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La gran marcia dul Galett

nella foto il premio per i marciatori della Marcia dul Galett 1973, premio realizzato dalla fonderia Liasa e raffigurante il galletto, a cui era dedicato il centro giovanile jeraghese e la relativa marcia non competitiva

Il titolo richiede una esaustiva spiegazione. Dobbiamo ricordare che verso la fine degli anni sessanta a Busto Arsizio si tenne una camminata in compagnia denominata tapasciada bustoca, dove il soggetto sta per camminata. Noi jeraghesi del gruppo del Galett, associazione di giovani che si radunava  nell’aula Sport dell’oratorio non volevamo essere da meno e pensammo di organizzare una prima gran marcia del nostro gruppo. Il giorno 25 aprile con partenza dal campo sportivo jeraghesese dell’oratorio e lungo un percorso che si snodava per 24,5 km attraverso i nostri boschi anche noi avremmo effettuato la mostra marcia.

 

N.d.r. A questo articolo mio padre stava lavorando negli ultimi giorni a casa prima di essere ricoverato in ospedale, l’articolo è perciò incompleto e ho pensato di aggiungere la pagina del giornale del Centro Giovanile Ul Galett (Jerago – Rassegna di vita cittadina – edizione anno 1971) che parla della marcia.

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Il santo entierro a Gallarate

Le notizie sul Santo Entierro in terra gallaratese sono state pubblicate da Luigi Aspesi in “Gallarate nella storia e nella tradizione”. Trattasi dell’unico volume completo, anche se datato 1978, di storia Gallaratese, se si escludono le pubblicazioni di Bertozzi e Guenzani, inerenti sezioni  limitate di storia.

Cito da  pag. 108

Entierro.

Processione del Cristo morto, che si faceva a cura della Confraternita di San Giovanni decollato

(tale confraternita operava nella chiesa di San Lorenzo, ora abbattuta 1920 circa- zona piazza San Lorenzo – Biblioteca) , la sera del Venerdì Santo .

Essa era così descritta dal gallaratese  Luigi Riva (1848 circa)

 “ Dopo la Croce di legno veniva il Baldacchino con la barra (bara o barella ndr) sopra la quale eravi il cadavere di N.S.G.C. coperto da un velo bianco; Il baldacchino era molto bello , con bastoni bianchi portato da otto persone vestite a lutto, attorno eravi otto Giudei con allabarda in mano, e suo capo Centurione, molti angeli, indi seguiva il Prevosto con tutti li canonici e preti in capa, con torchia in mano, dietro questi portavano su un come un trono di tella  pure d’oro, simile al Baldacchino,  la B.V. Addolorata, vestita a nero coll’a spada del dolore al cuore e corona d’argento in capo con molte candele accese sopra ed intorno. (Gli errori ortografici sono la trascrizione fedele dall’annalista L.Riva).

Altre notazione relative alla settimana santa

Cit. Da Giorgio Nicodemi “ due sculture in legno del primo cinquecento nel museo di Gallarate” Tip Ferrario Gallarate 1935.

Sempre da Aspesi “Storia di Gallarate” con riferimento alla citazione di Nicodemi

Nella chiesa di San Antonio ( Ubicata su piazzetta Ponti -Pasticceria Bianchi) doveva elevarsi sull’altare un polittico di legno intagliato e dipinto opera presunta di Pietro da Gallarate  Polittico scomposto verso la metà del 1700 e sistemato nel coro della chiesa. Poi disperso. Ma due pezzi sono conservati nelle sale del museo “Chiostrino della chiesa di  San Francesco”- presso il ponte di Varese, porta Helvetia, sede della Studi Patri

.

Il tema di tali opere lignee :_ La flagellazione di Cristo _ Il Cristo presentato a Pilato

La terza parte del polittico rappresenta: il Bacio di Giuda- fu presentato alla Esposizione Eucaristica tenuta a Milano sett. 1895

Vedi anche per ulteriori info:

Il Santo Entierro – ricerca sulle tradizioni in terra gallaratese e lombarda delle sacre rappresentazioni

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Jerago. La Pro loco organizza la festa del pane

fonte immagine: lacucinaitaliana.it

Pubblicato su Un popolo in cammino – anno 1999

L’ ormai tradizionale festa del pane, organizzata dalla Pro loco di JERAGO si terrà il giorno 15 marzo, sul sagrato della chiesa di San Giorgio quando verranno offerte le attese confezioni di pane prodotto dai nostri abili panettieri. In particolare si potranno gustare le antiche specialità, di  un tempo nel quale il pane quotidiano ,nei dì di festa, veniva arricchito di povere, ma squisite leccornie per la felicità dei bambini. Si potranno trovare il famoso Pan-Tramvaj e  le Bruselle: quella da Uga, da Fig e da Nus e tante altre più moderne prelibatezze. Il ricavato sarà totalmente devoluto al finanziamento dei lavori di recupero della Chiesa Vecchia di San Giorgio. Il prossimo mese di Aprile vedrà, infatti la festa di inaugurazione di questa grande realizzazione, con la quale la Parrocchia di JERAGO- San Giorgio, ha voluto segnare il terzo millennio che si apre. La chiesa di San Giorgio Vecchio rappresenta per il nostro borgo,  l’albero genealogico della, sua vicenda religiosa e civile. Un campanile romanico di eccezionale fattura, i resti della antica abside dell’IX secolo, una chiesa romanica, la cui aula misurava più di 23 metri per 10, ci parlano di una comunità viva e attiva e numerosa già fin dal X°sec.. La parte barocca del campanile segna il passaggio e il rispetto alle indicazioni di san Carlo e del Cardinale Federigo, mentre l’ultimo allungamento ottocentesco ed il frontale neoclassico parlano di un recente passato di industrializzazione. Se possiamo pensare alla vicenda storica e religiosa, come ad un mosaico, questa chiesa né è una tessera, forse marginale ma senza di essa il mosaico non sarebbe completo.

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Urge salvare l’Edicola del ‘700

Articolo di Elio Bertozzi pubblicato su Avvenire- 11 febbraio 1996

Edicola prealpina 11 febbraio 1996

Per maggiori info leggi  anche l’articolo sul restauro effettuato a seguito della campagna di sensibilizzazione

Il restauro della edicola Della DEPOSIZIONE DI N.S. Gesù CRISTO – In Jerago Via Garibaldi

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Il dialetto – Pruverbi

Se un omm l’è cott par na dona ul pés a l’è cusino’ cuma sa dev

Quando un uomo stravede per una ragazza vuol dire che è pronto per il matrimonio

A teu mie’ sa po’ pu turna’ indre’ 

Quando ci si sposa non si può più tornare sulle proprie decisioni

Tucc i ca’ in fai da sass

Tutte le case hanno i loro problemi

Quand che l’omm al va sot tèra la dona la végn bèla

Alla morte del marito la moglie rifiorisce

Quand i nasan in tucc bei

Quando nascono sono tutti belli

Quand sa spusan in tucc sciuri

Quando si sposano sono tutti ricchi

Quand i moran in tucc bon

Quando muoiono sono tutti buoni

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Il salvataggio dell’ Edicola della Deposizione in via Garibaldi

Articolo tratto da La Prealpina – 1997

Il restauro della edicola Della DEPOSIZIONE DI N.S. Gesù CRISTO – In Jerago Via Garibaldi

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La scuola media, riflessioni di una vigilia di Natale 2002

La vigilia di Natale, mi sono trovato a percorrere le vie di Gallarate, insolitamente vuote, volevo acquistare un regalo per Mariangela, ma evidentemente, ignorando le abitudini di apertura dei negozi, mi trovai alle otto della mattina in un deserto, pochi e frettolosi passanti, una brumetta più autunnale che natalizia, saracinesche abbassate. Gallarate improvvisamente mi appariva come quando la avevo incontrata da piccolo, in prima media, novello allievo delle scuole Maino. Quanti pensieri, meglio direi preoccupazioni, mi suscitava allora,  tanti ricordi mi evocava oggi. Un bambino timido, quale ero, rimaneva attanagliato dalla paura del nuovo, che avrei incontrato. Già le medie erano per me uno spauracchio, avrei ancora ritrovati in questo ambiente nuovo, apparentemente ostile, il calore dell’amicizia dei compagni delle elementari  e della stessa mia maestra cui volevo bene come alla mamma? Mentre mi avvicinavo alla scuola, questo peso mi opprimeva e l’atmosfera di inizio ottobre non  contribuiva certo ad evocare alcunché di più bello. Quella sensazione di disagio, di estraneità, di voglia di fuggire, avrei poi ritrovata ogni volta che mi fossi trovato ad adire nuove imprese, quante la vita mi avrebbe riservate e quante me ne vorrà proporre ancora: momenti di vita, momenti di studio, momenti di lavoro. Non mi accorgevo, che proprio da lì avrebbe preso inizio la  mia vicenda, in un misto, di sofferenze e di gioie, che solo la grande dedizione delle persone che mi hanno voluto bene, che mi sono state vicine, ha  permesso  affrontassi senza ribellarmi. Questo libro con tutti i suoi ricordi vuole essere un ringraziamento per tutte quelle persone che ho avuto la ventura di incontrare e che hanno lasciato in me una impronta indelebile a partire dai miei genitori, le nonne, la maestre, i miei professori, coloro che mi hanno insegnato un lavoro, una professione, quelle con le quali ho condiviso un lavoro, i sacerdoti che ho incontrato, gli amici e le amiche i compagni di scuola coi quali ho trascorso momenti di maturazione indimenticabili, i commilitoni, ma anche tutte quelle persone che ho incontrato una sola volta, ma che mi hanno fatto riflettere e penso ai medici ed agli infermieri che mi hanno curato quando ero malato a Sondalo ed a Gallarate, a quel signore che con la macchina in panne sotto la neve, si offrì di accompagnarmi al primo posto di soccorso, ma quante infinite altre attenzioni da estranei.. .Mi hanno insegnato che se fai del bene non lo fai per un tornaconto.  Che bene sarebbe? Persone che ignoravo prima e che difficilmente rivedrò. Mi hanno testimoniato un rispetto ed un amore disinteressato per gli altri,  molto prossimo con quegli insegnamenti cristiani che non ci sono mancati in gioventù. E che forse mi hanno fanno pentire di tanti egoismi.       

