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Ul Pan Tranvai

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Originariamente pubblicato su L’equinozio – Mensile di Informazione su Jerago con Orago – Ottobre 1994 – Numero 4 anno 1 – a cura della Pro-loco di Jerago con Orago

Quale sorpresa quando chiedendo alla commessa del prestinaio quel filoncino di “Pantranvai” che ammiccava invitante dalla vetrinetta dell’esposizione, ebbi di rimando un “Quanto pane con l’uva, Signore?”. Beh, a me quel pane con l’uva non andò proprio giù ed optai per un pezzo di pizza.

Addio tradizioni locali, se anche i nostri cari Prestinée tollerano che il Pantranvai sia ribattezzato in uno spregevole pane con l’uva. Perché dovete sapere che il nome gli viene dal fatto di essere una specialità tutta milanese, un po’ come il panettone odierno: Stevan Alzati, che lo rivendeva a noi, lo andava a ritirare al capolinea della Tramvia a Gallarate in Piazza San Lorenzo. Allora quando decise di farlo nel suo forno, che è oggi del nipote Giorgio, lo chiamò appunto PANTRANVAI.

Per la verità oggi, a differenza dell’originale, viene prodotto con uva sultanina anziché con la classica “Uga Americana secò al sul cunt i so giandulitt” (Uva Americana seccata al sole e non privata dei semi). Ecco perché mi sento di proporre un minicorso di aggiornamento per commessi di panetteria.

Il chilo di panni deve essere un chilo di “michette”; pare la stessa cosa ma penso che nessuno abbia mai faticato per il panino, ma per la “mica e la michetta” sì.

Niente di piu’ buono col caffelatte della mattina di una fragrante michèta ancora calda di forno, un lusso davvero,  perché il latte col caffè d’orzo o di cicoria si sposava sempre col pane raffermo- Ul pan séc. Saranno state economie di povera gente, ma sicuramete preservavano da tutti quei bruciori di stomaco regalati dai moderni biscotti e merendine, conditi di tanta pubblicità e da tutti quei grassi alimentari che categoricamente ci rifiutiamo di acquistare dal macellaio. 

E il “Pan Giòld”, certo il pane giallo era ed è un vero rito a cominciare dalla forma, la Roea. Una ruota bella e grande che a fatica era contenuta dalla “sporta da la masera” (Borsa da Spesa della massaia ), la cui forma appunto, doveva propiziare il corretto taglio delle fette, sottili di mollica e con un po’ di crosta intorno, perchè mangiandole richiamasse leggermente di bruciato. Il Pan Giòld, quello con la farina da furmenton è sempre stata la base per i nostri piatti semplici ma non per questo senza regole di confezione.

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La Supa o zuppa, può essere fatta con gli ingredienti che la stagione offre e che la tasca della masera permette: Supa da verdura, breud da galina, breud da manz o da vaca, buseca, l’essenziale è comunque che il pane giallo, venga tagliato  a coltello dall’esterno della crosta verso l’interno, facendone fette sottili, non tocchi.  Le fettine vanno messe nelle scodelle sfarinate di formaggio grana, e sopra vi si versa la zuppa. Quando la zuppa si è raffreddata e ul “Pan giòld l’e’ ben murisnà” allora si puo’ mangiare. Si faccia attenzione a bagnare il pane con la zuppa e mai mettere il pane giallo nella zuppa, altrimenti sa fa una sòpa pal can un mangiare per cani.  Altro pandolce nostrano poi era la “Bròsela” che poteva essere ricoperta cui Fig  fichi, uga mericana pasa, nus  noci, una via di mezzo fra il pantranvai e un osso da mordere o os da mort. Chissà mai che i nostri forni possano ridare un ruolo di prestigio a queste nostre semplici, ma autentiche leccornie.

Anselmo Carabelli

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La presunzione dei saccenti ovvero: tan dai a carta dul buter da lepà 

I nostri vecchi hanno  inventato  un detto molto efficace per stigmatizzare il saccente  “Gan dai a carta dul buter da lepà”.  Nel contesto della vita non è difficile trovare persone, che la  sanno lunga, su tutto debbono pontificare esprimere il loro insindacabile parere. Certo è piacevole tale compagnia, ma alla lunga diventa stucchevole, perché è veramente impossibile essere edotti su tutto, con la complessità della vita moderna. Bisogna leggere molto, informarsi.

