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Accoglienza per la nomina di sua eccellenza Mons Mario Delpini a Vescovo Milano- 23 settembre 2007

Ripubblicato in occasione della visita pastorale del 16 maggio 2021, come arcivescovo di Milano

fonte immagine: chiesadimilano.it

Jerago 30 settembre 2007  

Gli anziani narrano, che il beato Cardinale Ildefonso Schuster nella sua visita pastorale del 1938, osservando dall’altare i nuovi affreschi del catino absidale, dove il Cristo in maestà è affiancato dallo stesso Cardinale e dal Parroco don Massimo,  avesse rivolto al parroco la domanda se loro fossero mai degni di tanto onore. Non conosciamo la risposta esplicita, ma senza usare troppa fantasia intuiamo quel naturalissimo farsi rosso in volto del nostro amato parroco. Oggi alla domanda del santo Cardinale,  senza timore sapremmo rispondere affermativamente. Sicuramente sì, perchè da quel popolo cristiano,  raffigurato in effige: dove si possono vedere ancora gli uomini devoti, le donne coi classici capelli raccolti nel michin, i bambini, tutti inginocchiati attorno al nostro Creatore; il Signore ha saputo suscitare un Vescovo, un successore degli Apostoli. E la chiesa universale, della quale la nostra piccola comunità è un granello, ma come ogni granello di sabbia della Bibbia mai dimenticato da Dio, gioisce  di questa sua nomina e noi suoi parrocchiani siamo felici ed andiamo orgogliosi di questa sua vita che è stata progettata da Dio, fin da sempre e che ha potuto nutrirsi dei primi insegnamenti proprio qui, accompagnata delicatamente, dalla sua mamma, dal suo papà, da monsignor Francesco, dai nonni e da tanti bravi maestri: le suore dell’asilo, i parroci e i coadiutori, i catechisti e la maestra di scuola, che  furono sempre rispettosi degli insegnamenti cristiani della nostra gente. Molti di loro la applaudono dal cielo, dove, come nell’affresco, sono già uniti al Signore nella contemplazione del suo volto. Quale emozione nel sapere che si è affannato correndo dietro un pallone, sullo stesso campetto dell’oratorio dove come tutti i ragazzi si è spellato le ginocchia cadendo, si è estasiato alle feste dell’oratorio e per il pallone aerostatico che prendeva orgogliosamente il cielo.  E’ rimasto ammirato da un tramonto più luminoso sullo sfondo di uno stupendo Monterosa,  o da un arcobaleno sulla valle dell’Arno dopo quel temporale che ci aveva fatti rifugiare sotto il portico dell’oratorio. Si è intirizzito al  freddo ed alla nebbia di un mattino più rigido d’autunno, quando come tutti i chierichetti si andava a servire la prima messa. Ha poi deciso di accogliere totalmente la vocazione di dedicarsi all’edificazione della comunità cristiana e, divenuto sacerdote, ha accettato l’indirizzo dei superiori allo studio ed all’insegnamento; apprestandosi a lunghe veglie di studio e di preghiera, perché a coloro che le venivano affidati fosse spezzato il pane della divina sapienza e non mancasse contemporaneamente l’esempio della disciplina spirituale del maestro.  Il Santo padre Benedetto XVI le ha conferito la dignità massima per un cristiano, la dignità di vescovo della Chiesa Apostolica Romana, diretto successore degli apostoli, un uomo che  testimonia con la sua vita Cristo e di questo noi siamo sommamente lieti e fieri.  Ci colpisce in un suo bellissimo testo questa  frase attribuita ad Ambrogio: “Vengono gli anni in cui accettare la sfida di essere maestri, senza la presunzione di smettere di essere discepoli, senza il complesso di inferiorità di fronte a forme confuse e inconcludenti di attualità”. Leggendo sempre in un suo testo le auguriamo “la parola franca, il tempo speso perché chi cerca Dio possa trovare un testimone che sappia dire qualcosa della via da percorrere; e chi cerca una speranza e una ragione per vivere, questi si senta dire che cerca nientemeno che Dio” .