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La colla delle barchette

fonte immagine: Cartotecnica Deganello

Testo inedito

Questa era la classica espressione che l’Eligio, l’indimenticabile Eligio Tondini, addetto praticamente, da quando fu inaugurato, alla custodia del Cinema Teatro Auditorium, pronunciava indicando ai ragazzi la mancanza di un classico elemento per le reclame dei film.

Infatti, per incollare i manifesti, prima in piazza Mazzini e, poi, su un cartellone della piazza San Giorgio, era necessaria la fatidica colla. Il pennello era invece una vecchia pennellessa da imbianchino che, dopo aver svolto onestamente il suo lavoro, era finita chissà come nelle tolle che mandavano sempre un cattivo odore di rancido.

Infatti, due erano le colle che noi conoscevamo: una quella “da legnamé”, che calda era sempre tenuta a bagnomaria e serviva per incollare legno e compensati e l’altra quella “dei telaritt”, ottenuta da amidi bagnati a freddo e quindi soggetta a incollare le carte.

Per chi non lo sapesse, infatti, il nostro paese andava famoso per la produzione dei telaritt, quei classici telaietti in legno alti da 60 cm in su e interamente ricoperti di carta incollata, che servivano da supporto per i tessuti.

In pratica le pezze vi venivano avvolte intorno doppiandole nel senso dell’altezza per poi venire srotolate dai commessi nei negozi.

Mi par di sentire ancora il fruscio delle stoffe tra le mani, srotolando metri di satin, di percalli, di tele, di fodere, delle povere nonne che andavano dal mercante ad accaparrarsi le metrature necessarie per confezionarsi i classici vestiti; famosi “ul mercant da Casan”, che apriva bottega in via Cavour solo al mercoledì, o i mercanti di via Mercanti a Gallarate.

Bene, questi “telaritt” rappresentarono per molto tempo, sicuramente dagli anni ’30 del secolo scorso e fino ai primi anni ’50, un insperato aiuto per l’economia spicciola di tante famiglie. Infatti, prodotti in falegnameria solo per quanto riguardava l’anima in legno, venivano poi ricoperti di carta color beige (per intenderci come quella dei sacchetti del pane) e intestati con carta bianca (che dava loro il classico aspetto di “telaritt”) nelle cucine delle famiglie, dove alle mamme che per badare alla prole non potevano andare allo stabilimento, si offriva questa opportunità di arrotondare il magro bilancio familiare.

Alle volte si univano anche le mani degli anziani di casa, mentre i padri di famiglia facevano la spola con la falegnameria con la carretta a mano, che quando era disponibile serviva anche per portare la legna da ardere e i panni del bucato alle fontane per lavarli.

Se il tempo era bello, le aie o i cortili erano ingombri di questi manufatti, che sovrapposti tra loro, per noi ragazzi erano come dei grossi “LEGO” ante litteram.

 

 

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Chiesa del villaggio veneto in Besnate dedicata a San Francesco 

Il dopoguerra vide una notevole espansione edilizia e tra le varie direzioni di questa espansione soprattutto in via Libertà, verso Arsago, sulla destra, dopo il ponte sulla ferrovia prese corpo, casa dopo casa, quello che a tutti sembrava un vero e proprio villaggio, che data la prevalenza dell’origine degli abitanti fu individuato come villaggio veneto.

Nel 1986  fu dotato di una chiesetta dedicata a San Francesco, inaugurata nel mese di ottobre. In essa ai lati dell’altare le statue di S. Francesco che predica agli uccelli, e S. Antonio da Padova che reca sul Braccio il Bambin Gesù. Ma in grande evidenza dietro l’altare l’icona della  Beata Vergine del Monte Berico, che avvolge i fedeli col suo manto. Perenne ricordo per le genti venete e per tutti i Besnatesi e ringraziamento per la protezione che La Vergine ha sempre riservato loro nei momenti difficili,  delle pestilenze, della guerre,  delle carestie e delle migrazioni.

Nelle foto lo stato attuale della Chiesa come appare all’esterno – dicembre 2023

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Anselmo Carabelli: informazioni bio-bibliografiche da lui stesso redatte

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Mi sono laureato in economia aziendale  nel 1971, presso l’ Università Cattolica S C. J. di Milano.

Ex dirigente aziendale, oggi esercito una attività personale.

Appassionato da sempre di studi storici, durante gli anni accademici ho studiato come allievo del prof. Tommaso Zerbi le antiche tecniche di computisteria e di contabilità.

Come contabile per invito di Don Angelo Cassani entrai a far parte del consiglio economico parrocchiale di S.Giorgio di Jerago e seguii da vicino, appassionandomi, il restauro della chiesa dismessa di San Giorgio. L’incontro inatteso con la struttura romanica del campanile ignorata precedentemente mi convinse della necessità di  suscitare nei miei compaesani l’interesse per le radici cristiane della nostra storia. Mi affascinava anche capire, perché materiale romano fosse reimpiegato nel nostro campanile e risalire, attraverso le varie fasi di ampliamento, che si evidenziavano nello studio architettonico della chiesa, alla dinamica della popolazione presumibilmente ad esse legata (questo naturalmente prima delle documentazioni di San Carlo).

Ho documentato con scritti sul bollettino parrocchiale e supporti visivi con raffronto al romanico locale, i lavori di restauro, corredandoli di indagini di archivio (già pubblicate o nuove), dei risultati delle indagini archeologiche della Sovraintendenza (naturalmente solo dopo la loro pubblicazione sul Notiziario della Sovraintendenza dei Beni Archeologici della Lombardia). E’ stato necessario documentarmi sulle  diverse fasi storiche frequentando le conferenze, leggendo le pubblicazioni degli studiosi locali e consultando gli archivi.

La mia formazione professionale nel campo di organizzazione di impresa mi spingeva a ricercare come, intorno al mille, una popolazione sufficiente numerosa e capace di  dotarsi di  un campanile di ben 20 metri di altezza potesse trarre il suo sostentamento da un territorio agricolo sul quale avrà pure lasciato tracce. Questa ricerca delle origini mi ha fatto riconsiderare, guardandola con altri occhi, la porzione di territorio non ancora urbanizzata e con particolare attenzione quella, da noi conosciuta come valle del Boia, che da un punto di vista antropico ha iniziato a pormi numerosi interrogativi ancora aperti. Comunque una delle necessità primarie era quella di difendere questo territorio da una sua radicale modifica. Già dal 1990 la collaborazione con alcuni amici che amavano quelle zone per motivi ambientali e naturalistici è riuscita a suscitare nelle nostre comunità l’esigenza di far nascere un parco che tutelasse appunto l’ambiente naturale, risparmiandolo dalle edificazioni, e lo consegnasse ad ulteriori studi sul suo antico uso. I Comuni di Besnate, Cavaria con Premezzo e Jerago con Orago hanno costituito infatti questo parco dal 1992. Oggi per naturale avvicendamento nella direzione sono stato nominato presidente del parco della Valle del Boia (il cui nome si farebbe risalire a valle Buia in considerazione a fenomeni di illuminazione solare ridotta nella parte più profonda del solco morenico).

-Per finanziare i restauri pittorici della cappella battesimale della Chiesa antica di San Giorgio ho pubblicato, un libro sulla storia minore del mio paese, a partire (per renderlo attraente), dalle ricette della cucina nostra: “Le ricette della nonna: cucina, usi espressioni, attività, feste religiose, nella  vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 ed il 1940”. – Collana Galerate giugno 2000 – pag. 235. (Ad esso ho affidato sotto forma di note a piè pagina molte delle osservazioni fatte nel corso delle mie osservazioni, sopra descritte)

 -Per il Comune di Jerago con Orago  ho già consegnato uno studio sugli ultimi 100 anni di amministrazione, ripercorrendo attraverso le delibere consiliari e di giunta, la storia  civile del paese, notandola con appunti di storia generale .

– Sempre per il Comune di Jerago Con Orago – ho preparato una monografia sulla storia della captazione e distribuzione pubblica dell’acqua potabile a  far tempo dal 1913 .

-Ho tenuto conversazioni  sul tema della industrializzazione del gallaratese: alla Biblioteca Comunale di Solbiate Arno, alla Biblioteca Comunale di Samarate, alle scuole Ponti di Gallarate, alle scuole medie ed elementari di Jerago, Cavaria, Besnate.

–  Sono socio del D.L.F di Gallarate e del Centro Culturale Cardinal Schuster e Carlo Mastorgio di Jerago.

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Raccolta di una serie di documenti e testi che hanno formato il mio bagaglio culturale ed ai quali mi appello con interesse.

fonte immagine: liceoberchet.it

Questa raccolta vuole essere un atto di ringraziamento verso coloro che hanno contribuito a formare il mio modo di pensare e che mi sono stati maestri, un momento di riflessione e non un punto di arrivo. La mia condizione di allievo è costante, anche se oggi che mi sono fatto più anziano, posso anche scegliere i miei maestri. Rammento sempre un adagio del mio mondo dialettale che evidenzia come si impari continuamente, pure a dispetto dell’ età “ che la vegia la vurea mai murì parche na imprendea vuna neuva tut i di ” quella vecchia signora non trovava il tempo di morire perché ogni giorno ne imparava una nuova, cioè apprendeva sempre  qualcosa di nuovo.