Fonte immagine: pianetadelleideeambiente.it

Tempi moderni

Una domanda che mi pongo spesso e´ perché i nostri ragazzi, che abbiamo educati al rispetto degli insegnamenti della chiesa, oggi fanno fatica a frequentarla.  E’ vero, si trovano immersi in un mondo che sembra ignorare l’insegnamento cristiano dei ns. padri. Io ricordo che ad un certo momento della mia vita, feci qualche domenica a non andare più a messa; il mio papà, che non era certamente un paolotto, mi richiamò severamente che così non andava proprio e quindi era bene che  mi correggessi. Con i mie figli non sono stato capace di tanto. Personalmente mi ero accorto di alcune novità, quando viaggiavo  per lavoro sul mio camioncino, da una postazione di guida più alta di una vettura normale potevo osservare, durante certe messe  esequiali feriali, gruppi di uomini attendere sul sagrato per il tempo del rito esequiale, presumibilmente per poi accompagnare il feretro al camposanto. Erano quelli cui  faseva mal ul fum di candil e preferivano sostare fuori, anche per chiaccherare. La messa per loro era riservata a  Natale e a Pasqua, dopo le insistenze dalla moglie. Ma da un certo momento in poi vidi anche le donne, e questo mi portava non poco a riflettere. Infatti per l’insegnamento di alcuni amici ebrei, coi quali avevo rapporti di lavoro, sapevo che per loro è ebreo chi e figlio di madre ebrea, infatti se si vuole ben guardare l’educazione di una persona, si trasmette da madre in figlio. Quindi a maggior ragione l’educazione religiosa. Infatti sono state  la mamma e la  nonna e le suore all’asilo che ci facevano recitare le orazioni. La mamma che ci provava le domande del catechismo, La scuolina di religione nel tempo di Pasqua. E la nostra signora maestra a leggerci il Vangelo durante tutti i giorni della quaresima. Tanto che oggi ancora, quando le letture della messa mi rimandano quegli episodi penso ancora a lei , e le rivolgo un grato pensiero.

Alcuni mi dicono che non bisogna forzare i ragazzi perché saranno poi loro a scegliere , facendo uso della ragione ed a tempo debito.  Ma io mi chiedo, perché tanta prudenza nell’insegnare i principi cristiani ai ragazzi, quando  quell’educazione fu importante  nell’inculcarci  quella disciplina morale che si accompagnava agli insegnamenti religiosi. Il mio mai dimenticato parroco don Luigi Mauri diceva, non basteranno i carabinieri se venissero meno gli insegnamenti dei preti e nella semplicità di questa osservazione, quante volte mi è venuto alla mente questo insegnamento.

fonte immagine: ilvaresotto.it

GNOCC DA PATATI  – Gnocc da Pomm da Tera – Gnocchi di Patate

 

Tipico piatto autunnale della nostra tradizione le patate erano coltivate nei campi in piena terra con una tecnica importata dal comasco, con attenzione soprattutto alla disinfestazione da quel micidiale parassita dell’apparato foliare che e’ la dorifora. Le patate raccolte venivano conservate in cassette di legno sovrapposte in luoghi aerati ma scuri per evitare la precoce germinazione dei tuberi. Le patate piu’ piccole venivano messe nella “Caldera” appesa sul fuoco cotte e  usate per l’alimentazione animale. Prima pero’ che finissero nel pastone degli animali, da bambini se ne rubavano grandi manciate, e poi via a mangiarle di nascosto dopo averle pelate scottandosi le dita. Chi non aveva le patate andava a comperarle dal Ruell o dal Santin che erano gli ortolani del paese. Per un buon piatto di gnocchi le patate debbono essere locali o italiane, quelle straniere rendono l’impasto troppo molle.

Ingredienti per 5 persone:

-1 kg di patate nazionali, preferibilmente nostrane

– 350 gr di farina

– sale q,b.

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Lessare le patate  pelarle calde e schiacciarle con lo schiacciapatate direttamente sull’asse, mischiarle con la farina salarle. Impastarle in modo da ottenere un impasto ben lavorato ed elastico se troppo molle aggiungere farina. Dall’unico impasto fare piccole palle uso tennis. Stirarle in modo da ottenere dei cilindri della grossezza di un dito pollice. Che il tavolo sia ben infarinato per evitare che vi si attacchino. Tagliare con un coltello il filone cosi ottenuto in cilindretti lunghi un centimetro. Infarinare i cilindretti farli scivolare sulla parte arcuata delle punte di una forchetta premendo col pollice, si ottengono così’ gli gnocchi che vanno posti su un canovaccio di tela in attesa di essere messi nella pentola. In una pentola di bordo medio e grande fare bollire acqua salata. Mettere nella pentola la quantità di gnocchi per una persona. Quando gli gnocchi vengono a galla toglierli con la schiumarola passarli nello scolapasta e servirli in piatto caldo, cosi per gli altri commensali. Condire con burro  o grana abbondanti  o con sugo di pomodoro o con ragu´ di carne al sugo di pomodoro e grana, col grass dul rost alla Jeraghese (Intingolo che rimane sul fondo della pentola quando si fa l’arrosto di manzo), con gorgonzola e panna.

