(testi e ricerche di A. Carabelli)
L’è méj un bél andà che centu andemm: l’invito è ad essere decisi meglio muoversi piuttosto che continuare a ripetere che è ora di muoversi e rimanere poi fermi. La persona oggetto di tale sollecito è il classico cagadübi dubbioso al punto da mostrare in volto una inequivocabile ed evidente espressione di sofferenza.
L’è un stamegna: si dice così dell’avaro che si priva pure del necessario pur di risparmiare. Così il suo volto si incartapecorisce e la sua pelle si fa secca e magra appunto come la stamegna; dal nome antico della tela cerata che in epoca medioevale sostituiva il vetro nella chiusura delle finestrelle delle chiese. Ma allo stamegna capitavano anche eccessi per i quali veniva debitamente punito, come quello da metig i ugiä’ verdi a l’asnin par fag mangià a paja, imporre occhiali verdi all’asino per fargli mangiare paglia e non fieno, ma il povero asinello sarebbe morto e il nostro avaro, punito, avrebbe perso l’asino.
L’è nasù in dul teren dul canuf– nato e cresciuto nel terreno dove si coltiva la canapa; un terreno molto ben ingrassato che permetteva la coltivazione della canapa usata come fibra tessile. In modo traslato perciò chi non badava a spese e si trattava troppo bene meritava tale attribuzione. Sicuramente il suo agire era l’opposto di quello dell’avaro o stamegna.
L’uomo che si dava delle arie poteva essere definito un bauscia, ma tutto sommato buono anche se millantatore. Ben diverso dal Bauscion che è uno che si da troppa importanza, la met giò dura – la mette giù dura. Bauscin è invece il bavaglino.
In un modo di gente modesta, poteva capitare pure che qualcuno avesse fortuna in modo sfacciato. Pertanto costui veniva additato come chi mettendo a covare dodici uova avrebbe sicuramente ottenuto 13 pulcini- d’una pitä’ da dudas oeuf al ga u tredas purasit.
L’è un can sausç , viene indirizzato ad una persona che non si accontenta di una spiegazione qualsiasi, ma vuole vederci chiaro. Va fino in fondo, un autentico cane segugio.
Furtunä’ me i can in gésa, si dice di un poveraccio cui tocca la sorte del cane che inavvertitamente entrasse in chiesa, cioè pedate per scacciarlo.
Sciur – Signore identifica una persona cui si porta rispetto; sciur curad- signor Parroco, sciur dutur- medico condotto, sciur sindig sindaco. Usato da solo l’è un sciur vuol dire persona ricca e rispettata; se si pronuncia allungando e trascinando la u sciuur vuol dire che tale persona è disprezzata. Il bustocco per tale soggetto usa il più significativo sciuazzu.
Te set un fa faç-in dialetto veneto seto un faso tuto . Veniva così definito, dalle mamme, un ragazzo attivo capace di cimentarsi con maestria in ogni lavoro richiesto dalla necessità di casa. E’ interessante rilevare come quel faç sia di diretta derivazione latina dai famosi imperativi irregolari dic, duc, fac e fer ( infiniti dicere, ducere, facere, ferre).
Sempre in tema di sintassi, trovo interessante osservare come uno degli ostacoli alla corretta espressione italiana, per chi come noi parlava dialetto, fosse il corretto uso dei congiuntivi. In effetti chi, trovandosi a tradurre mentalmente dal dialetto una frase carica di congiuntivi, si fosse limitato ad una pedissequa traduzione avrebbe ottenuto un ottimo risultato. La paura di sbagliare e di fare una figuraccia nei confronti del maestro quasi sempre tradiva il malcapitato. Quanti errori blu e quante figuracce si sarebbero evitate; vogliamo una prova ?
Il congiuntivo cai vegnan – vengano pure– veniva timidamente tradotto con un venghino pure .
Nota è quella frase di un imbonitore da fiera che sollecitava il pubblico a pagare il biglietto per visitare il suo zoo ambulante al grido di : “venghino- venghino siori, più gente entra più bestie si vedono “. Dallo sgrammaticato invito si poteva altresì presumere che l’imbonitore, malignamente, annoverasse gli spettatori tra le bestie .
Fa tenerezza quel venghi pure che inequivocabilmente rivelava la fatica di parlare italiano con le persone ritenute più importanti. Infatti se avesse tradotto senza affanno quel cal vegna che gli passava per la testa, avrebbe potuto semplicemente dire: venga.
Interessante analizzare la costruzione della nostra frase dialettale.
Se consideriamo la risposta negativa alla domanda – Lo sai ?- essa è al so no –non lo so –. Si noti che in italiano la negazione non sta prima del verbo sapere non so, così come nel latino ne scio – non so. Nella lingua tedesca invece la negazione sta dopo il verbo. In tedesco ad una domanda interrogativa si risponde negativamente con ich weiss nicht – io so no (simile al dialetto al so no) . Quindi la negazione nicht viene dopo il verbo wissen–sapere, così come avviene nel nostro dialetto. Tale modo di costruzione della frase potrebbe rilevare l’influenza della dominazione austriaca nella prima metà del 1800.
Sempre con riferimento al tedesco, si usa dire Sninzà un salam iniziare una filzetta di salame tagliandola a fette, da cui per trasposizione ora si dice: ho snizò vent euro e trovi pu nanca un ghell– ho appena cambiato un biglietto da venti euro e trovo in tasca manco un centesimo.
Sninzà è in assonanza col tedesco Schneiden-tagliare
Ghell è il Geld tedesco, equivalente di moneta in spiccioli.