Ad Multos Annos Vescovo Mario. Per tutti gli anni che Cristo ci darà da vivere su questa terra e in questa vita e per tutti gli altri ancora, quando ci ricongiungeremo a Lui  nell’altra in paradiso per l’eternità.

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Una domenica all’oratorio (parte seconda)

(testo di a Carabelli su ricordi di Enrico Riganti e dello scrivente)

Io avevo sette anni nel 1954 quando cominciai a frequentare l’oratorio ed ebbi modo di vedere le stesse cose, ricordo in particolare il cinema nella Vecchia Chiesa, ormai chiusa al culto. La platea era formata da una discreta teoria di panchette di legno, coi sedili ribaltabili, per la gioia di noi ragazzi quando, con i piedi, li tambureggiavamo in un baccano assordante. La macchina da proiezione era in una cabina posticcia, lì ove in precedenza era il portone di ingresso, le porte di accesso dai gradini laterali che danno sulla piazza, lo schermo ed il palco, dove una volta erano la balaustra e l’abside. Quando non c’era il cinema, la stessa sala, tolte le panchette diventava sala per l’oratorio. 

Ben presto però, per iniziativa di don Luigi Mauri, il nostro paese si dotò della più bella sala da teatro della provincia, dal nome altisonante, dato ad imitazione del grande Auditorium di Via della Conciliazione, che don Luigi ci portò a visitare durante un pellegrinaggio a Roma nel ’61, mentre era Papa Giovanni XXIII. Altisonante era anche il nome dell’architetto che lo aveva realizzato: il prof. Montecamozzo, certo a me bambino doveva apparire come un genio, ma oggi non più, quando guardo con orrore a quei volumi così tozzi e sgraziati da capannone, messi lì in sfregio al Campanile ed alla Chiesa vecchia. Certo però che quel nome si riabilitava totalmente grazie al brevetto dello schermo panoramico e del palcoscenico, dove si poteva ricreare qualsiasi evento atmosferico: tramonti, aurore, uno spettacolo da rimanere esterrefatti, tanto verosimile era la finzione scenica. Il mondo, fuori da scuola e via da casa, per noi ragazzi era tutto lì, all’Oratorio a giocare a ping-pong sotto il portico, al pallone nel campo sportivo, ad arrampicarci sul pendio che lo divideva dalla grande costruzione, pendio che stava franando per conto suo ed anche col nostro fattivo aiuto. La campanella, che doveva essere quella della vecchia Canonica, era stata messa in posizione centrale, appena fuori dall’atrio, serviva a don Ausonio per radunarci solitamente nell’aula don Massimo, dove assistevamo alle filmine con le storie di Gargantuà o di Max e Moris. Don Ausonio, sempre molto attento alla formazione di ciascuno di noi, era maestro nel catturare la nostra attenzione adattando mirabilmente la voce ai vari personaggi ed alle varie situazioni dei racconti. Prima di concludere le nostre giornate ci portava in gruppo nella Cappellina per le preghiere  e poi tutti a casa di corsa.

La domenica sera e il mercoledì invece si andava al cinema. Rammento quanto fosse bello, accompagnato talvolta dalla mia mamma, assistere ai films di Stanlio & Ollio, ai vari corsari, ai films di indiani. Ognuno nella grande sala occupava il suo posto, sotto le famiglie e i ragazzi, in galleria i giovanotti e le timide coppie di fidanzatini, che prendevano il coraggio di mostrarsi al paese e, sopra tutti, l’occhio vigile e discreto del signor Parroco e del Coadiutore. Erano tempi quelli in cui era grande il senso del rispetto e del pudore dei sentimenti. Il buon Eligio Tondini che dalla vendita dei bon bon era stato promosso a responsabile della biglietteria e della sala, armato dei primi pennarelli ad acqua si preoccupava pure, con opportuni ritocchi, che la pubblicità delle locandine fosse sufficientemente castigata. Ritengo che i films fossero previsionati, ma quello che a prima vista poteva ritenersi censura, altro non era che una giusta preoccupazione che il genitore o l’educatore non dovessero arrossire per lo spettacolo al quale stavano assistendo al fianco dei loro  figli. Forse fu questa una delle motivazioni che aveva fatto costruire, in ambito oratoriano, un teatro così importante.

