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Presentazione a cura di Elio Bertozzi del libro “Le ricette della nonna” di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti

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Siamo nel periodo classico della dominazione viscontea. Ottone, da buon politico pensa a perpetuare nella sua famiglia il potere civile. Ottiene dal Consiglio Generale la nomina del pronipote Matteo Visconti, figlio di Teobaldo a cui Napo Torriani mozzò la testa sulla piazza di Gallarate, aveva un fratello chiamato Umberto e uno zio detto Pietro. Nella divisione dei beni paterni, fatta nel 1288, ai due fratelli toccarono le terre di Somma, Golasecca, Vergiate, Lonate Pozzolo e Ferno, e allo zio, con Besnate, Albizzate, Crenna, Rovate, Solaro, Brunello e Massino, anche Jerago.

Jerago, che Bonaventura Castiglioni, nella prima metà del Cinquecento, indicava con il termine Hieracium. Jerago anche vicus villaggio romano, che con il termine Algerago troviamo in una pergamena del 1178; detto Alierage nel Liber notitiae sulla fine del Duecento: scritto Mierago nel 1455 e, dal Cinquecento in poi, come sottolineava lo scomparso storico Monsignor Eugenio Cazzani, è presente nella documentazione ecclesiastica con la forma Alierage. Insieme con Jeragum permarrà sino alla fine dell’Ottocento, quando si cominciò ad usare,anche per atti ecclesiastici, la lingua italiana. L’etimologia suggerita, infine, da Dante Olivieri vuole Jerago, dialetto Jeragh, derivato da Alliaricus. Aggettivo dal nome personale Alliarius, da ritenersi un personaggio, distinto per censo e per virtù civico–militari, il quale lasciò il nome al locus da lui abitato.

Posto in una posizione preminente, sovrasta la vallata. In tempo si diceva che Jerago venisse derisa, di fronte da Oggiona che sembrava beffeggiarlo dal culmine del colle, detto Monte Oliveto. Da secoli, i due paesi, a guardarsi in eterna sfida, anche se nessuno,mai, si mosse ad affrontare l’altro. Jerago mostrava ai vicini le sue chiese: la vecchia, con il suo alto campanile e la nuova in stile romanico. Ma paladino ne era in particolare l’antico castello, cui ben si adattano questi versi di Olindo Guerrini nel suo Canzoniere:

 “ O passegger che per la via diserta

 affretti il passo

 leva la fronte tua verso quest’erta “.

Balconcini con eleganti ringhiere, terrazze, posterle, torrette, bertesche, spalti, barbacani, avancorpi, merli: tutto l’apparato di un vero castello feudale. Sopra passavano nubi bianchissime, che adornavano il cielo di una tenuità di spuma. Passano da secoli. Le avranno guardate la castellana, il signorotto, il paggio, l’armigero, la comare. Nubi che raccolsero pensieri e segreti, sogni delusioni e che, ancora oggi, con il loro attuale “carico”, scivolano dolcemente sugli immensi campi vellutati del cielo che sovrasta la vallata su cui campeggia Jerago.

La riscoperta della cultura locale, alla quale assistiamo ormai da vari anni, ha favorito la produzione, recente, di volumi dedicati alla storia di singole località o di specifici aspetti della vita dei tempi passati. Alcuni di tali libri si limitano ad una semplice rielaborazione di argomenti già presentati da altri, senza offrire al lettore sostanziali novità nei contenuti. Il volume di Anselmo Carabelli ed Enrico Riganti si discosta nettamente dalle pubblicazioni consimili sia per argomento che per originalità. E’ ambientato in un singolo paese: Jerago, ma coinvolge una cultura che riguarda tutto il Seprio; è dedicato ad un tema principale: la cucina tradizionale, ma ci informa su una molteplicità di usi, costumi, detti, proverbi, significati.

Frutto di una lunga ed appassionata ricerca  “sul campo“ offre al lettore un quadro del mondo contadino del buon tempo antico, con un pizzico di nostalgia, ma senza dimenticare che la vita continua ad evolversi ed a progredire.