Se da adulto posso scegliere i miei maestri, semplicemente evitando di leggere autori che reputo non in sintonia con le mie convinzioni e scartando trasmissioni pure avverse, ciò non vuol dire che quando si formava il mio sentire abbia avuto dei maestri che non furono all’altezza delle mie aspettative, anzi. Vorrei osservare come a dispetto del gran parlare che si fa oggi, avendo frequentato solo scuole pubbliche, mai trovai professori desiderosi di trasmettermi subdolamente le loro convinzioni. In quanto essi furono sempre rispettosi dei  principi che avevano animato la mia famiglia.

Sono lombardo e quindi non mi faccio scrupolo alcuno di riconoscere nel Manzoni un  Maestro e nelle sue pagine mi capita di riconoscere le vicende che urgono  e  affannanno l’uomo di ogni tempo, ma si accettano meglio, quando si abbia fiducia nella Provvidenza. Mi si spieghi per quale strana motivazione non si  debba riconoscere la nobiltà della nostra fede cristiana, condivisa dalla stragrande maggioranza di chi ci è vicino, vissuta nel massimo rispetto per chi questa fede non condivide o pare non condivida più. Era normale questo negli anni ’50 e ’60. Perché oggi lo deve essere meno?  Ora posso anche apprezzare l’ impegno della mia insegnante di lettere al liceo di Busto, prof.sa Luigia Colombo , che leggeva quei capitoli dei Promesi Sposi e li commentava, con tale amore e dedizione all’opera, da suscitare rispetto per quei personaggi del libro e le loro  vicende lontane seppur tanto simili alle odierne. Uno dei passi che, grazie a lei ho conosciuto ed ho riletto più intensamente riguarda la descrizione del Cardinale Federigo: ” Tra gli agi e le pompe badò, dico, a quelle parole, d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che sentite  o non sentite né cuori, vengono trasmesse da una  generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò dico a quelle parole, vide che non potevan dunque essere vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza e talora dalle stesse labbra e propose di prender norma dell’azione e dè pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni , ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto” (Cap XXI).  

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Le origini romaniche della chiesa di San Pietro a Cardano al Campo

Articolo di Elio Bertozzi pubblicato sul quotidiano La Prealpina il 14 aprile 1995

fonte immagine: wikipedia.org

Non sono molte le tracce ancora in rilievo del cosiddetto stile “romanico” nella nostra zona. Tracce che si riferiscono, in modo specifico, agli edifici religiosi. L’esempio più citato è quello relativo alla chiesa di San Pietro, a Gallarate. Ma in un altro tempio, sempre dedicato all’apostolo successore di Cristo, durante i lavori di restauro è venuta sorprendentemente alla luce questa identità. Si tratta della chiesa di San Pietro, a Cardano al Campo, da qualche settimana oggetto di necessari interventi di recupero. La prudenza non è mai troppa, quando si deve parlare di “romanico”, ma in tal caso il dubbio lascia decisamente posto a quella che, per gli addetti ai lavori, gli appassionati di archeologia monumentale, prima ancora della certezza, è l’emozione.

Emozione che nasce, come una sorta di febbre, quale intuizione della scoperta. E’ stato l’esperto e appassionato Anselmo Carabelli di Jerago, che ha già mostrato intuito in altre località della nostra zona, a mettere nero su bianco la scoperta, con una relazione dettagliata fornita al parroco don Luigi Perego.

Dell’originale chiesa romanica descritta da padre Leonetto Clivone, nel 1566, e successivamente da monsignor Bossi, poco rimane. Fatta eccezione per il piccolo muro a “spinapesce” situato nella parte meridionale e in corrispondenza quello che doveva essere l’atrio. “Rimane invece-ribadisce Anselmo Carabelli – anche se caricato di malta e di tamponamenti, il vecchio campanile romanico, che non fu mai ricostruito, ma solo sopraelevato, quando l’originale chiesa fu ampliata. 

Ancora oggi chi osserva il campanile nella parte nord (dal cortile dell’asilo) può intuire gli originari parametri murari.

Sulla parte anteriore, a est, coperta in seguito dal frontone della nuova costruzione, si intravede una monofora”. Ma Anselmo Carabelli a sostegno della sua tesi, estrae…un autentico asso dalla manica: “Si osservi la parte inferiore del campanile, al lato nord: si nota, chiaramente, un masso bianco con un rilievo di tre linee parallele che, senza dubbio, deve essere un pezzo di reimpiego, tratto da qualche nobile costruzione in rovina, ai tempi della costruzione del campanile stesso.

Una volta eliminata l’intera intonacatura a calce, tamponata con coppi vecchi, si dovrebbe mettere in risalto tutto l’antico parametro murario romanico”.

Sempre a suffragio della personale tesi, Anselmo Carabelli rileva che, tali ritrovamenti sono possibili su quelle costruzioni ecclesiastiche, descritte dagli incaricati di San Carlo Borromeo, in stato di abbandono e insufficienti per le necessità del culto. 

“Costruzioni rinnovate- precisa Anselmo – ma mai completamente abbattute. San Carlo aveva “scoperto” il Varesotto romanico, bisognoso perciò di essere trasformato per diventare visivamente una barriera all’invasione della riforma, anche dal punto di vista architettonico”.

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Per la festa in onore di Don Angelo Cassani in occasione dei suoi 40 anni di sacerdozio

si ringrazia per la concessione dell’immagine la Fondazione Don Angelo Cassani

Pubblicato su Un popolo in cammino – ottobre anno 2002

Quando si invita qualcuno a parlare di qualcun altro si  potrebbero attivare meccanismi di falsa gratitudine e di sperticate lodi, perché così va il mondo col suo vezzo mirato ad adulare. Credo comunque che non sia questo ciò che oggi ti farebbe piacere ascoltare e a noi pronunciare. La doverosa  vicinanza  di tutti i parrocchiani, all’inizio muove dalla Fede, da sempre custodita gelosamente nelle nostre famiglie. Non ci è data una vita diversa da quella che noi stiamo vivendo e questa vita è quella che noi dobbiamo rendere bella con la nostra testimonianza. E’ nella ricerca di questa bellezza che è possibile perdersi; vi è la bellezza di chi rincorre soddisfazioni economiche, soddisfazioni e gratificazioni personali, in una indefessa rincorsa di mete che anche se raggiunte risultano sempre poco, rispetto alle ambizioni, ma se mancate possono innescare processi di disistima forte e di gravissime sofferenze. Vi sono sul versante opposto forme di aggregazione sociale che tendono a superare la competitività individuale a lenirla nel concetto solidaristico, ma spesso mancano nell’obbiettivo, perché sovente tendono ad escludere chi non si omologa, a dividere più che ad unire.-Vi sono persone che non inserite in questi meccanismi potrebbero e vorrebbero interrogarsi sul significato della propria vita. Ecco, pur semplificando molto, uno sguardo sul contesto delle uniche ed irripetibili vicende umane di ciascuno, alle quali si unisce don Angelo Sacerdote di Cristo.     

Presentandoti, all’inizio della tua missione presso di noi, mentre ricordavi dal pulpito la tua passata esperienza, tra le altre espressioni ci colpì il messaggio che ogni uomo vale per ciò che è, e non per quello che fa. E l’essere dell’uomo è tale perché riflette nel suo volto il volto di Cristo. L’espressione poteva sembrare difficile ed incomprensibile, forse di circostanza se alle parole non fosse seguita una lezione di vita vissuta e solo faticosamente condivisa, che ci avrebbe portati ad apprezzare il peso di quel messaggio nel tentativo di viverlo. Tutto ciò che avrebbe ed ha accompagnato il tuo agire ed il tuo insegnare sarebbe stato coerente con quella premessa; riconoscere la nobiltà del figlio di Dio in tutti gli uomini, non era cosa atta ad aprire vasti consensi, come tu stesso ti saresti accorto e molti ti avrebbero  fatto rilevare, forse con rimprovero, anche allontanandosi.

Mamma Celeste, così come tu lo sei; quando ci è dato vivere in una società, che pur provenendo da radici cristiane, apparentemente le relega ad una delle tante opzioni, quasi che l’insegnamento dei padri si fosse stemperato e smarrito nel vasto mare delle necessità  impellenti, delle cose da fare e del quieto vivere. Ed ecco allora il costante richiamo nella tua predicazione: alla condivisione della vita coi propri figli; alla condivisione delle sofferenze dei malati; alla preparazione dei giovani che chiedono che Dio sia il faro e la costante benedizione  alla loro vita matrimoniale; alla preparazione dei fanciulli nel catechismo.

Grande la tua attenzione verso gli educatori, i quali con difficoltà si provano di vivere coi ragazzi  ciò che insegnano, oltre naturalmente ad  insegnarlo. E’ bello partecipare alla domenicale Messa delle 10 e vedere i giovani, gli educatori e i loro ragazzi unirsi spontaneamente nella preghiera e nella frequenza all’ Eucarestia. Vivere la S. Messa in una comunità che mantiene fortemente il legame, tramite la Comunione dei Santi, da Te sempre ricordata, con tutti coloro che ci hanno preceduto nella gloria di Dio. Bello sapere che questi Santi sono persone che abbiamo conosciute, cui abbiamo voluto bene, con le quali abbiamo fatto un tratto di vita sulla terra, che ci hanno consegnato la testimonianza della loro Fede e ci attendono un giorno nella gloria di Dio. E così abbiamo capito le ragioni della tua insistenza nel voler difendere quelli che sono stati i luoghi Santi della Benedizione di Dio sul nostro popolo, quali la chiesa vecchia di San Giorgio ed il Campanile Romanico.