 

Avvertenze: gli gnocchi debbono risultare sodi dopo la cottura se cosi’ non fosse per la volta successiva aumentate la quantita’ di farina.

Attenzione: vanno preparati appena prima di essere cotti altrimenti vengono di uno schifo appicicaticcio

Buon Appetito

 

Scorci Paesani

Ricordando il compianto Sig. Osvaldo Tonelli, ne pubblichiamo una poesia apparsa negli anni ’60/’70 su Jerago: Rassegna di vita cittadina, pubblicazione del Centro culturale Ul Galet.

In una piazza piccina piccina      

c’e una Chiesetta tanto carina     

il campanile, una sola campana     

ed al suo fianco una cara fontana  

proprio di questa vi voglio parlare 

con pochi versi la storia narrare   

non e’ recente eppur é nostrana:    

povera e cara, vecchia fontana       

Quando bambino la mamma cercavo     

e in nessun posto ahimè la trovavo 

venivo da te che non eri lontana    

povera e cara vecchia fontana       

Lì la vedevo intenta a lavare      

con altre donne ciarliere a parlare 

Eri un salotto di vita mondana      

povera e cara, vecchia fontana.     

Vicino al cancello mi soffermavo    

e delle comari il discorso ascoltavo

sedevo e giocavo sull’erba ortolana 

povera e cara vecchia fontana       

                    

Poi venne la guerra, tutto sconvolse

e la bontà nei cuori travolse

più non ti giunse l’acqua paesana:

povera e cara vecchia fontana

Finita la guerra rinnovatrice

ti preferiron la lavatrice

Così sei rimasta inutile..arcana:

povera e cara vecchia fontana

Ora un museo di cose un po’ strane

spazzaneve, bisce, topi e rane

e lì marcisci tra l’erba malsana:

povera e cara vecchia fontana

Zitta riposi tra lezzo e marciume

sempre in attesa che questo Comune

suoni per te, un dì la campana:

Povera e cara vecchia fontana

Presenta anche tu un bel ricorso,

(che’ qualcuno ti venga in soccorso)

Via Indipendenza, Giunta Nostrana.

povera e cara vecchia fontana

Ricorda però a carta bollata

che’ la domanda non sia cestinata.

Chissà che un giorno passando di lì 

io ti ritrovi come ai bei dì,

Allora insieme andremo in Chiesetta

zitti e devoti a suonar la campana

ringrazieremo la Giunta Paesana;

povera e cara, vecchia fontana. 

                                         Osvaldo Tonelli

La chiesa indicata e’ la chiesa di San Rocco e forse, anche in seguito a questa poesia, la fontana fu ristrutturata in un deposito di attrezzi del comune

Cärna cunt a panéra – Carne con la panna

Premessa:

Trattasi di una preparazione ricca, per occasioni importanti. Per tempo bisognava appartare la panna scremandola dal latte. Successivamente si acquistava un buon pezzo di carne di manzo per brasato – scamone o codone, che offre la caratteristica di rimanere pastosa alla cottura . Questo riservava il piatto alle ricorrenze speciali. La ricetta è comunque riscontrabile nelle cucine d’oltralpe, mi è infatti capitato con grande sorpresa di trovarla nel Menù del ristorante Helm a Basel – Basilea (CH). Piatto unico da servire molto caldo, posando la pentola in tavola su uno scaldino. Ottima anche riscaldata, ma in tale situazione piuttosto pesante da digerire. Accompagnare con vino rosso generoso. La ripropongo nella versione della mia mamma: Sig. Carla Macchi –Carabelli , fu pubblicata in “ Jerago rassegna di Vita cittadina dic.1967 ”

Ingredienti per 5 persone: scamone gr 700, Burro gr. 50,  4 Cipolle grosse, 1/4 lt. di panna, aceto ½ bicchiere.

Prendete 700 gr. di carne scamone e metteteli a fuoco lento con 50 gr. di burro e 4 cipolle tagliate in pezzi in una pentola dal bordo medio. Salate in giusta misura. Quando la carne sarà ben rosolata nel burro e cipolle, aggiungete 1/2 bicchiere di aceto, coperchiate e lasciate cuocere il tutto a fuoco lento per due ore.

A cottura ultimata levare la carne dal tegame e tagliarla a fette di medio spessore con l’aiuto, potendo, di un coltello elettrico. Indi passate direttamente col Minipimer gli ingredienti rimasti nella pentola. Rimettete nella stessa pentola la carne affettata aggiungendo il quarto di panna.