I giovani più esperti erano addetti alla cabina di proiezione, il cui accesso era interdetto ai piccoli, ma come tutte le cose vietate, anche il più desiderato. Tra loro ricordo Valentino Colombo, Arturo Bassetti, Antonio Bonalli, Angelo Balzarini, Pierino Clerici, Luciano Caruggi, Eligio Tondini, ai quali seguirono molti altri. L’abilità dell’operatore consisteva nel tenere la giusta distanza tra i carboncini degli elettrodi, tra i quali scoccava l’arco voltaico, perché altrimenti l’immagine sullo schermo si sarebbe sfuocata. Nulla di tragico però, la platea con un forte e disumano boato avrebbe rimesso le cose a posto svegliando l’operatore dal suo torpore. Al cinema si alternavano i teatri, le operette, le accademie per le varie ricorrenze. La presenza di un così bel palcoscenico invogliava tanti gruppi a cimentarsi su quelle scene. Dal primo “Baslot d’or”, alle operette, alle indimenticabili rappresentazioni curate da don Luigino, ai più recenti intrattenimenti musicali dei giovani, ai carnevali, l’Auditorium è sempre stato il centro delle attività ricreative del paese. 

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Una domenica all’oratorio (parte prima)

(testo di A.Carabelli su ricordi di Enrico Riganti e dello scrivente)