Caro Don Angelo consentici un ringraziamento personale verso un uomo che, dopo aver seguita la vocazione sacerdotale nata dal grande amore a Cristo ed alla Chiesa, è stato poi inviato dal Vescovo nella nostra comunità, per richiamarci costantemente la gioia di essere cristiani e l’impegno che ne consegue.  L’amicizia che nasce spontaneamente e umanamente non può che ricondurci alla condivisione di valori autentici nella premessa che Cristo è nato e risorto. Molte volte ci accorgiamo che tu ti fai triste, quando il nostro modo di affrontare i problemi e la vita, nonostante i tuoi continui insegnamenti, risponde ancora alla logica dell’uomo vecchio. Ed allora il tuo parlare, ci pare difficile, a tratti incomprensibile, ma, a ben vedere, non è la tua incapacità a farsi intendere, bensì la nostra  mente che vorrebbe sentire altre parole, più accattivanti e consone all’andazzo quotidiano. E allora tu saresti un buon politico e forse avresti tanti più amici, ma noi oggi non saremmo qui a festeggiare un Sacerdote, un Parroco, ma un uomo disposto a correre dietro a tutte le mode. Un politico in più, uno in meno, che differenza farebbe. La difficoltà di seguire, non Te,  ma il tuo insegnamento in Cristo, ci fa anche allontanare. E’ allora  che la tua sofferenza trova conforto nella preghiera e nella meditazione degli scritti dei Padri della Chiesa e genera costante ammirazione per quella dimensione della comunità di preghiera, che ci fai intuire quando, con trasporto, ci parli di Vitorchiano. E’ così che ti rafforzi, ti rassereni e la casa rimane sempre aperta anche per l’amico che si è allontanato e ritorna e si stupisce di sentirsi ancora amato.

Questa sofferenza, tu riscopri in tutti gli ammalati, che sono per te costante richiamo alla obbedienza alla volontà del Padre. Li porti nel cuore e li aiuti a non ribellarsi alla loro condizione. Superate le naturali difficoltà del primo dialogo essi ti aspettano sempre con grande ansia e rinnovata speranza, perché avvertono il calore di una comunità che con te prega a gran voce per loro. Vorresti che i genitori e gli educatori riuscissero a trasmettere questi valori e che ai giovani non mancassero insegnamenti autentici. Vorresti che la loro esuberante ricerca di attività, di suoni, di libertà, non fosse per mancanza di esempi, il solo modo di riempire la solitudine  ed il vuoto di significato della loro vita.

Di proposito non abbiamo voluto parlare delle cose fatte o da fare anche se sono state molte e che nell’oratorio dedicato alla B.V. DEL CARMELO vedranno il prossimo impegno.  Ad uno sterile elenco di prime pietre di mattoni , si è preferito  ricordare frammenti di amore e di fede cristiana che tu caparbiamente  hai distribuito nella nostra Comunità di San Giorgio.

Ad multos annos– Don Angelo, per tanti anni ancora. Per tutti quegli anni che  il Signore ci consentirà di vivere assieme su questa terra,

grazie veramente dal cuore e dall’affetto di tutti

                                                                                                i tuoi Parrocchiani

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La creazione di Adamo

si ringrazia per il testo e le foto il Prof. Francesco Delpini

La riproduzione della “Creazione di Adamo”, dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina, è l’ultima delle opere realizzate secondo il progetto “Arte e Scuola”, elaborato dai docenti dell’Istituto Comprensivo costituito dalle scuole di Jerago, Orago e Cavaria, nell’anno scolastico 1996-1997, e rinnovato di anno in anno fino al 2008. Il progetto nasceva dalla necessità di educare gli studenti a non deturpare gli edifici pubblici del territorio con ‘graffiti’, vernici, e anche gli arredi scolastici con scritte, vernici, segni, firme, dediche, ecc .

Si era ipotizzato che una delle ragioni dei gesti di vandalismo sopra ricordati, fosse l’impulso di tutti gli esseri animali e dell’uomo a marcare il proprio territorio e a lasciare un segno del proprio esserci.

Per “incanalare” questo impulso verso il bene, si decise di far eseguire ogni anno agli alunni delle classi terminali (3° media e 5° elementare) un’opera d’arte, fatta da loro stessi  con la guida di insegnanti o volontari esterni alle scuole, da collocare sul territorio  comunale e sugli edifici scolastici, come segno del loro passaggio (In nota riporto l’elenco delle opere realizzate).

Alterne vicende avevano lasciato in sospeso l’affresco della Creazione di Adamo dal 2008, data di collocazione del pannello in calcestruzzo sulla parete della scuola media di Jerago (all’entrata dell’edificio dal giardino con la pista di atletica), al maggio 2023, data di fine del lavoro di pittura.

L’affresco rappresenta appunto il momento della creazione di Adamo e riporta il versetto biblico “…e Dio fece l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo fece.”

L’opera dunque è dedicata in primo luogo agli alunni, perché coscienti della grandezza e della bellezza di essere fatti a immagine di Dio, abbiano sempre consapevolezza del valore della propria persona e delle persone che incontrano nella vita e realizzino in completezza la bellezza e la grandezza di cui sono portatori.

Ancora essa è dedicata agli alunni perché, nei momenti difficili dell’esistenza, abbiano sempre la consolazione e la forza di ricominciare che viene dalla consapevolezza del proprio valore e della loro originale e unica immagine di Dio di cui sono portatori.

La mano del Padre Creatore, tesa verso Adamo, suggerisce inoltre che l’affresco è dedicato agli insegnanti, ai genitori, al personale della scuola, che seguono gli alunni e i figli con passione, con la consapevolezza della loro missione, e con il fine di portare a compimento lo sviluppo completo dei semi di bellezza, di grandezza, di bontà, che il Creatore ha posto nell’uomo facendolo a sua immagine.

 

 

Note:

Il dipinto è stato realizzato dal pittore Gianfranco Battistella, misura m. 3 x 2, ed eseguito con la tecnica dell’affresco moderno: colori speciali duraturi su intonaco di calce asciutta.

Nella foto il giorno dell’inaugurazione, 7 giugno 2023, alla presenza di tutti gli alunni della scuola media e con la partecipazione da destra: Dr.ssa Deborha Salvo, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo-Avv. Maria Giovanna Buzzetti, vicesindaco di Jerago con Orago,- Gianfranco Battistella con sua moglie Antonia Menin, –  Dr. Francesco Delpini.

 

Opere realizzate negli anni 1996- 2008 nei plessi dell’Istituto Comprensivo.

Scuola media Jerago :

  • Incontro con altre culture (Acrilico)
  • La musica (due vetrate retroilluminate) 
  • Mosaico che introduce alla palestra rappresentante diversi sport
  •  Jerago con Orago nell’anno santo 2000 (Ceramica di piastrelle smaltate e cotte rappresentante lo stato di fatto del territorio del comune e degli edifici esistenti) 
  • Volo di uccelli mossi dall’aria sulla scala, con sfondo rappresentante il paesaggio attorno al lago di Varese. 
  • Pannelli (5) con opere di pittori moderni con colori acrilici, per abbellimento atrio della scuola. 
  • Grande quadro de “Il piccolo principe” sul piazzale della scuola (ceramica /piastrelle) 
  • Grande quadro della famiglia sul piazzale della scuola (ceramica/piastrelle) 
  • 15 grandi quadri con episodi de “Il piccolo Principe”, collocati su un percorso pubblico nel comune di Jerago con Orago (ceramica/piastrelle e affresco moderno) Realizzati insieme agli alunni della scuole elementari di Jerago e Orago.

Scuola elementare di Jerago :

  • Due quadri de “il Piccolo Principe” (ceramica/piastrelle) collocati all’interno della scuola 
  • Le quattro stagioni, quadretti individuali degli alunni su legno, poi riuniti su un unico pannello di supporto –
  • Gli strumenti musicali, disegni a olio su tela.

Scuola elementare di Orago :

  • Episodi della  storia di Pinocchio (Ceramica/ Piastrelle) 
  • Le favole  antiche  (Vetrate dipinte)

Scuola media di Cavaria :

  • 2 grandi tavole rappresentanti Incontri con altre culture (acrilici con  la raccolta del caffè e con danza sudamericana) 
  • 3 tavole con ambienti sudamericani (acrilici)
  • 6 mosaici rappresentanti dei fiori con tasselli in vetro
  • Rosa dei venti ceramica/piastrelle (su pavimento) 
  • Madonna con bambino (tratta dal Tondo Doni di Michelangelo) affresco moderno  
  • La fratellanza tra i bambini in girotondo attorno al mondo /tele colorate con polistirene
  • La favola del Gigante egoista in 2 tavole di ceramica/piastrelle, (angolo sud-est del giardino della scuola)

 

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La ristrutturazione dell´Auditorium

fonte immagine: auditoriumjerago.it – foto dell’entrata dell’Auditorium dopo l’ultima ristrutturazione voluta da don Remo ad inizio del XXI Secolo

Pubblicato su Un popolo in cammino – anno 1992

Come è ormai  consuetudine mi prefiggo di segnalare, con notazioni storiche, i lavori di ristrutturazione dei beni parrocchiali, che, la Parrocchia, grazie allo stimolo costante di don Angelo, sta ormai seguendo da alcuni anni. Penso che tutti si siano visivamente resi conto dell´entità di questi interventi che hanno ridato splendore a monumenti quali la Chiesa Parrochiale, il Campanile ed ora l´Auditorium con il ripristino di tre grandi aule site sopra la sala Bar, rese più funzionali grazie al riscaldamento autonomo.

Analogo discorso vale per la sala Acli, con accesso dal ridotto e per la sala Sport.

L´Auditorium, poi, inteso come sala cinematografica e da teatro, nonché sala per grandi assemblee viene ristrutturato nel pieno rispetto delle norme antincendio, che appunto ne avevano interdetto l´agibilità.

