e il Sig. Zaffaroni di Orago. 

Riteniamo utili le seguenti note datate 1924, riguardanti l’Industria della produzione e distribuzione di energia elettrica “Nelle vicende della produzione dell’energia elettrica, la nostra zona ha veramente importanza storica, perché a Vizzola Ticino, nacque nel 1900 (secondo in Italia dopo quello di Tivoli) l’impianto idroelettrico più grande esistente allora in Europa con 20.000 H.P. (0.760 Kv n.d.r). L’inaugurazione ufficiale avvenne nel 1901 con l’intervento delle Loro Maestà. E quella data segna l’inizio di un trentennio di sviluppo magnifico delle industrie idroelettriche e parallelamente di tutte le industrie italiane. La Società Lombarda per distribuzione di energia elettrica, costituitasi nel 1897 per lo sfruttamento delle forze idrauliche del Ticino, già nella primavera del 1900 iniziava la fornitura dell’energia elettrica, e gli stabilimenti allora esistenti cominciarono a sostituire alle vecchie macchine a vapore i nuovi motori. Nel gallaratese erano allora solo 400 H.P. che venivano utilizzati come forza idroelettrica e salirono a 8.000 nel 1914 per raggiungere oggi i 14.000 H.P. Ma la Società lombarda col progresso del tempo estese ancor più la sua attività di sfruttamento delle forze idrauliche, per allargare i suoi impianti sfruttando anche altre zone e costruendo le centrali idroelettriche messe in funzione a Turbigo nell’ottobre 1904, a Masino nel giugno 1911, a Màllero nel Maggio 1912, a Poschiavo in Valtellina nell’agosto 1920, oltre la centrale a vapore di riserva e di ausilio a Castellanza, sorta nel giugno 1904. E’ in costruzione la centrale idroelettrica di Carona in Valle Brembana e viene poi acquistato un quantitativo notevole di energia da altre società (principalmente Brusio) e trasformata nelle stazioni di Tirano, Parabiago e Varano. Complessivamente la Società Lombarda che alimenta le industrie di una zona assai estesa della Lombardia, dispone di una potenzialità di circa 143.200 H.P di energia pari a Kilowat 105.300 compresa l’energia di riserva. Il consumo della nostra zona gallaratese rappresenta circa un settimo del totale dell’energia netta da perdite. La tensione nelle linee va da 500 fino a 130.000 volt. La Società Lombarda ha indubbiamente attuato, dopo il primitivo impianto di Vizzola, un ottimo piano di sviluppo che non si arresterà, vogliamo credere, allo stato presente. Ma unitamente alla Società Lombarda sono sorte diverse società rivenditrici che acquistano l’energia dalla società produttrice, e si dedicano alla piccola distribuzione per gli usi domestici, per illuminazione riscaldamento e per le piccole industrie. Queste imprese nella nostra zona gallaratese raggiungono il numero di 23 di cui 15 ditte e 8 aziende municipali. La più importante è la Società Alto Milanese con sede a Busto Arsizio. Complessivamente queste società nella nostra zona Gallaratese dispongono di circa 4.000 H.P. di forza. Non vogliamo tralasciare questi brevi cenni sulla industria elettrica senza avere rammentato che l’energia per trazione ferroviaria, veniva prodotta a Tornavento con un impianto esclusivamente a vapore della Società Mediterranea, la quale nel 1902 iniziava il servizio elettrico sulla Milano-Varese. Attualmente però la centrale di Tornavento, che era di 3000 H.P., non è più in funzione e l’energia proviene da Varzo, fornita alle Ferrovie dello Stato dalla Società “La Dinamo”. 