L’oratorio era condotto dai giovani di Azione Cattolica, con la direzione dell’Assistente don Francesco Delpini, aiuto domenicale del sig. Parroco (Don Massimo Cervini). Essi facevano catechismo ai bambini e vigilavano perché pur nella foga e nell’entusiasmo dei loro giochi mantenessero un minimo di disciplina. Per loro la dottrina sarebbe stata tenuta al mercoledì sera dal sig. Parroco. Di domenica, al primo segno del Vespro, verso le 13, pressoché tutti i ragazzi erano già in Oratorio per giocare a pallone e sarebbe stata un’impresa titanica staccarli dalla palla alle 14, perché per classi partecipassero alla lezione di catechismo. Contemporaneamente don Francesco insegnava dottrina cristiana ai giovani ed agli uomini, mentre all’Asilo, un’insegnante intratteneva le ragazze e le signorine. In Chiesa una reverenda suora parlava alle donne prima della predica del Parroco. Terminata la predica entravano in chiesa gli oratori per la Benedizione Eucaristica. Poi tutti di nuovo in oratorio, attenti a farsi timbrare la tesserina che testimoniasse ai severi genitori come avessero trascorso quel pomeriggio. Il cancelletto veniva chiuso appena dopo il rientro di quelli che erano corsi a casa a cambiarsi per la partita di pallone. Poi tutti si distribuivano in gruppetti: chi a giocare a palla sopra il terrapieno del Vecchio Camposanto, chi a fare la partita, altri a tirare i sassi al leone. Era questo un leone di cemento di quelli che il cimenteur fabbricava per i pilastri dei cancelli, che stava lì, tutto solo, presso la scala a far bella mostra di sé, chissà poi perché lo prendevano a sassate! Dalla buffetteria del vecchio Battistero, il Pierino Alberio, l’Antonio Delpini, il Pasquale Aliverti, il Massimo Scaltritti che erano i responsabili, a turno prelevavano la cassetta dei bomboni e passavano tra i ragazzi, che li avrebbero acquistati con pochi centesimi di lira. I ragazzi si concedevano il lusso di un dolcetto coi soldi della bona man della mancia, per la quale si erano comportati bene per tutta la settimana. La vendita dei bomboni e delle granite al tamarindo o alla menta, era quello che ci voleva per finanziare le spese dei palloni. Tra una ripresa e l’altra della partita, don Francesco, recitava il S. Rosario. Subito dopo il cancelletto veniva aperto, ma seum mai strac non eravamo mai stanchi e si rimaneva lì a giocare fino a sera quando le mamme venivano a cercarci e magari ci davano un quei scurlaton per il tanto che ci si era sporcati, cadendo per terra nella foga del gioco. Se le giornate non permettevano di stare all’aperto, si giocava in chiesa vecchia, fino a tardi. Ma se nevicava d’inverno era una autentica gioia. Tutti insieme in due squadre a ciapas a bal da née a prendersi a palle di neve o a fa un bel pupò, un enorme pupazzo di neve. Vari gruppetti di ragazzini, al comando di un grande facevano burlunà rotolare a valanga una iniziale piccola palla di neve che diventava sempre più grossa. Se ne riunivano tre o quattro d’enormi, che con perizia i più anziani spingendole su un piano inclinato anch’esso fatto di neve, sapevano sovrapporre a formare un solido monumento al quale con un badile avrebbero dato forma di pupazzo. Un murzon  di una pannocchia per naso, due sassi per gli occhi una radice per pipa in bocca e l’immancabile scopa in mano, esso sarebbe rimasto lì nel campo per tutto il tempo del gelo e lo avremmo guardato con orgoglio fino a quando, con nostro sommo dispiacere, ai primi tepori si sarebbe sciolto al sa dìslinguea. Un po’ di tristezza, ma non più di tanto perché l’anno prossimo ne avremmo fatto uno più bello e più grande. Ci aspettava poi il grande falò di carnevale, e i giochi coi numeri sulla fronte da celare al nemico che ci avrebbe catturati se avesse urlato a gran voce il nostro numero, e ci si divideva tra i pari e i dispari, con riferimento all’anno di nascita, affrontandoci in due grandi squadre libere di muoversi in un vasto teatro di operazione che poteva coinvolgere anche i nostri boschi e il mont mouscon in ispecie. E quanti pomeriggi a giocare a carte: a famiglie, a rubamazzetto, alla peppa tencia, a ping-pong sotto il portico, al calcetto, agli scacchi. In estate invece per la festa di San Luigi si faceva volare l’aerostato-ul balon, maestro di tecnica costruttiva era l’amico