La lettura è snella e piacevole per tutti: gli Jeraghesi ritroveranno l’anima del loro paese, oltre alle ricette di pietanze più volte gustate, altre parimenti appetitose, ma anche tanti ricordi e tante curiosità. I non Jeraghesi riscontreranno incredibili somiglianze con fatti ed usanze dei rispettivi paesi. I lettori di una certa età ricorderanno il sapore di un mondo che ancora esisteva durante i loro anni migliori, anche se già avviato al declino, i più giovani avranno il gusto di scoprire come vivevano i loro coetanei quando non c’erano le discoteche e la televisione. Mondo migliore o peggiore? Semplicemente un mondo diverso: l’aria era più pulita, ma mancavano tante comodità, non c’erano i soldi ma la vita era più genuina. Non beghe legali, fiscali o aziendali, però contrasti di paese, più semplici, ma non per questo spesso meno amari.

In tutta la trattazione domina, com’è giusto, il dialetto, senza tuttavia escludere dalla lettura chi non lo capisce o chi non lo parla più. Anzi proprio costoro potranno gustare alcune espressioni interessanti, che magari provengono direttamente dalla lingua latina o francese o tedesca.

A questo proposito mi pare che quanto scrisse Cesare Cantù oltre 150 anni fa, nella sua semplicità, sia tuttora il più valido orientamento per il lettore:

“il nostro parlarsi sopra estesissimo tratto, con modificazioni locali …. Dell’antica origine gallica fa esso fede nella pronunzia dell’ u dell’oeu  (feug se peu); degli an, on, en, nasali (pan, porton, ben) nello scempiare spesso le consonanti e mutare la z in s; oltre un grandissimo numero di voci, non adottate nella lingua italiana e viventi nella francese, ben distinte dalle poche lasciatevi dalla recente dominazione  e dalla moda. Chi ode il dialetto di Marsiglia, può scambiarlo pel milanese, mentre a fatica è intellegibile ai Francesi, e la somiglianza è tanto più notevole, in quanto che già si riscontra nelle poesie de’ i Trovadori, poeti provenzali del XII secolo, e non solo quanto a parole, ma anche a forme grammaticali.

Nel Varon Milanes, opera di un Capis ampliata da un Milani, si cercano radici greche a molti vocaboli lombardi, con quelle solite stiracchiature per le quali le etimologie son divenute un giochetto simile a quello delle sciarade: ma certamente alcuni ve n’ha di derivazione latina e di greca e non conservatasi nell’italiano: pochi n ha di tedesca, moltissimi invece di spagnola, senza contare la fratellanza delle due lingue. Il nostro dialetto nel plurale non discerne l’articolo maschile dal femminile ( i fioeu e i tosann); l’articolo indeterminato distingue dal numerale (un omm, damenn vun); i numerali due e tre forma diversamente pel femminile  (du sold, do lir; tri foeuj, tre pagin); alcuni plurali ha differentissimi dal singolare (om e omen, tosa e tosann, casa e ca , boeu e bo) usa un suono della s ignoto al toscano ( s’ciopp);…alla tedesca pospone la negazione al verbo (mi so no) esclude affatto quelle inversioni che fanno arditamente bello l’italiano“.

Come si nota quasi tutti i popoli europei hanno contribuito alla formazione della lingua dei nostri avi e quindi delle nostre radici. Forse la nostra preoccupazione riguardo la cosiddetta società multietnica del futuro è esagerata. Forse, soprattutto a patto che non si dimentichi il passato.

                                                  Elio Bertozzi

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Ris e latt- Riso e latte

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Premessa

E’ questa una ricetta assai diffusa, si è persa l’usanza dei nostri vecchi di addolcirlo con zucchero, a differenza della bassa padana dove lo si insaporiva col formaggio grana. Il motivo apparentemente banale denuncia l’influenza di abitudini nord alpine e come direbbero in Canton Ticino d’oltre Gottardo. Tale usanza è propria dei cantoni tedeschi, quasi a ricordarci che le nostre zone sono sempre state in rapporti commerciali con l’antica Raetia, tramite il Mons Adula – San Gottardo (Strabone opera citata)

Ingredienti: 0,750 lt. di latte, 0.750 lt. di acqua, una noce di burro, 180 gr di riso, sale.

Portare il latte leggermente salato ad ebollizione con pari quantità di acqua, versare il riso, abbassare la fiamma curando che il latte non tracimi per ebollizione. Cuocere per Il tempo necessario per portare a cottura il riso, assicurandosi che il tutto si addensi, per effetto dell’amido rilasciato dal riso, senza diventare un risotto. Se così succedesse, aggiungere acqua molto calda, che si terrà pronta in un pentolino. A cottura ultimata aggiungere una noce di burro e servire.