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Fate cuocere ancora a fuoco lento per una ventina di minuti. Raccomando infine di servire il tutto ben caldo e in piatti caldi.

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Brano tratto da “Le ricette della Nonna – Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940” – Anselmo Carabelli con Enrico Riganti – Tipografia Moderna , 2000 – Collana Galerate

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Biscotti rotti – Fragüj

In ogni gruppo vi fu sempre chi con sussiego calava dall’alto il suo sapere,  allora per sbeffeggiare il saputell saccente da strapazzo gli si indirizzava scherzando:t’an dài a cärta dul buter da lepà? (ti hanno forse dato da leccare la carta che avvolge il panetto del burro).

Come non riandare ad un  mondo dove la carta da confezione era indispensabile per avvolgere la merce in modo adeguato e poterla vendere. Ma le carte degli involti, dopo infiniti reimpieghi  finivano appallottolate nella stufa economica; altro che sacchi lilla o gialli, nettezza urbana e tassa sui rifiuti, allora, gli scarti che non andavano sul camino finivano nella rudera letamaia. Già ma oggi come si farebbe, quando la puzza del letame fa arricciare i nostri delicati nasi, mentre con allegrezza respiriamo il  balsamico profumo dei Jet in decollo.  Allora c’erano: la carta da zukur quella blu color aviazione per lo zucchero; la carta uleä’  oleata per quando si acquistavano alimenti in salamoia o comunque grassi od unti, quali le aringhe, le sardine, la mostarda. Alimenti che venivano smerciati solo sfusi, prelevandoli da grosse latte e la pustera poi distribuiva ai clienti in scartozz. Abilità del commerciante fu, da sempre, quella di confezionare un cartoccio in modo rapido e sicuro senza scotch o graffette,  chiudendo ermeticamente i lembi con la sola agilità delle dita, perchè se il cartoccio si fosse aperto nella Sporta della Masera, avrebbe recato un guaio immenso. Le nostre nonne uscivano di casa la mattina, per la messa prima e al ritorno approfittavano per le compere. Quindi la borsa da spesa al braccio conteneva gelosamente di tutto, anche il vel e ul librett di devuzion intercalato da tanti Santit, immaginette di santi e dei cari defunti in effigie. Immaginatevi che macello se il cartoccio del tonno con l’olio si fosse rotto nella sporta, roba da cambiare negozio per tutta la vita. Scartuzzel invece era il piccolo involto dei bomboni, fatto di carta velina dove il venditore aveva pesato o contate: caramèj da melcaramelle al miele Ambrosoli, i mentit o i anisit pai fieu, al sapore di anice e dai colori delicati dell’iride, ma anche la magnesia . Anzi lo scartuzzel della magnesia era sempre celato in una tasca dul scusä, il grembiule grigio o azzurro di quando le mamme andavano al lavoro al stabliment. La magnesia effervescente dall’aspetto di bianchi e rugosi fagiolinifu rapido e immediato presidio per una digestione difficile e lenta, perché se l’indisposizione persisteva si passava al Fernet o a la limunä’, acqua calda e limone. Come non ricordarsi della carta dul Macelar, gialla e assorbente dove celare quei bei pezzi di animali rigorosamente nostrani; o della carta süga per asciugare l’inchiostro dalla pagina di quei neri quaderni di una volta, quando durante un dettato in classe si rendeva necessario passare alla pagina successiva. Non c’erano le biro perciò si intingeva il pennino della cannuccia nel calimä’ nella boccetta di vetro, inserita nell’apposito foro del banco, dove finiva di tutto e con grande soddisfazione le mosche. Lì qualche compagno le annegava dopo averle catturate con abile ed agile mossa. Unico svago di in un pomeriggio di maggio, quando tutto contribuiva a conciliare il sonno: i primi caldi, la lezione, lo star fermi nel banco e solo il caparbio desiderio di catturare quei primi  e temerari insetti  svolazzanti e fastidiosi ci teneva ancor svegli. E in assenza di mosche, a finire nella boccetta dell’inchiostro erano pure le trecce delle nostre compagne di classe, con molti anni  di anticipo avevamo inventate le odierne  improbabili tinture per capelli, ma noi non lo sapevamo ancora e soprattutto non lo sapevano le nostre compagne, a giudicare dai pensi e dalle note che la nostra maestra ci avrebbe comminati.