Franco Cardani, che più tardi avrebbe seguito la vocazione sacerdotale. Quell’immenso pallone prendeva forma in chiesa vecchia, con noi in ginocchio a incollar fogli leggerissimi e multicolore che si andavano a comperare dalla Signora Marini e poi dalla Signora Daria, le nostre cartolaie. Di carta leggerissima ritagliata a spicchi di arancia e incollate tra loro cunt a cola di telarit, quela dul Milietu, la speciale colla di farina di riso per barchette della falegnameria del sig. Sessa. La parte inferiore dell’aerostato doveva risultare cilindrica, per consentire un’apertura a camino i cui lembi incollati si applicavano ad un cerchio di ferro, da cui partivano i raggi che centravano il fornello. Questo bruciatore altro non era che na tola una vecchia latta nel quale versare il combustibile, da accendere per mantenere il calore ascensionale. E poi tutti, il giorno della festa, sulla scarpata e vedere quelli giù in basso che si affannavano a riempire di aria calda l’involucro di carta disteso e che un anziano su una scala a pertica teneva appeso alla apposita maniglia di testa, brandeggiando un bastone, gli altri tenevano il fornello in basso su di un fuoco, a debita distanza per catturarne l’aria calda che lo gonfiasse. E così si distendeva e prendeva a strappare verso l’alto. Bisognava essere attenti a non lasciarlo troppo presto perché si sarebbe sgonfiato, ricadendo subito, ma accorti anche perché non si strappasse o prendesse fuoco. L’attesa della gente era palpabile e tradiva il patema di chi temeva che non partisse, ma i nostri erano troppo bravi per fare figure di quel genere. Un ohh!  liberatorio e il pallone si innalzava sicuro e maestoso oltre la punta del campanile fino a scomparire all’orizzonte. Il nostro sogno di piccoli spettatori era quello di diventar grandi in fretta per sostituire i fratelli maggiori in quell’impresa. Se nella Chiesa vecchia alla sera si dava spettacolo, si scendeva in chiesa per prendere le sedie da aggiungere alle panchine, che venivano prelevate da quei vani che una volta erano le cappelle. La festa per San Luigi, protettore dei giovani e dell’oratorio, veniva preparata per ben sei domeniche nelle quali ci si doveva confessare e fare la S. Comunione. All’oratorio era un succedersi frenetico di varie gare con fasi eliminatorie, la cui finali erano fissate per il 21 giugno. Ci si allenava anche di nascosto, per non impressionare gli avversari che avrebbero copiato la tecnica appositamente affinata per vincere le competizioni. A quella festa partecipava il paese intero e solo dopo la Processione Eucaristica avrebbero preso il via le attesissime finali: la corsa nei sacchi, la corsa a tre gambe, coi concorrenti legati a due a due, la gamba destra dell’uno con la sinistra dell’altro, raramente l’albero della cuccagna e poi si rompevano anche le pignatte. Le pignatte in terracotta erano legate alla traversa della porta di calcio e dentro ognuna una piccola sorpresa e tanta segatura. Quanta ilarità tra gli astanti nell’osservare i gesti scomposti del concorrente bendato che, armato di bastone menava fendenti all’aria nel tentativo di colpire e rompere le pignatte nel tempo prefisso e che, se mai vi fosse riuscito, si sarebbe coperto di segatura e avrebbe accusato i postumi di qualche ammaccatura provocata dai cocci delle pentolacce rotte. Attesissimo poi il gioco della bara bandéra, o del tiro alla fune. E qui Enrico fa memoria di quando la corda si spezzò e tutti finirono a terra. “Era la corda del sig. Costalunga, a me sembrava piccola di sezione e gli dissi: “Questa certamente si rompe”. Mi rispose: “Impossibile!”.. Io che fungevo da arbitro per prudenza la doppiai e misi il fazzoletto a metà. Si fecero due squadre, composte anche dai grandi, uomini della mole del sig. Mario Aliverti, che partecipava col figlio Abramo e, poi, via con una foga da non credere. Nessuno mollava, quando all’improvviso.. un tonfo, io fui il solo a restare in piedi. Gli altri.., tutti a terra, quelli di destra e quelli a sinistra, e la corda.. in tre pezzi. Il vecchio Costalunga non aveva più parole. Un grande silenzio… Tutti si rialzarono a fatica, si ricomposero, controllarono i danni.. inesistenti e giù in una fragorosa risata. Che bei tempi furono, potrei aggiungerti tanti aneddoti ancora”. (1- segue)