Nelle nostre realtà si possono apprezzare tangibilmente le ricadute delle invenzioni tecniche e delle scoperte scientifiche, quali il trasporto via ferro e la distribuzione dell’energia elettrica. Le crisi ricorrenti, gravissime all’inizio del processo della industrializzazione a far tempo dal 1870, saranno inizialmente più sofferte, non essendo attivi istituti di aiuto e previdenza sociale, attuati sistematicamente solo con la costituzione degli appositi istituti previdenziali verso il 1930. Ciò inizialmente causò la citata migrazione di uomini in Sudamericana o anche verso la Francia. Di quest’ultima, perlopiù stagionale, abbiamo trovato il ricordo, ma non la documentazione. Molti emigrati, raggiunta all’estero una buona posizione economica rientrarono verso la fine del 1800, potendo finanziare oltre all’acquisto delle già accennate disgregantesi antiche proprietà fondiarie, l’avvio delle prime attività artigianal-industriali 

Le prime attività meccaniche jeraghesi nascono nel 1871 per iniziativa di Giuseppe Sessa, nella sua bottega del Tougnon. Ma anche altri operano nella officina di casa propria, ricavata sota ul portig, seguendo un desiderio di emulazione  che li spinse a lasciare l’iniziale collaborazione cul so Principäl per tentare fortuna in proprio, affidandosi alle sole esperienze acquisite ed alla grande volontà e capacità di lavoro. Nasce la figura del farè che sa lavorare il ferro, del Furgeron che lo plasma a martello o al maglio. Nel racconto di Enrico Riganti rivivono: “il mantice in pelle che dava l’aria alle fucine, azionato da una corda legata ad una pedaliera su cui si affatica il piede dal garzone che, vestale dei tempi moderni, si preoccupava di tenere ardente il carbon- coke già sminuzzato, mentre con le tenaglie girava e scaldava al calor rosso il pezzo di ferro da lavorare. L’incudine sul ceppo di legno, il pesante martello, le mazze, gli stampi, le chiodaie; quattro giovani si alternano a battere la mazza. Il rullare del martello del forgiatore sull’incudine, per dare il tempo a quei battitori,.. era una scarica di mazzate che si riversava sul pezzo caldo da forgiare. Artisti anche della saldatura tramite bollitura, come si chiamava allora la saldatura “per giustapposizione” dei pezzi, che avvicinati incandescenti e fortemente battuti si sarebbero indissolubilmente legati. Grandi le ruote dei trapani a mano, azionate dai garzoni, le cui punte a lancetta erano state fabbricate dagli stessi fabbri. I seghetti per tagliare il ferro ricavati dalle ranze vecchie, le falci smesse cui essi facevano la dentatura e poi temperavano. Anche questa della tempera fu una grande abilità dei nostri fabbri, riversata nelle costruzione degli assali e delle molle a rolò da carro – balestre, per la cui resistenza alla sfibramento Jerago giustamente andò famosa. Le lime quando non tagliavano più venivano rigenerate rinvegnù con uno scalpello dopo averle riscaldate . Ma si costruivano anche gli strumenti per il proprio lavoro, ci si ricorda di quando Fermo Riganti il padre del Frà, fece il filetto ul verman della morsa per il suo banco di lavoro. Dopo aver segnato la traccia del passo, sul cilindro che avrebbe dovuto fungere da maschio. Su di esso, aviluppandolo col tondino di ferro fece una spirale e la saldò ad ottone seguendone la traccia. Così potè costruirsi la morsa.”. Quei primi artigiani come si diceva ean bon da fag i gamb ai musc sarebbero stati capaci di fare gambe alle mosche, ma generalmente lavoravano su schizzi. Il grande passo fu produrre per le grandi ditte che stavano introducendo il lavoro in serie. Siamo ormai all’inizio del 1900 quando gli artigiani dovettero acquisire mentalità industriale e trasformare le botteghe in ditte, altre sorgeranno ex novo, saranno pronti per l’ulteriore impulso che verrà dalla distribuzione della energia elettrica nel 1906 . La Sessa Giuseppe e figli – e la Rejna sono un esempio di quelle due possibilità arrivando ad occupare nel 1911 complessivamente ben 500 dipendenti. Non solo gli stessi collaboratori più ingegnosi diverranno capi tecnici e disegnatori, nasceranno le figure dei direttori generali, degli amministratori, come lo fu il Sig. Leone Michaud, di nazionalità francese, entrato in Rejna nel 1904 della quale divenne direttore nel 1905. Nella stessa ditta arrivò l’ingegner Dugnani, cui nel 1913 segui l’ingegner Pellizzari, a conferma della necessità di uomini dalla professionalità non più solo pratica. Queste ditte, nello sforzo di migliorare la loro produzione, si preoccuperanno di insegnare disegno tecnico aggiustaggi e rudimenti di meccanica ai propri dipendenti, con l’aiuto di insegnati quali il Sig. Giuseppe Cassani Pepinetu e Gino Riganti che fu apprezzato pittore e ritrattista.