Seppur meno nobili anche le spedizioni industriali erano avvolte nella carta, a cärta da pac  di colore nocciola, più o meno pesante, dipendeva dall’uso. Se il materiale temeva l’umido era la carta catramata ad avvolgere il manufatto e, per garantire che durante il viaggio nessuno violasse il contenuto, le ferrovie e le poste obbligavano ad una legatura del pacco. Si utilizzava uno spago grosso, robusto, intrecciandolo ortogonalmente a scacchi; le estremità della corda  dovevano essere riunite in un piombino successivamente ribadito che comprovasse l’integrità della spedizione. Chi spediva merce delicata, soprattutto tessuti, confezionava pacchi  avvolti prima con la carta e poi con l’Invoja. Si Inviluppavano di tela juta, cucita e tesata con aghi grossi da materassaio e corda, in una operazione che prendeva il nome di gipà i coji du l’invoja, cucire i colli con la juta e lo spago. Anche qui bisognava riunire tutte le estremità delle corde coi sigilli. Ma tale era la povertà dei tempi e la parsimonia delle persone che anche quando si disfaceva un pacco, si recuperavano: gli spaghi, l’invoja, i fogli di carta. Gli indirizzi sui pacchi erano fatti componendo lettere in stampatello, alte almeno 5 centimetri, pressando i singoli stampini dopo averli passati su un tampone di vernice nera e grassa e così risultavano veramente indelebili. Perciò, ad evitare confusioni, nel riutilizzo, la tela juta doveva essere messa rovesciata , col vecchio indirizzo all’interno. Ma c’era pure chi utilizzava la juta da terzo viaggio e così cancellava le scritte con un colpo di nero da stampa. Chi confezionava i pacchi faceva in modo di lasciare alle estremità, le famose orecchie, i ureccdue maniglie in tessuto che ne facilitassero la presa, per evitare che, in loro mancanza, gli spedizionieri si servissero di ganci curvi, i Rampit, arpionando e bucando il contenuto. La parsimonia, resa necessaria dalla reale carenza sia di risorse che di denaro, induceva a comportamenti virtuosi, almeno verso ciò che oggi viene definito uno sviluppo ecocompatibile, parolona che vuol dire rispettoso delle risorse naturali.

 

 

 

 

 

Una domenica all’oratorio (parte prima)

(testo di A.Carabelli su ricordi di Enrico Riganti e dello scrivente)