Penso non sia fuori luogo, segnalare che tutti questi lavori sono stati e sono finanziati dalla sola contribuzione volontaria di quanti intendono cosi´ continuare un´opera che vede legati nel tempo tutti coloro che, spinti dalla comune fede cristiana, hanno partecipato alla costruzione di quelle strutture.

Dagli jeraghesi dell´anno mille, a quelli che nel 1700 hanno sopraelevato la Chiesa vecchia e Campanile, ai nonni che hanno costruito con don Massimo la nuova Chiesa, ai nostri papà e alle nostre mamme che con don Luigi hanno realizzato l´Auditorium, a tutti noi che, parrocchiani e cittadini, viviamo con don Angelo questa bella esperienza.

E´ stato proprio il desiderio di conservare quanto è stato precedentemente fatto a prevalere su altre linee, non senza sofferenze per chi doveva operare delle scelte ed anche con qualche polemica da parte di chi preferiva un Campanile nuovo ad uno vecchio o una sala polifunzionale, alla ristrutturazione della vecchia sala.

Fatte queste debite premesse ed in considerazione che sono solo di qualche anno più vecchio dell´Auditorium, per parlarne non ho altro da fare che frugare nella memoria rivivendo un poco di quegli anni.

Quando ero bambino, verso gli otto anni, era consuetudine frequentare il cinema della Parrocchia, che allora era allestito nella Vecchia Chiesa, sconsacrata, di san Giorgio. La platea era formata da una discreta teoria di panchette di legno, dai sedili ribaltabili, che facevano la nostra gioia di ragazzi, quando, con i piedi, li tambureggiavamo in un baccano assordante. La macchina da proiezione era in una cabina posticcia, costruita dove in precedenza era il portone di ingresso, le porte di accesso erano dai gradini laterali, lo schermo ed il palco, dove una volta era la balaustra e l´abside.

Quando non c´era il cinema, la stessa sala, tolte le panchette diventava sala per l´Oratorio.

Ben presto però, per iniziativa di don Luigi Mauri, il nostro paese si dotò della più bella sala da teatro della provincia, dal nome altisonante, dato ad imitazione del grande Auditorium della Rai di via della Conciliazione, che don Luigi ci portò a visitare durante un Pellegrinaggio a Roma nel ´61, quando era Papa Giovanni XXIII. Altisonante era anche il nome dell´architetto che lo aveva realizzato: il Prof. Montacamozzo; certo a me piccolino, doveva apparire come un genio, ma oggi non più, quando guardo con orrore a quei volumi così tozzi e sgraziati da capannone, messi lì in sfregio al Campanile ed alla Chiesa Vecchia. Certo però che quel nome si riabilitava totalmente grazie al brevetto dello schermo panoramico e del palcoscenico dove si poteva ricreare qualsiasi evento atmosferico, tramonti, aurore, uno spettacolo da rimanere esterrefatti, tanto verosimile era la finzione scenica. Il mondo, fuori da scuola e via da casa, per noi ragazzi era tutto lì all´Oratorio a giocare a ping-pong sotto il portico, al pallone nel campo sportivo, ad arrampicarci sul pendio che lo divideva dalla grande costruzione, pendio che stava franando per conto suo ed anche col nostro fattivo aiuto. La campanella, che doveva essere quella della vecchia Canonica, era stata messa in posizione centrale, appena fuori dall´Atrio, e serviva a don Ausonio per radunarci solitamente nell´aula don Massimo, dove assistevamo alle filmine con le storie di Gangantua o di Max e Moritz. Don Ausonio era maestro nel catturare la nostra attenzione adattando mirabilmente la voce ai vari personaggi ed alle varie situazioni dei racconti.

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Prima di concludere le nostre giornate ci si recava in gruppo nella Cappellina per le preghiere (la Cappellina era posta al primo piano dell´attuale blocco degli spogliatoi sportivi) e poi tutti a casa di corsa.

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La domenica sera e il mercoledì invece si andava al cinema. Rammento quanto fosse bello, accompagnato talvolta dalla mia mamma assistere ai films di Stanlio& Ollio, ai vari corsari, ai films di indiani. Ognuno nella grande sala occupava il suo posto: sotto le famiglie e i ragazzi, in galleria i giovanotti e le timide coppie di fidanzatini, che prendevano il coraggio di mostrarsi al paese e, sopra tutti, l´occhio vigile e discreto del signor Parroco e del Coadiutore.

Erano tempi quelli in cui era grande il senso del rispetto e del pudore dei sentimenti. Il buon Eligio, che dalla vendita dei bon-bon era stato promosso a responsabile della biglietteria e della sala, armato dei primi pennarelli ad acqua si preoccupava anche con opportuni ritocchi, che la pubblicità delle locandine fosse sufficientemente castigata.

Ritengo che i films fossero pre-visionati, ma quello che a prima vista poteva ritenersi censura, altro non era che una giusta preoccupazione che il genitore o l´educatore non dovessero arrossire per lo spettacolo al quale stavano assistendo con i figli.

Forse fu questa una delle motivazioni che aveva fatto costruire, in ambito oratoriano, un teatro così importante.

I giovani più esperti erano addetti alla cabina di proiezione, il cui accesso era interdetto ai piccoli, ma come tutte le cose vietate, anche il più desiderato. L´abilità dell´operatore consisteva nel tenere la giusta distanza tra i carbonicini degli elettrodi, tra i quali scoccava l´arco voltaico, perchè altrimenti l´immagine sullo schermo si sfuocava. Nulla di tragico, però avrebbe pensato la platea con un forte e disumano boato a far rimettere le cose a posto svegliando l´operatore dal suo torpore. Al cinema si alternavano i teatri, le operette, le accademie per le varie ricorrenze.

La presenza di un così bel palcoscenico invogliava tanti gruppi a cimentarsi su quelle scene. Dal primo “Baslot d´Or”, alle operette, alle indimenticabili rappresentazioni curate da don Luigino, ai più recenti intrattenimenti musicali di giovani, ai carnevali del paese. In questa breve carrellata ho sicuramente tralasciato molte cose che altri, spero, si premureranno di voler raccontare.

Mi auguro anche, che grazie a questa ristrutturazione, molti giovani possano riprendere amore per quelle attività che a noi giovani di ieri, avevano dato tanta gioia ed avevano riempito il tempo libero.

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Restauro e manutenzione della Chiesa di San Rocco

Fonte immagine: Un popolo in cammino – disegno di A. Vanzini

Pubblicato su Un popolo in cammino nel 1992

La Chiesa di San Rocco è parte della parrocchia di Jerago. Manutenzione e conservazione sono di stretta competenza della parrocchia. Naturalmente al Parroco don Angelo si affianca il “Comitato di San Rocco”, per massima parte composto da volontari del Rione, che attraverso varie iniziative si preoccupa di raccogliere quanto necessario per le ristrutturazioni.

Ora e´stata restaurata la Madonna del Carmine. E´desiderio vivo piu´volte espresso da quanti amano San Rocco ripristinare l´intonaco in calce, nel quale le tonalita´beige, bianco sporco erano date non solo dalla vetustà, ma dal tipo di sabbia (quella locale che si trova nelle piccole cave dei nostri boschi e che era di tono beige-ruggine); mettere in evidenza tutti gli elementi di mattone, perche´proprio Jerago era sede di importanti  fornaci; ripristinare il vecchio altare con pala al centro in considerazione della originale dedicazione al Santo.

L´attuale vista dell’abside con un effetto peraltro molto bello, non è quella voluta dall’  originale pietà popolare.  Si verrebbe così a ricreare quella caratteristica penombra, propria degli ambienti settecenteschi, molto più invitante alla meditazione.

L´eliminazione poi, dell´attuale massiccio altare postconciliare ridarebbe equilibrio a tutto l´insieme.

Storia della Chiesa di San Rocco

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Mese di Aprile

dipinto raffigurante San Giorgio e il Drago realizzato dal Sig. Gianfranco Battistella per la Chiesa Vecchia di San Giorgio restaurata – si notino ai lati le raffigurazioni degli ex parroci don Remo Ciapparella e don Angelo Cassani

Tratto  da ” Le ricette della Nonna -cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose – nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940”, a cura di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti, Tipografia Moderna, Collana Galerate, Gallarate, 2000

Celebrate le festività pasquali troviamo la Festa del S. Patrono: “ ul San Giörg”.

L’effigie del patrono a cavallo che uccide il drago contrassegna le nostre campane, appariva bellissima sulla facciata della vecchia parrocchiale, nel grande affresco del Tagliaferri, rimane ancora sullo Stendardo dei Confratelli, sulla croce Capitolare, ed è affrescata sulla volta della chiesa nuova dal pittore Orsenigo e sul quadro ad olio dell’ingresso laterale . Come non ricordare il San Giorgio della bandiera bianca della Unione Giovani Cattolici . Nel 1931 per ordine ministeriale, tutte le associazioni cattoliche nazionali dovettero essere sciolte, i dirigenti furono diffidati dallo svolgere attività e fu imposta la consegna dei simboli all’autorità. I Carabinieri si presentarono a Don Massimo per eseguire l’ordine. Egli rispose loro che quel simbolo non si trovava nella casa parrocchiale e forse, nel merito, poteva essere più preciso il Presidente Mario Paoletti. Il Carabiniere garbatamente lo tranquillizzò invitandolo a non preoccuparsi perché anche lui “ era un giovane cattolico” ; la bandiera fu così salvata. Con la stessa determinazione don Massimo difese anche le nostre Campane dal conferimento obbligatorio, ordinato nel periodo bellico, nascondendole sotto la terra del vecchio Cimitero della Chiesa.