1 La struttura orizzontale consente la corretta distribuzione della trazione meccanica per tutta la sala. I motori saranno sistemati nella apposita sala ubicata in testa ai capannoni. Essi saranno collegati con cinghe e pulegge agli organi di trasmissioni del moto e trarranno energia: in un primo tempo dall’ acqua, come nei molini, dal lavoro animale, con tapis ruolants sui quali si muovono buoi o cavalli,   poi dal  vapore ed infine dal 1906  dall’elettricità. Il primo stablimento Rejna fu mosso da macchina a vapore. L’energia meccanica viene distribuita in sala dal moto continuo delle  trasmissioni collegate al motore centrale con puleggia e cinghia –zinton, opportunamente cosparsa di pece – pesa greca in funzione antislittamento. Le trasmissioni consistono in  lunghi alberi in acciaio che si sviluppano per la lunghezza del capannone  a ridosso delle travi di imposta del tetto. Sono supportate da bronzine ancorate alle colonne e, nell’ intercolonnio di 6 mt, sono  appoggiate su  un supporto a sbalzo che scende dal punto centrale della trave del tetto. Piccole semipulegge in legno, riunite con bulloni, vengono bloccate sulla tramissione laddove sia necessario prelevare il moto da trasferire alla macchina utilizzatrice (telaio, macchina utensiletornio cono-puleggia) tramite una cinghietta di cuoio. Questa, lunga diversi metri, unisce la puleggia dell’albero di trasmissione alle  due pulegge dell’albero motore della macchina utensile. Delle due pulegge, coassiali all’albero della macchina, una gira a vuoto l’altra è fissa all’albero e lo trascina. Per avviare la macchina è sufficiente con una apposita leva del telaio o del tornio -detta fer du l’aqua -azionare un meccanismo a forcella che sposti la cinghia, dalla ruota libera che gira a vuoto a quella che traina. La cinghia in cuoio passando da una ruota all’altra frizionerà consentendo un avviamento dolce alla macchina. Sicuramente bisognava prestare molta attenzione perché le cinghie non agganciassero vesti o capelli delle operaie. Ragion per cui nelle vecchie fabbriche erano diffusi cartelli del tipo: Operaie portate vesti attillate, cuffie o capelli corti.  I capannoni erano illuminati dall’alto tramite lucernari rigorosamente esposti a nord. Infatti il sole, non doveva mai penetrare direttamente nella sala, pena l’impossibilità di operare per abbagliamento nei giorni di pieno sole. Fer du l’aqua, trova  la sua origine per pari funzione di avviamento, dal nome dialettale dato alla leva di ferro manovrando la quale, si spostava il canaletto di legno che prelevava l’acqua dal fiume e la convogliava sulle pale del molino per avviarlo. 

2 Jerago la sua storia Pag. 281

3 In : Origini e sviluppo delle industrie del Gallaratese. 

4 A conferma di questo rientro rovistando in vecchi portamonete, di quelli che ci si tramanda gelosamente in famiglia, come se fossero piccoli tesoretti, non integrati o arricchiti da velleità numismatiche, si potranno rinvenire monete: argentine, francesi, greche e inglesi, testimonianza dei loro viaggi di emigranti. Un prozio, un bisnonno che andò a lavorare all’estero, lo abbiamo avuto tutti e non è necessario provenire dal sud Italia

5 Principal- datore di lavoro. Nel dialetto antico il proprietario di fabbrica viene identificato come Principal- quasi un princeps un primo per esperienza tra coloro che altrimenti gli sono pari. Il termine Padron nasce dal riferimeto alla proprietà dei mezzi di produzione, ma con la conflittualità latente nel rapporto subordinato di lavoro potrà assumere anche una valenza dispregiativa . 