L’oratorio era condotto dai giovani di Azione Cattolica, con la direzione dell’Assistente don Francesco Delpini, aiuto domenicale del sig. Parroco (Don Massimo Cervini). Essi facevano catechismo ai bambini e vigilavano perché pur nella foga e nell’entusiasmo dei loro giochi mantenessero un minimo di disciplina. Per loro la dottrina sarebbe stata tenuta al mercoledì sera dal sig. Parroco. Di domenica, al primo segno del Vespro, verso le 13, pressoché tutti i ragazzi erano già in Oratorio per giocare a pallone e sarebbe stata un’impresa titanica staccarli dalla palla alle 14, perché per classi partecipassero alla lezione di catechismo. Contemporaneamente don Francesco insegnava dottrina cristiana ai giovani ed agli uomini, mentre all’Asilo, un’insegnante intratteneva le ragazze e le signorine. In Chiesa una reverenda suora parlava alle donne prima della predica del Parroco. Terminata la predica entravano in chiesa gli oratori per la Benedizione Eucaristica. Poi tutti di nuovo in oratorio, attenti a farsi timbrare la tesserina che testimoniasse ai severi genitori come avessero trascorso quel pomeriggio. Il cancelletto veniva chiuso appena dopo il rientro di quelli che erano corsi a casa a cambiarsi per la partita di pallone. Poi tutti si distribuivano in gruppetti: chi a giocare a palla sopra il terrapieno del Vecchio Camposanto, chi a fare la partita, altri a tirare i sassi al leone. Era questo un leone di cemento di quelli che il cimenteur fabbricava per i pilastri dei cancelli, che stava lì, tutto solo, presso la scala a far bella mostra di sé, chissà poi perché lo prendevano a sassate! Dalla buffetteria del vecchio Battistero, il Pierino Alberio, l’Antonio Delpini, il Pasquale Aliverti, il Massimo Scaltritti che erano i responsabili, a turno prelevavano la cassetta dei bomboni e passavano tra i ragazzi, che li avrebbero acquistati con pochi centesimi di lira. I ragazzi si concedevano il lusso di un dolcetto coi soldi della bona man della mancia, per la quale si erano comportati bene per tutta la settimana. La vendita dei bomboni e delle granite al tamarindo o alla menta, era quello che ci voleva per finanziare le spese dei palloni. Tra una ripresa e l’altra della partita, don Francesco, recitava il S. Rosario. Subito dopo il cancelletto veniva aperto, ma seum mai strac non eravamo mai stanchi e si rimaneva lì a giocare fino a sera quando le mamme venivano a cercarci e magari ci davano un quei scurlaton per il tanto che ci si era sporcati, cadendo per terra nella foga del gioco. Se le giornate non permettevano di stare all’aperto, si giocava in chiesa vecchia, fino a tardi. Ma se nevicava d’inverno era una autentica gioia. Tutti insieme in due squadre a ciapas a bal da née a prendersi a palle di neve o a fa un bel pupò, un enorme pupazzo di neve. Vari gruppetti di ragazzini, al comando di un grande facevano burlunà rotolare a valanga una iniziale piccola palla di neve che diventava sempre più grossa. Se ne riunivano tre o quattro d’enormi, che con perizia i più anziani spingendole su un piano inclinato anch’esso fatto di neve, sapevano sovrapporre a formare un solido monumento al quale con un badile avrebbero dato forma di pupazzo. Un murzon  di una pannocchia per naso, due sassi per gli occhi una radice per pipa in bocca e l’immancabile scopa in mano, esso sarebbe rimasto lì nel campo per tutto il tempo del gelo e lo avremmo guardato con orgoglio fino a quando, con nostro sommo dispiacere, ai primi tepori si sarebbe sciolto al sa dìslinguea. Un po’ di tristezza, ma non più di tanto perché l’anno prossimo ne avremmo fatto uno più bello e più grande. Ci aspettava poi il grande falò di carnevale, e i giochi coi numeri sulla fronte da celare al nemico che ci avrebbe catturati se avesse urlato a gran voce il nostro numero, e ci si divideva tra i pari e i dispari, con riferimento all’anno di nascita, affrontandoci in due grandi squadre libere di muoversi in un vasto teatro di operazione che poteva coinvolgere anche i nostri boschi e il mont mouscon in ispecie. E quanti pomeriggi a giocare a carte: a famiglie, a rubamazzetto, alla peppa tencia, a ping-pong sotto il portico, al calcetto, agli scacchi. In estate invece per la festa di San Luigi si faceva volare l’aerostato-ul balon, maestro di tecnica costruttiva era l’amico Franco Cardani, che più tardi avrebbe seguito la vocazione sacerdotale. Quell’immenso pallone prendeva forma in chiesa vecchia, con noi in ginocchio a incollar fogli leggerissimi e multicolore che si andavano a comperare dalla Signora Marini e poi dalla Signora Daria, le nostre cartolaie. Di carta leggerissima ritagliata a spicchi di arancia e incollate tra loro cunt a cola di telarit, quela dul Milietu, la speciale colla di farina di riso per barchette della falegnameria del sig. Sessa. La parte inferiore dell’aerostato doveva risultare cilindrica, per consentire un’apertura a camino i cui lembi incollati si applicavano ad un cerchio di ferro, da cui partivano i raggi che centravano il fornello. Questo bruciatore altro non era che na tola una vecchia latta nel quale versare il combustibile, da accendere per mantenere il calore ascensionale. E poi tutti, il giorno della festa, sulla scarpata e vedere quelli giù in basso che si affannavano a riempire di aria calda l’involucro di carta disteso e che un anziano su una scala a pertica teneva appeso alla apposita maniglia di testa, brandeggiando un bastone, gli altri tenevano il fornello in basso su di un fuoco, a debita distanza per catturarne l’aria calda che lo gonfiasse. E così si distendeva e prendeva a strappare verso l’alto. Bisognava essere attenti a non lasciarlo troppo presto perché si sarebbe sgonfiato, ricadendo subito, ma accorti anche perché non si strappasse o prendesse fuoco. L’attesa della gente era palpabile e tradiva il patema di chi temeva che non partisse, ma i nostri erano troppo bravi per fare figure di quel genere. Un ohh!  liberatorio e il pallone si innalzava sicuro e maestoso oltre la punta del campanile fino a scomparire all’orizzonte. Il nostro sogno di piccoli spettatori era quello di diventar grandi in fretta per sostituire i fratelli maggiori in quell’impresa. Se nella Chiesa vecchia alla sera si dava spettacolo, si scendeva in chiesa per prendere le sedie da aggiungere alle panchine, che venivano prelevate da quei vani che una volta erano le cappelle. La festa per San Luigi, protettore dei giovani e dell’oratorio, veniva preparata per ben sei domeniche nelle quali ci si doveva confessare e fare la S. Comunione. All’oratorio era un succedersi frenetico di varie gare con fasi eliminatorie, la cui finali erano fissate per il 21 giugno. Ci si allenava anche di nascosto, per non impressionare gli avversari che avrebbero copiato la tecnica appositamente affinata per vincere le competizioni. A quella festa partecipava il paese intero e solo dopo la Processione Eucaristica avrebbero preso il via le attesissime finali: la corsa nei sacchi, la corsa a tre gambe, coi concorrenti legati a due a due, la gamba destra dell’uno con la sinistra dell’altro, raramente l’albero della cuccagna e poi si rompevano anche le pignatte. Le pignatte in terracotta erano legate alla traversa della porta di calcio e dentro ognuna una piccola sorpresa e tanta segatura. Quanta ilarità tra gli astanti nell’osservare i gesti scomposti del concorrente bendato che, armato di bastone menava fendenti all’aria nel tentativo di colpire e rompere le pignatte nel tempo prefisso e che, se mai vi fosse riuscito, si sarebbe coperto di segatura e avrebbe accusato i postumi di qualche ammaccatura provocata dai cocci delle pentolacce rotte. Attesissimo poi il gioco della bara bandéra, o del tiro alla fune. E qui Enrico fa memoria di quando la corda si spezzò e tutti finirono a terra. “Era la corda del sig. Costalunga, a me sembrava piccola di sezione e gli dissi: “Questa certamente si rompe”. Mi rispose: “Impossibile!”.. Io che fungevo da arbitro per prudenza la doppiai e misi il fazzoletto a metà. Si fecero due squadre, composte anche dai grandi, uomini della mole del sig. Mario Aliverti, che partecipava col figlio Abramo e, poi, via con una foga da non credere. Nessuno mollava, quando all’improvviso.. un tonfo, io fui il solo a restare in piedi. Gli altri.., tutti a terra, quelli di destra e quelli a sinistra, e la corda.. in tre pezzi. Il vecchio Costalunga non aveva più parole. Un grande silenzio… Tutti si rialzarono a fatica, si ricomposero, controllarono i danni.. inesistenti e giù in una fragorosa risata. Che bei tempi furono, potrei aggiungerti tanti aneddoti ancora”. (1- segue)