Le campane della antica chiesa di San Giorgio In Jerago – Uno dei primi concerti di campane del famoso fonditore varesino Bizzozzero

Ul San Giörg”

Si è sempre celebrato la domenica successiva al 24 aprile, data della ricorrenza, e veniva preceduto da un  triduo di preparazione.

Domenica 30 aprile 1944

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Ricordo di Vergerio Quinto

Ripubblichiamo un ricordo del soldato jeraghese Vergerio Quinto apparso a firma del commilitone Giovanni Balzarini sul giornale parrocchiale Un popolo in cammino nella primavera del 1995. Riportiamo per fedeltà la scansione di quelle pagine pubblicate originariamente in occasione della scomparsa del nostro concittadino

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Merlüz in pastela 

fonte immagine: ricette.donnamoderna.com

(Ricetta sig.ra Giulia Bollini Carabelli)

Ingredienti:

 – per la pastella: 1 uovo, 1 dl. di latte, 5 cucchiai di farina, sale.

 – per il merluzzo: 800 gr. di merluzzo già lavato

Per la pastella : in un recipiente di vetro si sbattono insieme il latte, la farina, l’uovo, il sale e si amalgamano bene fino ad ottenere un composto di consistenza sufficiente per aderire ai pezzi di merluzzo precedentemente preparati e asciugati.

Si immergono i pezzi di merluzzo nel recipiente con la pastella rigirandoveli e lasciandoveli per 10/15 min.

A parte si fa friggere olio abbondante in padella larga e bassa, quando bolle immergervi i pezzi di merluzzo ricoperti di pastella e farli cuocere per 5 minuti da un lato e per 5 minuti dall’altro, comunque fino a doratura. E’ bene assicurarsi che le carni siano ben cotte. Si posano su una carta assorbente e si servono ben caldi. Si accompagna con patatine fritte a fiammifero o con insalata verde.

Lo si serve il Venerdì della settimana di Carnevale.

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Modi di dire dialettali jeraghesi

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Pubblicato su Un Popolo in Cammino – anno 1997

Öeuv in ceraghin -uovo al Chierichetto. Si chiama così perché ricorda l’abito rosso e bianco dei chierichetti nelle occasioni solenni. Quando per un motivo qualsiasi una persona in casa mette il broncio e non dà risposte di proposito, per i vecchi “la mett giò i Quarantur”. Se per sfuggire al caldo si chiudono tutte le imposte e le porte di un locale, a Jerago si diceva che “Se fa ul Scureu da San Carlo” con evidente richiamo al buio e al raccoglimento dello Scurolo del Venerdì Santo. In quel “scapa Signor ca ghe rivo’ i Muradur” si fa riferimento al fatto che l’eloquio dei “Magutt” non era certamente dei più consoni ad orecchie pie e non solo per il disastro che essi producevano, perché “par fa urdin bisogna fa un disurdin”. La semplicità con la quale si rispondeva alla “Curona dul rusari”  e che richiamava la collegialità con la quale tutte le persone valide  rigiravano il fieno in fila sul prato, faceva dire che “a vultà ul fin e a  di rusari in bon tucc da restà in pari”. Quando una persona dà fastidio la si manda “a fass Benedì” o a “Bacc a sunà l’organ” con rifermento al fatto che in quel di Baggio a Milano l’organo era dipinto sul muro. L’invito a non frequentare cattive persone si esprimeva con un “dà mia tra a quel lì, cal ta fariss perdi Mèsa anca al dì da Natal” (non dar retta a quello che ti farebbe perdere Messa anche il giorno del S. Natale). “Andà a sculèta” indicava la frequenza all’insegnamento per gli adulti. “Ul Fuiett dul Curad” è l’antesignano de Un Popolo in Cammino che don Luigi Mauri iniziò col nome di Voce del Parroco, aveva le dimensioni di un foglietto litografato sulle due facciate e veniva diffuso settimanalmente in tutte le famiglie. Ogni famiglia lo pagava 100 lire e permise di finanziare i lavori per l’Auditorium. La pesca e L’incant di Canestar  erano altre fonti di raccolta di fondi per le opere Parrocchiali. Nella casa si aspetta “Ul Sciur Curad” per la “benedizion da Natal” e la mamma – Masèra si fa punto di orgoglio perché “a cà la sia lustra me na Cana da fusil – la casa brilli come una canna di fucile”, nella cucina è sempre appeso un “Crusin”: piccola Croce offerta dal Parroco il giorno della prima benedizione della casa nuziale. La camera da letto presenterà sempre ul “Quadar da a Madonna cul Bambin in brascia – Madonna col Bambino in grembo” posto sopra la testata del letto ai cui lati potevi ritrovare anche “L’Aquasantin e ul quadrett di Devuzion” l’acquasantiera riempita con l’acqua che si andava a prendere in chiesa di Sabato Santo e il quadretto con le preghiere della buona notte. Una persona che gode di una cattiva salute di ferro sarà “Mezz in Gesa” (Quasi in Chiesa per il suo Funerale). All’uomo che generalmente sbianca al primo impercettibile dolorino, paventando chissà quali brutti mali, la moglie si rivolge ironica con un “te set lì c’al par ca te ghet i Oli Sant in sacogia – Sei lì bianco e smunto come se ti avessero già data l’estrema unzione”. L’ultima destinazione terrena di uno Jeraghese è la “Pigna” dal toponimo del sito del Camposanto.

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Putisc

fonte immagine: cannamela.it

Premessa e ricetta

La putiscia sta alle tortelle come i brüsej stanno ai dolci. Fu l’antica tortella di quando si era poveri e si disponeva di pochi ingredienti, ad esempio non vi era il lievito per dolci. E’ semplice perché basta mettere due uova intere in una scodella aggiungere due cucchiai di farina, due cucchiai di zucchero o anche meno, amalgamare. Poi si versano un paio di cucchiai del composto nell’olio bollente di un pentolino, che spesso per risparmiare era l’ultimo olio che rimaneva quando si fa un fritto. La peculiarità della putiscia era quella di essere piatta e ben cotta. Ottenuta dopo che la si fosse girata sui due lati, messa a sgocciolare su di un canovaccio e servita zuccherata. Deve ricordare una piccola bistecca.

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In Memoria di Carlo Scaltritti – Jerago 18-1-2016

(testo letto al termine della Messa con Esequie di Carlo Scaltritti)

Grazie Carlo per la tua frequenza assidua alle attività del Gruppo di San Rocco cui si affida la tutela dell’Oratorio dedicato al Santo. Oratorio che raccoglie tante testimonianze della devozione di un quartiere e di tutti noi che abbiamo quella chiesa nel cuore. Erano preziosi i tuoi suggerimenti, sostenuti con la tenacia che ti era propria, perché tutto all’interno ed all’esterno fosse efficiente in ordine come il luogo richiede. Apprezzabile il tuo impegno perché la porta di ingresso fosse aperta, per la devozione di chi recandosi al cimitero, voleva pregare presso l’immagine delle Antica Vergine del Carmelo, accendere un cero, dire una orazione. Quanta soddisfazione coglievamo nel tuo sguardo, quando il giorno delle Palme osservavi la processione che prendeva le mosse proprio dal Sagrato sempre molto affollato per raggiungere la Chiesa Parrocchiale. Ti abbiamo visto ancora recentemente, con fatica, salire i gradini dell’ingresso aiutandoti a quel corrimani che proprio tu avevi insistito fosse installato per la necessità di chi col passare degli anni era diventato più debole.

Suoni ancora per te, oggi  quella campana, con la quale ci invitavi alla Messa del Lunedi. Ti accolga con affetto la nostra Signora del Carmelo cui tanto eri devoto.

fonte immagine: https://www.beweb.chiesacattolica.it/edificidiculto/edificio/14314/Chiesa+di+San+Rocco
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Presentazione a cura di Elio Bertozzi del libro “Le ricette della nonna” di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti

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Siamo nel periodo classico della dominazione viscontea. Ottone, da buon politico pensa a perpetuare nella sua famiglia il potere civile. Ottiene dal Consiglio Generale la nomina del pronipote Matteo Visconti, figlio di Teobaldo a cui Napo Torriani mozzò la testa sulla piazza di Gallarate, aveva un fratello chiamato Umberto e uno zio detto Pietro. Nella divisione dei beni paterni, fatta nel 1288, ai due fratelli toccarono le terre di Somma, Golasecca, Vergiate, Lonate Pozzolo e Ferno, e allo zio, con Besnate, Albizzate, Crenna, Rovate, Solaro, Brunello e Massino, anche Jerago.

Jerago, che Bonaventura Castiglioni, nella prima metà del Cinquecento, indicava con il termine Hieracium. Jerago anche vicus villaggio romano, che con il termine Algerago troviamo in una pergamena del 1178; detto Alierage nel Liber notitiae sulla fine del Duecento: scritto Mierago nel 1455 e, dal Cinquecento in poi, come sottolineava lo scomparso storico Monsignor Eugenio Cazzani, è presente nella documentazione ecclesiastica con la forma Alierage. Insieme con Jeragum permarrà sino alla fine dell’Ottocento, quando si cominciò ad usare,anche per atti ecclesiastici, la lingua italiana. L’etimologia suggerita, infine, da Dante Olivieri vuole Jerago, dialetto Jeragh, derivato da Alliaricus. Aggettivo dal nome personale Alliarius, da ritenersi un personaggio, distinto per censo e per virtù civico–militari, il quale lasciò il nome al locus da lui abitato.