Il 26- 9- 1865 nasce ad Orago una delle più antiche tintorie e tessiture organizzate con concetti industriali

La presenza dei mulini: Molinello Isimbardi, verso Solbiate, Giambello, Scalone, verso Oggiona,   sono essenziali perché  si installi ad Orago, al confine della frazione di Cavaria una delle più antiche tintorie e tessiture italiane, la fratelli Sacconaghi; non dimentichiamo che all’epoca Cavaria era frazione di Orago. La vicenda   viene descritta dal Prof. Vittorio Macchi. Verso il 1850 Girolamo Sacconaghi, cittadino svizzero, ma emigrato, di antica famiglia gallaratese, lascia Faido nel Canton Ticino, per impiantare una tintoria presso un antico mulino sull’Arno in località Martinasc, nome italianizzato sulle mappe in Martinazzo, posto ai confini dell’allora comune di Orago e uniti  e quello di Oggiona, che poteva  avvalersi della forza motrice del Molino Martinazzo con una ruota di 2,15x 0,60. Tale tintoria è il primo complesso creato con criteri innovativi sia per impianto che per nuove tecniche introdotte già oltralpe. La tintoria Sacconaghi di Orago è dunque una delle più antiche dell’alto milanese. Poi fu trasferita nella sede attuale ormai dismessa, nella zona sotto la stazione ferroviaria  al confine tra il territorio di Orago e la sua frazione di Cavaria prese il nome di Tintoria Fratelli Sacconaghi e poi tintoria di Cavaria fino alla chiusura avvenuta all’inizio degli anni 2000.

Chi conosca la vicenda gallaratese di Cantoni, indiscusso pioniere della attività cotoniera  Italiana, cittadino svizzero, trasferitosi a Vercelli per vendere granaglie, poi realizzatore del primo cotonificio ad Arnate attrezzato dei famosi filatoi Jannette di diretta importazione inglese), avrà modo di  notare  una somiglianza con le vicende delle  nostre località e dei nostri uomini essi pure pionieri dell’industria. La tintoria oraghese di Girolamo Sacconaghi apre la via alla nascita della tessitura Introini  poi Maino a Cavaria ed alle future iniziative meccaniche. Che vanno lette con l’ausilio delle note successive.

Il rilevabile aumento della popolazione, presumibilmente frutto della assistenza sanitaria statale configurata dall’ Imperial  Regio  Governo Austriaco e attuata proprio a Orago  con la condotta medica austriaca (supra),  rilevabile  nel commento al libro del  dott. Minonzio, è motivo di spinta all’emigrazione, ma contemporaneamente contribuisce  all’impresa di costruzione della linea  ferroviaria che negli anni 1860 darà lavoro a molti braccianti e carriolanti locali e carrettieri. Risollevando le economie familiari  rese precarie da annate caratterizzate dalla malattia delle viti e dagli scarsi raccolti. L’esercizio della ferrovia consentirà la prevista diffusione delle attività industriali che si insediano proprio dove sono presenti potenzalità di braccia. Con accezione moderna si parla di attività labor intensif. Che hanno delle ben precise date- 1858 – la ferrovia, 1908 – la stazione di Cavaria , 1904 – la distribuzione della energia elettrica.

 

Emigrazione

 Anno 1868[1]

 

 

Popolazione Emigrati nelle Americhe
Albizzate 1126 60
Caidate 568  

23

 

Cairate 1419 201
Menzago 467  

18

 

Oggiona-Jerago 721  

16

 

Orago e Cavaria 664 29
Quinzano 313  

16

 

Solbiate Arno 729 20

L’emigrazione considerata è verso l’America ed Ercole Ferrario[2] annota che “pur troppo si aggirano in questi paesi certi incettatori che traendo argomento dalle angustie dei contadini, ed approfittando del loro malcontento, li sobillano e li conducono ad andare in America, ritraendo a quanto si dice, un tanto per ogni individuo che mandano a certe società, che con molta arte fanno la tratta dei bianchi. Corrono altresì fra le mani del popolo alcuni opuscoli, nei quali si decantano le ricchezze d’America, e si mostra quali larghi guadagni possa farvi anche il più zotico contadino.  Affinché questo scritto riuscisse meno incompleto e monco, sarebbe stato necessario di dire qualche cosa circa la sorte che tocca a cotesti spatriati, giunti che siano nelle Americhe, e ciò io desiderava ardentemente di poter fare. Ma oltreché l’emigrazione cominciò da pochi anni, e non ne sono perciò finora ben manifesti gli effetti, le notizie provenienti di là sono scarse né sempre sincere, sicché non se ne può fare grande calcolo. Tuttavia per quanto pare e stando sempre sulle generali, non trovan tutti colà quell’abbondanza che vagheggiavano partendo: anzi si sa di talune, né infingardi, né inetti che si lagnano della risoluzione presa, e volentieri tornerebbero al paese nativo se non li trattenesse per una parte il timor delle beffe, e per l’altra la mancanza od insufficienza dei mezzi necessari al viaggio. Ben è vero che parecchi dopo alcuni mesi mandarono un po’ di denaro per soccorrere alla famiglia abbandonata. E più spesso per somministrare ad altri i mezzi onde espatriare e raggiungerli; e questo è un prepotente incentivo per spingere de nuovi alla partenza e forma il più valido argomento per strombazzatori della felicità e delle abbondanze americane.”