Freguj (briciole) – Ruit Horas (L’ora incalza) e bisogna das da fa

E’ un motto latino, che spesso capita di vedere effigiato sulle meridiane e che altro non è che il nostro dialettale g’hemm sempar prèesa abbiamo sempre premura, motto che da sempre ha caratterizzato le nostre laboriose genti. Naturalmente con genti si identificano tutte le persone che da sempre hanno vissuto nei nostri luoghi e li hanno amati, perchè se volessimo limitarci a chi ha ascendenze antiche locali, veramente saremmo proprio in pochi e poi chi sarebbero i nostri antenati. Gli Etruschi, i Celti iberici, i Galli, i latini, i barbari Longobardi o Franchi, tutte queste genti sono, passate per i nostri luoghi, ne sono rimaste affascinate e in essi hanno posto la loro residenza, basta frequentare i nostri musei di Gallarate, Arsago, Sesto, Angera o le loro dotte conferenze per rendercene conto.   Ma  è sufficiente osservare il nostro Monte Rosa con la sua cerchia di alpi ammantate di neve, se solo riuscissimo a sollevare lo sguardo sottraendoci ai nostri quotidiani affanni, in una giornata di vento invernale per capacitarci del fascino che questo spettacolo suscita nell’estasiato spettatore unitamente al desiderio di fermarsi in queste terre. Ma la contemplazione è il premio per chi riesce a vivere in questi luoghi cercando di piegare a sé una natura che sicuramente non è particolarmente generosa e ripaga con il minimo indispensabile la laboriosità di chi vuole garantire il sostentamento alla propria famiglia. Quindi se proprio desideriamo capire la laboriosità del nostro popolo,  essa nasce, da questa necessità di vivere in un ambiente, che per l’avvicendarsi delle stagioni: dal caldo estivo quasi soffocante al gelo invernale, sarebbe altrimenti ostile.  Che tu sia celto o latino o meridionale e oggi possiamo dire anche cittadino del mondo, qui non puoi vivere se non impari a darti da fare; devi  risparmiare per l’inverno che sarà freddo e pensare ad un  rifugio accogliente per la stagione gelida, preparare il cosiddetto fen in casina- fieno in cascina. Perchè ul frec l’ha mia mangiò ul luf, e ghe pu i inverni d’una oelta –il freddo non l’ha mica mangiato il lupo, non ci sono più gli inverni di una volta, sono affermazioni in vernacolo apparentemente contraddittorie, tratte del bagaglio della nostra memoria, quindi non  recenti, che ci fanno capire come il tempo l’abbia fatta sempre di testa sua, in barba a tutta la saccenza dei nostri catastrofisti buoni a riempire pagine di giornale, delle quali si dice il giorno dopo servano per incartar ortaggi al mercato. Ma un altro tipo di fieno in cascina ed abbondante è stato messo in cascina dai nostri avi e da tutti coloro che ci hanno preceduti: la fede nel Signore.