Posto in una posizione preminente, sovrasta la vallata. In tempo si diceva che Jerago venisse derisa, di fronte da Oggiona che sembrava beffeggiarlo dal culmine del colle, detto Monte Oliveto. Da secoli, i due paesi, a guardarsi in eterna sfida, anche se nessuno,mai, si mosse ad affrontare l’altro. Jerago mostrava ai vicini le sue chiese: la vecchia, con il suo alto campanile e la nuova in stile romanico. Ma paladino ne era in particolare l’antico castello, cui ben si adattano questi versi di Olindo Guerrini nel suo Canzoniere:

 “ O passegger che per la via diserta

 affretti il passo

 leva la fronte tua verso quest’erta “.

Balconcini con eleganti ringhiere, terrazze, posterle, torrette, bertesche, spalti, barbacani, avancorpi, merli: tutto l’apparato di un vero castello feudale. Sopra passavano nubi bianchissime, che adornavano il cielo di una tenuità di spuma. Passano da secoli. Le avranno guardate la castellana, il signorotto, il paggio, l’armigero, la comare. Nubi che raccolsero pensieri e segreti, sogni delusioni e che, ancora oggi, con il loro attuale “carico”, scivolano dolcemente sugli immensi campi vellutati del cielo che sovrasta la vallata su cui campeggia Jerago.

La riscoperta della cultura locale, alla quale assistiamo ormai da vari anni, ha favorito la produzione, recente, di volumi dedicati alla storia di singole località o di specifici aspetti della vita dei tempi passati. Alcuni di tali libri si limitano ad una semplice rielaborazione di argomenti già presentati da altri, senza offrire al lettore sostanziali novità nei contenuti. Il volume di Anselmo Carabelli ed Enrico Riganti si discosta nettamente dalle pubblicazioni consimili sia per argomento che per originalità. E’ ambientato in un singolo paese: Jerago, ma coinvolge una cultura che riguarda tutto il Seprio; è dedicato ad un tema principale: la cucina tradizionale, ma ci informa su una molteplicità di usi, costumi, detti, proverbi, significati.

Frutto di una lunga ed appassionata ricerca  “sul campo“ offre al lettore un quadro del mondo contadino del buon tempo antico, con un pizzico di nostalgia, ma senza dimenticare che la vita continua ad evolversi ed a progredire.

La lettura è snella e piacevole per tutti: gli Jeraghesi ritroveranno l’anima del loro paese, oltre alle ricette di pietanze più volte gustate, altre parimenti appetitose, ma anche tanti ricordi e tante curiosità. I non Jeraghesi riscontreranno incredibili somiglianze con fatti ed usanze dei rispettivi paesi. I lettori di una certa età ricorderanno il sapore di un mondo che ancora esisteva durante i loro anni migliori, anche se già avviato al declino, i più giovani avranno il gusto di scoprire come vivevano i loro coetanei quando non c’erano le discoteche e la televisione. Mondo migliore o peggiore? Semplicemente un mondo diverso: l’aria era più pulita, ma mancavano tante comodità, non c’erano i soldi ma la vita era più genuina. Non beghe legali, fiscali o aziendali, però contrasti di paese, più semplici, ma non per questo spesso meno amari.

In tutta la trattazione domina, com’è giusto, il dialetto, senza tuttavia escludere dalla lettura chi non lo capisce o chi non lo parla più. Anzi proprio costoro potranno gustare alcune espressioni interessanti, che magari provengono direttamente dalla lingua latina o francese o tedesca.

A questo proposito mi pare che quanto scrisse Cesare Cantù oltre 150 anni fa, nella sua semplicità, sia tuttora il più valido orientamento per il lettore:

“il nostro parlarsi sopra estesissimo tratto, con modificazioni locali …. Dell’antica origine gallica fa esso fede nella pronunzia dell’ u dell’oeu  (feug se peu); degli an, on, en, nasali (pan, porton, ben) nello scempiare spesso le consonanti e mutare la z in s; oltre un grandissimo numero di voci, non adottate nella lingua italiana e viventi nella francese, ben distinte dalle poche lasciatevi dalla recente dominazione  e dalla moda. Chi ode il dialetto di Marsiglia, può scambiarlo pel milanese, mentre a fatica è intellegibile ai Francesi, e la somiglianza è tanto più notevole, in quanto che già si riscontra nelle poesie de’ i Trovadori, poeti provenzali del XII secolo, e non solo quanto a parole, ma anche a forme grammaticali.

Nel Varon Milanes, opera di un Capis ampliata da un Milani, si cercano radici greche a molti vocaboli lombardi, con quelle solite stiracchiature per le quali le etimologie son divenute un giochetto simile a quello delle sciarade: ma certamente alcuni ve n’ha di derivazione latina e di greca e non conservatasi nell’italiano: pochi n ha di tedesca, moltissimi invece di spagnola, senza contare la fratellanza delle due lingue. Il nostro dialetto nel plurale non discerne l’articolo maschile dal femminile ( i fioeu e i tosann); l’articolo indeterminato distingue dal numerale (un omm, damenn vun); i numerali due e tre forma diversamente pel femminile  (du sold, do lir; tri foeuj, tre pagin); alcuni plurali ha differentissimi dal singolare (om e omen, tosa e tosann, casa e ca , boeu e bo) usa un suono della s ignoto al toscano ( s’ciopp);…alla tedesca pospone la negazione al verbo (mi so no) esclude affatto quelle inversioni che fanno arditamente bello l’italiano“.

Come si nota quasi tutti i popoli europei hanno contribuito alla formazione della lingua dei nostri avi e quindi delle nostre radici. Forse la nostra preoccupazione riguardo la cosiddetta società multietnica del futuro è esagerata. Forse, soprattutto a patto che non si dimentichi il passato.

                                                  Elio Bertozzi

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Don Carlo Crespi

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Il giorno 29 maggio 1945  arriva in Jerago parrocchia di San Giorgio, quale vicario spirituale, proveniente dal Collegio Nicolò Tommaseo di Vimercate,  dove era direttore spirituale.

Era nato a Mezzago nel 1899 e consacrato  sacerdote nel 1930 dal Card. Schuster, dopo aver prestato servizio militare. Ordinato sacerdote fu coadiutore di Inzago, nel 1933, assegnato alla parrocchia di S. Maria Nuova in Abbiategrasso e nel 1935 coadiutore a san  Gioachimo in Milano.  Sfollato a Vimercate per i bombardamenti di Milano, fu nominato  direttore spirituale del Collegio Arcivescovile Niccolò Tommaseo. Il 5 agosto 1945, prese possesso canonico della Parrocchia presente il Prevosto di Gallarate Antonio Simbardi.

Il 30 sett. e il 1° ott.  furono dedicati ai festeggiamenti molto belli e all’insaputa del festeggiato che aveva espresso il desiderio “che non si facessero spese“.

Mons.  Cazzani  nel libro Jerago traccia questo ritratto: ”La permanenza di don Carlo Crespi a Jerago non fu lunga. Assiduo al Confessionale, attento alle funzioni liturgiche, che celebrava con fervore e con dignità, si dimostrò particolarmente premuroso verso gli ammalati. Accanto al letto degli infermi dimenticava sè stesso, i suoi fastidi, la stanchezza: quasi ringiovaniva. Sorridente si accostava a loro comunicando serenità. Ogni ammalato aveva la certezza che don Carlo era venuto per lui e per lui solo.”

Durante la sua permanenza don Carlo Crespi accolse a Jerago il Card. Schuster in Visita Pastorale.

Nel 1952  don Carlo rinunciò alla Parrocchia e fu nominato cappellano dell’istituto per lo studio e la cura dei Tumori a Milano, dove per un ventennio profuse le sue energie nell’assistenza spirituale dei malati.

L’ultimo incarico e residenza fu al Cottolengo di Cerro Maggiore come cappellano e ospite, dove si spense il 25 luglio del 1975. La sua salma è sepolta a Mezzago.

Il presente testo, estratto dall’archivio parrocchiale di Jerago, è stato redatto da Anselmo Carabelli, che vuole aggiungere un ricordo personale: “Ero piccolo quando Don Carlo fu parroco di Jerago, lo conobbi all’ospedale dei Tumori. Non dimenticherò mai una  festa del Corpus Domini all’Ospedale dei Tumori di Milano, quando Don Carlo portando il Santissimo in processione tra le camere e i malati dell’ospedale, lo avvicinò al letto della mia Mamma, lì ricoverata, arrecandole immenso conforto”.

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Pan buter e zucur- pan e ciculat- pane burro zucchero e  pane e cioccolato- Ricordi di Anselmo Carabelli