Il Ferrario dettaglia  i motivi che spingono tanti agricoltori alla partenza:

-La siccità, che più o meno intensa dura da 7 anni in questa plaga e che nuoce di preferenza al granone (mais) il quale forma la base dell’alimentazione dei nostri contadini

-la malattia delle viti[3], che data da quasi 20 anni e l’atrofia dei bachi da seta, disgrazia peggiore ancora e più rovinosa ai nostri paesi, che, cominciata da 12 anni, non lascia speranza di essere vicina a cessare

-Le terre sfruttate, perché concimate troppo poveramente ed a motivo del patto economico da noi in uso, non coltivate secondo la più conveniente ed utile rotazione agraria.

-Le imposizioni, massime provinciali e comunali, troppo gravose

– L’accrescimento di valore di ogni oggetto necessario alla vita, non punto equilibrato o compensato da accrescimento di rendita.

– La mancanza di lavoro nell’inverno.

Se le considerazioni del Ferrario sono valide per tutta la pieve, Orago rappresenta una situazione felice nel contesto agricolo locale perché nella pianura  attorno all’Arnetta l’irrigazione consentita dai canali senza nocumento di ristagni, consentirebbe di seminare più largamente la segale, orzo e farro, cereali  atti ad un’alimentazione più nutriente del granone e del riso, anche il grano saraceno e le patate dovrebbero coltivarsi più che non si faccia.

Non si dimentichi che il prezzo degli affitti costringeva il conduttore ad una semina intensiva di mais.[4]

Ma nel nostro caso oraghese si trattava di opera pia e di origine cristiana, quindi con riguardo alla persona.

La coltivazione del mais a svantaggio degli altri cereali, che anche se quantitativamente più appagante in territorio umido, produce per chi se ne nutre prevalentemente, una avitaminosi del complesso B e quindi la malattia della pellagra,  però non viene rivelata nella realtà oraghese dal  medico condotto. Si semini più largamente la segale e si torni alla coltura degli orzi e non si trascuri il farro invita Ferrario. L’analisi che fa il Ferrario è comunque legata alla sua esperienza di medico nel samaratese. Ferrario fu testimone dell’origine dell’industrializzazione, ma ne pare critico per i suoi effetti negativi, soprattutto per la rottura del patto di mutualistica assistenza che la famiglia patriarcale contadina ha sempre offerto alle avversità della vita nei confronti della famiglia mononucleare.

[1]A conferma dell’importanza dei vigneti si veda quanto terreno nel perticato di Orago fosse vitato circa 280 pertiche. Altra conferma come il Lampugnani nella sia volontà testatoria gratifichi il Cardinale Pozzobonelli suo amico di 2 botti di vino della nostra collina.

[2] Abbiamo letto nel testamento Bonomi come le rendite del possesso di Orago fossero importanti e queste derivavano dagli affitti o dalla conduzione in proprio tramite fattore delle proprietà agricole.

[3] Dati rilevabili dagli atti sulla relazione letta da Ercole Ferrario, Intorno alla  Emigrazione che avviene nel circondario gallaratese” in occasione dell’adunanza del  Reale istituto lombardo di Milano 4 giugno 1868, Busto Arsizio, Freeman editrice, 2002

[4] Marco Sandroni, Un medico ed igienista dell’Ottocento lombardo – Ercole Ferrario- Samarate 1816-1897 – Biblioteca comunale di Samarate, 1997