Come detto la tradizione voleva che il commensale jeraghese aggiungesse zucchero, vi è chi oggi lo preferisce sfarinato di parmigiano, io sono per la tradizione

Brano tratto da “Le ricette della nonna – Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose –  Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940″

ul Campanin Rumanic da San Giörg

foto di Francesco Carabelli

In dul an dul Nost Signur          

milneuvcéntnuvanta e vun  

sin mitù a suna’ anca lur      

i campan da sto Cumun              

I sentivum pù canta’     

i fasévan pù ” din don ”           

vidéi gio’ in mèza al prà       

l’éra na désulazion                

An  duü tirai giò inséma            

parché éan périculus                

Don Lüis gavéa un patéma            

a vidéi li’ sanza vus              

Ma pérò la züca düra                

dul Don Angiul e d’Jéraghés        

una  Tur da gran fatüra            

han ridài a sto paés               

“Bèla roba! và sai fan!”            

a diséa cèrta gént                 

“sa peu viv senza campan!!!        

i duarian fa un bèl niént”         

“Sto marsciön d’un campanin!       

a lé tut da büta’ gio’…          

a lüstral cume un füsil            

in invece dré anca mò”              

Par furtüna che ai bàban                 

quèi balos g’han dài mia trà        

al Cüräd gh’han dài na man            

ghé andài inanzii i laurà            

Però adès che hann vidù’

ca ghèm chi na méraviglia    

i cipisan quasi pù      

ghé cambiäda la quadriglia”

Cunt un mücc da vulunta’             

tanta bona e brava gént

han scuprì na rarita’

a partì quäsi da niént!                                                   

Mo che ul campanin l’é li’

drizz in tüt ul so spléndur

végh un monumént inscì

lé par tüc un grand unur

n’han parlò fin süi giurnäi

tant le’ vec e tant l’è bèl

fa na copia écéziunäl

mitù inséma al nost Castèl

Finalmént quand ghé na fésta

quand g’avèm d’andà in gésa

o a na cérimonia mèsta

quand na copia la sa spusa.

séntirém sunà a distésa

opür trista na campana.

la ga ciamarà a surprésa

fin che Dio al ga mét a nana.

Poesia scritta da Cesare Ferioli in occasione del restauro del campanile di San Giorgio in Jerago nel 1991 (versione tratta da Anselmo Carabelli con Enrico Riganti, Le ricette della nonna. Cucina, usi espressioni, attività, feste religiose nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940, Collana Galerate, Tipografia Moderna, Gallarate, 2000)

 I fungiat da raza  

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Poesia scritta da Cesare Ferioli (versione tratta da Anselmo Carabelli con Enrico Riganti, Le ricette della nonna. Cucina, usi espressioni, attività, feste religiose nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940, Collana Galerate, Tipografia Moderna, Gallarate, 2000)

Quand l’Autun lé dré rivà               “A lé mat me car Giuan  

in paes a va in pé                         butal via se no te crepat

un téribil gibilé                               ma va pian parchè tel scèpat

par i sträd e par i cà                      métal là visin i ruan

              

E la causa dul frécass                  Chi sà mäi che un quéi..asnin

Dul vusà e dul risià                        da la vista un pù aquilina

lè la sfida ca sa fà                         sal ga dà na guardadina

fra i fungiat da tut i rass                a la ciapa pan vérnin “

 

Propri inscì e tut parché                Tra na bàla e na fumäda

in paés ghe tant bausciuni            pasa ul temp e niént sa cata

che sa disan “gran catuni”            a lé na sfurtuna mata !

ma che i catan cui…dané.             bataran. .un’ ältra sträda

 

L’aventüra la incumincia               “Sa pò nò andà cà senza

ai ses ur du la matina                    che figüra la sarìa

quand cunt cest e merendina       andem giò da la Maria

i van tücc feura pruvincia              che i a véndi cun cuscénza”

 

Ghé‚ chi va in Val Furmaza         Guärda un pu che gran catäda

chi a Magiura e chi a Suliva         disaran qui du la piaza

e chi va in…Cupérativa                 “Quisti a in fungiat da raza!

a svuià na bèla taza                      in i re da la cunträda”

 

Dopu un’ura o giò da là                E inscì finis in gloria

rivan a déstinazion                       un dì négar e fadigus

métan sù giaca e culzon              ma un quei vun un pù curius

e sa butan a cercà                       andrà in fond…da tut a storia.