 

A vèla – La bandierina segnatempo del campanile

bandierina

 

Gli anziani che parlavano il dialetto spétasciò, per intendersi quello bello grosso e autentico diverso dall’odierna forzata traduzione dall’italiano, chiamavano Vèla la bandierina segnatempo del campanile. Alla base della croce col suo roteare ci avvisa ancora del clima, più precisa della meteo della Svizzera italiana o di un altimetro in montagna.  In estate la bandierina che guarda a sud-est spinta dal vento di Santa Caterina del lago maggiore, è foriera di grandine e tempesta. Quando il cielo si faceva nero e cupo, era allora che il sacrestano, normalmente un Riganti della Piazza, correva aiutato dai famigliari a suonare il rum, cioè le campane a distesa, che innalzassero col loro suono il motto fuso nella IV campana a fulgore et tempesta libera nos Domine –dalla folgore e dalla tempesta liberaci o Signore. L’esperienza insegnava che il forte suono delle campane riusciva a neutralizzare le nubi gravide di grandine.  Il parroco si affrettava sota ul portig portico esterno della chiesa antica per la benedizione e per domandare al Signore la calma degli elementi. Nei tempi passati, si viveva di agricoltura e la grandine sarebbe stata un autentico disastro. Non ci si meravigli, ma prima dell’ultimo ampliamento della chiesa vecchia, circa 1880, essa era dotata di portico o Pronao come si dice oggi e doveva essere molto bello a memoria dei vecchi, col suo sagrato nobilitato da beole, che tolte sono servite per lo zoccolo della facciata ottocentesca. Dismessa la Chiesa al culto, i gradini di accesso al portone sono stati asportati per facilitare la viabilità della via Colombo e riutilizzati nella scalinata in pietra di San Rocco. Prima di quell’ultimo allungamento, la nostra antica chiesa nella sua parte anteriore assomigliava un poco a quella di Sant‘Alessandro di Albizzate, e da quella loggetta la prima domenica di maggio il nostro parroco, già in veste liturgica per la prima messa del giorno, accoglieva benedicente i pellegrini di San Maurizio di Solbiate  che in processione  si recavano al Santuario di Santa Maria in Buzzano per sciogliere il loro antico voto alla Madonna che li aveva salvati da una funesta moria di bimbi. Vedere solbiatesi incedere lentamente, pellegrini per le vie del paese tra San Giorgio, la cappellina della Madonnina di Via Bianchi, la chiesa di San Giacomo presso il Castello, ci autorizzò a soprannominarli benevolmente Lumaguni da Sulbià – lumaconi.  Tornando alla Véla, un osservatore attento, può apprezzare come essa sia traforata col simbolo del biscione visconteo, ma sopra vi sia rivettata una lamina in ferro pure traforata da un’aquila absurgica. Questo conferma i dati di Archivio, dove si può rilevare che Il primo ampliamento della chiesa, quella descritta da San Carlo e dal cardinale Federico, avvenne in forma massiccia ad opera del capomastro Piantanida dal 1750, rendendo necessaria la sopraelevazione del Campanile (parte tinta in giallo), che altrimenti sarebbe scomparso, soffocato nei nuovi volumi. Amministrativamente ci riferiamo  all’epoca del severo governo della Lombardia Austriaca di Maria Teresa e possiamo ben dedurre che il pubblico decreto di attuazione, l’attuale licenza edilizia, avesse richiesta la sovrapposizione dell’aquila absburgica all’ormai obsoleto biscione visconteo.   Fortunatamente il restauro della Croce cuspidale fatta ad opera del sig. Giovanni  Franchina, che in originale è ora  custodita nella casa parrocchiale, ha ben rispettato questa peculiarità, rivettando ancora sulla bandierina  la  targhetta con l’aquila. Ma non posso ignorare il caro Gigi Turri, cui si deve la messa in opera del meccanismo che consente alla bandiera di prendere il vento e di muoversi liberamente, pur in presenza dell’ostacolo dell’asta del parafulmine. Lo vedo ancora, quando si stava togliendo il ponte che fasciava il campanile a restauro ormai finito, appoggiare quasi funanbolicamente la scaletta alla cuspide, per assicurarsi, da bravo meccanico quale era, che quel lavoro fosse fatto bene. Mi diceva: Te vedat Anselmo, la vèla la ga da girà anmò par tanti secul – vedi Anselmo, questa bandierina deve muoversi ancora per tanti secoli, come a dire che ciò che si fa per la chiesa deve essere fatto molto bene, perchè sarà giudicato col metro dei secoli. Lo sguardo su quella bandierina e sulla Croce che la sovrasta aveva dilatato la nostra attenzione verso chi ci aveva preceduto e verso coloro che sarebbero venuti dopo di noi, in armonia con gli insegnamenti della comune fede cristiana.