A gazusa cunt a stringa

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(fonte immagine: bevi srl.com)

La gazzosa con la stringa, il titolo richiede forse  un’ adeguata spiegazione.

Gazusa è la gazzosa quella della Saiga-acronimo di Società acque gasate gallaratesi- fornitrice meritoria di tutti i circoli, circolini, circoloni e cooperative della zona, ma anche dei bar degli oratori, il prezzo al banco 25 lire. Stringa è invece  una striscia tonda, nera e gommosa lunga 20 cm di liquirizia con il foro centrale costa 5 lire. Ecco se provate a inserirla nella bottiglietta della gazzosa e aspirate potreste usarla come una comune cannuccia di quelle di paglia di una volta. Siccome poi ne cresce un pezzo tra il collo della bottiglia e le labbra ogni tanto una morsicata e vi inebriereste di un mix di sapori  inarrivabili, l’acidulo limone della gazzosa col frizzante delle bollicine e il persistente aroma della stringa che deve essere masticata fino al premio finale, quando sorbita tutta la gazzosa potrete gustarvi  la rimanente  stringa umettata. Fanno ridere i sommelier coi loro giudizi sui vini e gli aromi fruttati e i retrogusti, provate a degustare questa prelibatezza riservata a noi frequentatori di oratorio d’antan e vedrete.

Se poi non disponete di trenta lire, si può sempre ripiegare, ne bastano 20 , su  un bicchiere di spuma naturalmente Saiga. Spuma nera, veramente era marrone, ma sostituiva benissimo la coca cola, in primis perchè costava 100 lire la bottiglietta e poi perchè  era riservata solo ai bar, quelli veri , sicuramente il Bar Italia e forse anche il Baretta. Ma la spuma diventò anche rossa, sapeva di Crodino e verde, al sapore di menta. Ma qui ormai siamo in anni più vicini, quando l’addetto al  bar dell’oratorio comincia a fare il gelato e le famiglie vanno a mangiare il sorbetto all’Auditorium. A proposito di sorbetti e ghiaccioli, se viene estate il ghiacciolo lo prepara direttamente la signora Andreina, sorella del parroco don Luigi, in Canonica. Il viaggiatore che vende le miscele per gelati fornisce anche l’occorrente pei ghiaccioli: comprese le formine per farlo e gli stecchi. Basta solo servirsi della cella fredda della quale ormai tutti i frigidair dispongono. Anzi per promuovere la vendita e, come sempre avviene, contribuire più rapidamente alle incombenti necessità della parrocchia, nasce lo stecco della fortuna. Infatti ogni dieci ghiaccioli uno sarà gratis. Il fortunato che troverà sul bastoncino l’asterisco impresso a mano da chi lo prepara, con una penna Bic sulla parte nascosta dal ghiaccio potrà sorbirne subito un altro a gratis. Ma chi glielo racconta al barista che noi grandi per far felici i piccolini ci facevamo dare lo stecco vuoto e senza farci vedere con una bic a nostra volta, riproducevamo un asterisco falso e li mandavamo a ritirare il premio. Ci vollero pochi giorni e frenetiche indagini dei baristi responsabili, perchè tutti i premi fossero aboliti, forse avevamo esagerato con gli asterischi farlocchi. Ma non potrò mai dimenticare anche la buona volontà di chi serviva gli altri usando con orgoglio anche i mezzi più moderni come nei bar autentici, il macinino monumentale e la macchina per il caffè, la rinomata faema con tutti i suoi marchingegni giusti. Si poteva fare anche il vapore dal beccuccio a parte per scaldare una bevanda forte o la crema per il cappuccino o la cioccolata bollente e tante altre leccornie, che chi ha uso di mondo sa  chiedere anche solo per distinguersi

Un giorno stavamo facendo le prove per un coro di canti alpini, mi pare fosse una iniziativa del famoso centro giovanile Ul Galett, quando il nostro maestro di musica, Giacomino Cardani,  impegnato all’armonium, giù nel ridotto in quella che si chiamava l’aula di musica, manda uno di noi a prendere una cedrata e raccomanda che sia calda. Qui apro una parentesi la cedrata è quella bevanda stupenda di colore paglierino servita in bottigliette che da sempre risponde al nome di Tassoni. Nella richiesta del maestro Cardani era chiaro che si alludesse ad una bottiglietta Tassoni non di frigor ma naturale, calda appunto. Immaginatevi il suo stupore quando vide il corista ritornare dal bar, con un vassoio e un fumante bicchierone di vetro con una gialla Tassoni passata al vapore come fosse un punch.