                

Sgärla mi e ruga ti        

sota al brug e in dul buscon     

“a lè matt opùr lè bon?”

a sa disan lì par lì

 

                   Cesare Ferioli

 

Cesare Ferioli ha tratteggiato quelle avventure nella poesia, pubblicata originariamente su: “Jerago Rassegna di vita cittadina” nel 1967

 

Traduzione della poesia dialettale “I fungiat da raza”: quando arriva autunno, a Jerago si accende un terribile fracasso, per le strade e per le case. E la causa di questo vociare e dei litigi é la sfida che si ingaggia tra i raccoglitori di funghi delle varie fazioni. Proprio così e tutto da imputare al fatto che a Jerago vi sono anche dei millantatori, che si dicono grandi raccoglitori, ma che raccolgono grazie… ai soldi. L’avventura comincia alla mattina verso le sei, quando col cestino e con i panini, tutti si recano fuori provincia. C’è chi va in Val Formazza, chi a Maggiora e chi a Soliva, ma anche chi.. va in Coperativa a svuotare una bella tazza di vino.  Passa un’ora circa e arrivano a destinazione. Indossano giacca e calzoni alla zuava, poi si buttano alla ricerca. Rovista e ribalta le foglie tra l’erica e le felci. E’ matto o è buono? Mio caro Giovanni è velenoso, buttalo via che muori, ma va piano non spaccarlo, mettilo là vicino alle carrarecce del sentiero. Fosse mai che qualche asino patentato dalla vista d’aquila non lo scambi per un Boleto se lo guarda un po’ di fino. Così tra una frottola e una fumatina, passa il tempo e non si raccoglie alcunché. Bisogna prendere un’altra direzione.  Però non si può andare a casa senza. Sarebbe proprio una figuraccia, andiamo giù nella posteria della Maria che li vende e non si approfitta per il prezzo.. ! – (arrivati in piazza e aperto il baule della macchina n.d.r.) – Guarda un po’ che raccolta, diranno esterrefatti quelli della Piazza. Questi sì sono i veri fungiatt, sono i migliori della contrada. Così finisce in gloria una giornata nera e faticosa. Ma qualcuno un po’ curioso andrà al fondo di questa storia.

 


 

Cärna cunt a panéra – Carne con la panna

Premessa:

Trattasi di una preparazione ricca, per occasioni importanti. Per tempo bisognava appartare la panna scremandola dal latte. Successivamente si acquistava un buon pezzo di carne di manzo per brasato – scamone o codone, che offre la caratteristica di rimanere pastosa alla cottura . Questo riservava il piatto alle ricorrenze speciali. La ricetta è comunque riscontrabile nelle cucine d’oltralpe, mi è infatti capitato con grande sorpresa di trovarla nel Menù del ristorante Helm a Basel – Basilea (CH). Piatto unico da servire molto caldo, posando la pentola in tavola su uno scaldino. Ottima anche riscaldata, ma in tale situazione piuttosto pesante da digerire. Accompagnare con vino rosso generoso. La ripropongo nella versione della mia mamma: Sig. Carla Macchi –Carabelli , fu pubblicata in “ Jerago rassegna di Vita cittadina dic.1967 ”

Ingredienti per 5 persone: scamone gr 700, Burro gr. 50,  4 Cipolle grosse, 1/4 lt. di panna, aceto ½ bicchiere.

Prendete 700 gr. di carne scamone e metteteli a fuoco lento con 50 gr. di burro e 4 cipolle tagliate in pezzi in una pentola dal bordo medio. Salate in giusta misura. Quando la carne sarà ben rosolata nel burro e cipolle, aggiungete 1/2 bicchiere di aceto, coperchiate e lasciate cuocere il tutto a fuoco lento per due ore.

A cottura ultimata levare la carne dal tegame e tagliarla a fette di medio spessore con l’aiuto, potendo, di un coltello elettrico. Indi passate direttamente col Minipimer gli ingredienti rimasti nella pentola. Rimettete nella stessa pentola la carne affettata aggiungendo il quarto di panna.

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Fate cuocere ancora a fuoco lento per una ventina di minuti. Raccomando infine di servire il tutto ben caldo e in piatti caldi.

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Brano tratto da “Le ricette della Nonna – Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940” – Anselmo Carabelli con Enrico Riganti – Tipografia Moderna , 2000 – Collana Galerate

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