fonte immagine: ricette.eu

Per noi ragazzi degli anni cinquanta questi erano gli ingredienti classici della merenda pomeridiana, quando, verso le quattro  la nonna ci preparava quelle indimenticabili  leccornie. Il pane, la michetta  del Mastorgio o dell’Alzati, il buter quello che si produceva in casa dopo aver scremato la panna dalla calderina, che riposava nella muschireula, o in alternativa una michetta con una stecca di cioccolato che si andava a comperare dal Turri , dal Ruel o al mercato dal Pedron e dal Bielin. Mi ricordo anche di tavolette avvolte nelle prime carte trasparenti, solo dopo lo avremmo chiamato cellophane, che consentivano di vedere la medaglietta di metallo con l’effige di un calciatore. Quel cioccolato, in realtà si trattava di surrogato, era una autentica schifezza, lasciava quello che oggi palati raffinati direbbero un retrogusto da medicina, però era l’unica possibilità di iniziare una collezione che solo i più abili avrebbero ampliato vincendole ad un gioco inventato o trasformato per l’occasione. Più concorrenti mettendosi in riga a circa tre metri da un muro, stringevano il dischetto con l’effige dell’eroe pedatorio, tra  l’indice e il medio e lo lanciavano con abilità , chi arrivava più vicino al muro col suo lancio avrebbe vinto il dischetto degli altri giocatori, immaginatevi le risse. Ma la cosa più emozionante in estate,  era quella  ritrovarsi ad addentare quei panini nei prati, in allegra banda di marmocchi e correre verso i boschi. Che fortuna abbiamo avuto senza accorgerci, siamo stati gli ultimi a permetterci questi lussi , oggi manchiamo delle materie prime essenziali: un prato vicino a casa dove correre spensierati; i cortili, quando va bene  sono parcheggi, i boschi meglio non parlarne; i nostri polmoni, come fossimo cozze, depurano l’aria dal pm10, ed allora i  bambini è meglio stiano a casa a rimbambirsi alla televisione o coi videogiochi. La nonna moderna li ingozza di merendine, quelle light mi raccomando, così leggere da gonfiarli come palloni. Il burro è sparito, attenti al colesterolo, ma ritorna come grasso industriale sotto altre mentite vesti e che magari proprio burro non è  ma condimento idrogenato. E lo zucchero, come era inarrivabile quel pane bagnato e zuccherato, cosi come  la fetta di polenta rimasta, che tagliavamo di nascosto e pucciavamo nella zuccheriera, senza badare che i pezzettini di polenta sbriciolata ci avrebbero svelati alla mamma quali innocui ladruncoli, eum fai maron  come si diceva in dialetto. Ma lo zucchero, non sia mai, meglio una caramella dolcificata senza zucchero, di quelle che sullo stick avvertono non più di quattro al dì, quasi fossero una medicina. Ed infatti se ne prendi di più, sono più efficaci del guttalax. Belli i tempi di quando per andar di corpo si usavano le pere cotte, zuccherate. Lo zucchero era ed è l’ingrediente principe dei dolci, ma comunque sempre un prodotto che si andava ad acquistare dal droghiere, che lo prendeva a palotti dal sacco di carta da 50 chili e lo pesava sui piatti delle bilance sopra una carta blu , la famosa carta da zucur che avrebbe poi avvolto in sacchetto. Certo ci voleva una tecnica particolare per fare quell’involto chiuderlo rapidamente, senza che i lembi si sciogliessero, altrimenti nella sporta della masera, oltre al danno di perdere il contenuto, sarebbe successo il finimondo. Zucchero dappertutto, nel borsellino bursin, e visto che solitamente prima di andare a far la spesa si passava in Chiesa, zucur anche in dul vel  e in dul lbret di urazion –zucchero anche nel velo e nel messalino, che ogni mamma portava nella borsa. L’azzurro scuro della carta da zucchero si identifica anche con l’azzurro aviazione. Quanti sogni avrà mai suscitato nelle giovani di prima della guerra, avide e vituperate lettrici dei racconti della Liala, quel colore inequivocabile che  caratterizzava le divise da parata degli aviatori, sulle cui maniche le alte righe d’oro ne qualificavano il grado. Quel bel tenente o quel capitano impavido, che oltre a popolare i sogni delle nostre, con fortuna si potevano intuire nelle carlinghe degli aerei, basati a Cascina Costa, quando con ardimento volteggiavano sui nostri cieli. A Cardano gli aerei li chiamavano Sguatuni  così come Sguatè era il pilota, sostantivi derivati  dal verbo sguatà che è  il volare proprio di un uccello pesante: un’ aquila o più.modestamente un corvo; mentre di un passero si dirà  cal sgura- vola .Vola così come ha preso il volo la mia fantasia nel ritornare agli anni dell’ infanzia.

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Rustaia

fonte immagine: buonissimo.it

Piatto che si soleva imbandire prima del 1900 per il mezzogiorno di Natale in attesa delle 16 quando cominciava il cenone.

Ingredienti : 400 gr. di lombo di maiale, 200 gr. di salsiccia luganiga, 1 kg. di cipolle, una noce di burro, un cucchiaio di olio d’oliva (in antico il battuto di lardo), un cucchiaio di farina, un dito di aceto, sale q.b.,  pepe.

Mettere un una padella bassa l’olio, il burro e le cipolle tagliate a fettine. Si fanno cuocere a fuoco lento senza rosolarle, aggiungendo acqua . Dopo circa ½ ora si sala, si mette pepe, si aggiunge la farina stemperata in un dito di aceto, si aggiunge la carne tagliata a piccoli pezzi e la salsiccia pure in piccoli pezzi con la sua pelle. Si coperchia e si fa cuocere ancora per 1 ora. Il piatto sarà pronto. Si serve in piatti caldi con fette di pane giallo o pane misto. A Natale il pane sia bianco.

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Centro culturale Cardinal Schuster e Carlo Mastorgio- Jerago – Rassegna Stampa

Tratto da Un Popolo in Cammino – 2001

“Con questo numero inizia la pubblicazione di articoli apparsi, nel mese, su quotidiani normalmente reperibili nelle nostre edicole. Questi scritti, che pensiamo utili ad una analisi critica della realtà nella quale si vive potrebbero essere sfuggiti alla attenzione del lettore. Pensiamo di fare cosa utile riproponendoli, riservando gli approfondimenti anche ad ulteriori iniziative. Poiché normalmente si legge un solo giornale, chi lo desidera potrebbe segnalare all’attenzione degli altri, argomenti specifici tratti dalla molteplicità e varietà della produzione editoriale.

Il recapito del centro culturale Schuster- Mastorgio è presso la Casa Parrocchiale.

La rassegna inizia con un Articolo di Giampaolo Cottini dal titolo “ Fuori del Coro – Alla Fine di un Millennio”, apparso su La Prealpina Giovedì  28 dicembre 2000 

(Giampaolo Cottini è docente di storia e filosofia presso il liceo classico di Varese ed è noto agli jeraghesi per aver tenuto varie e preziose  conferenze nell’ambito delle iniziative culturali e pastorali della Parrocchia).

Siamo alla fine di un millennio che sta per chiudersi e il prossimo 31 dicembre sarà il vero spartiacque verso il XXI secolo, così è quasi inevitabile accennare a qualche bilancio non solo della vita personale ma anche della storia. Le inquietudini sono molte, e se intorno all’anno Mille si trattava di far rinascere una nuova civiltà, anche alla fine del secondo millennio cristiano si ha l’impressione che la posta in gioco sia l’inizio di una nuova civiltà, visto che a fronte di tanti progressi dell’umanità sono anche tante le minacce che incombono. Il XX secolo è stato un secolo di immani tragedie, le cui conseguenze giungono sino all’oggi: pensiamo alla precarietà della pace e dell’equilibrio mondiale, o alle minacce di uno sviluppo che stravolge l’ambiente naturale. Ma forse il fenomeno più rilevante che si spalanca è quello della globalizzazione e dell’incontro tra popoli e culture diverse. Proprio su questo le inquietudini e gli equivoci si sono moltiplicati nelle ultime settimane: è possibile un vero incontro ed un costruttivo dialogo tra culture e religioni diverse? Da dove nascono l’intolleranza e la xenofobia? Cosa significa realmente accoglienza e rispetto del diverso? Quale diritti hanno le nazioni di salvaguardare adeguatamente  la propria identità prevalente? Le questioni sono complesse, poiché se da un lato si va verso una mondializzazione della economia (sostenuta da una rete di comunicazione planetaria tramite internet), dall’altro l’esigenza di salvaguardare le differenze e di evitare pericolose omologazioni è grande, soprattutto dinanzi al rischio del prevalere del più forte sul più debole. Da dove partire allora per instaurare un dialogo tra diversi? Da dove ricostruire un percorso di civiltà che favorisca nel Duemila qualcosa di simile alla cosiddetta rinascita dopo il Mille. La risposta più plausibile è di partire da un dialogo sugli elementi essenziali che costituiscono la coscienza degli uomini e dei popoli, cioè di ripartire dal dialogo tra le culture. La cultura è l’espressione con cui i  singoli popoli leggono il senso dell’esistenza e della storia, ed è quindi la ricerca della verità secondo i mezzi concettuali e linguistici che un popolo riesce a mettere a punto. Così il dialogo è il momento più alto della comunicazione tra gli uomini perché mette al centro la ricerca della verità e del significato del destino stesso dell’umanità. Perciò, pur nelle differenti sensibilità e nelle modalità espressive, se si mette a tema il confronto e il dialogo tra le culture, si pone al centro l’elemento comune tipico della ragione umana, che è la tensione alla verità, da cui consegue la dimensione etica della ricerca di un bene valido per tutti gli uomini. Perciò è doveroso evitare la confusione fra le culture, e al contempo garantire il loro incontro nella prospettiva di cercare ciò che accomuna piuttosto che ciò che divide, con l’attenzione, però, di non mettere tra parentesi la tradizione da cui si proviene o i valori in cui si è nati. L’equivoco ricorrente è infatti, pensare che il dialogo funzioni solo mettendo in ombra i propri punti di partenza (quella che normalmente si definisce l’dentità), mentre la prospettiva della verità chiede di prendere coscienza di quanto è già dato per confrontarlo liberamente con le altre proposte.

La verità non è proprietà di nessuno, ma il fine cui tutta l’umana avventura tende; perciò è troppo importante al termine di un secolo e di un millennio riproporre seriamente la ricerca, costi quello che costi, anche se ciò comportasse la perdita di qualche privilegio o di comodità acquisite. Una nuova civiltà non può infatti, nascere, sul relativismo o sul nichilismo: per questo il coraggio della verità è la sfida più affascinante che abbiamo davanti.

                        Giampaolo Cottini  

Segnaliamo che è da poco uscita una raccolta di scritti ed articoli di Giampaolo Cottini, in suo ricordo.

A questo link maggiori info:

https://www.scrittigpcottini.it/il-libro/

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Pulastar – capuni e puluni a rost

fonte immagine: buonissimo.it

Disponendo di un pollo di circa 1 kg, già pulito, si procede come per la ricetta dell’arrosto, il tempo di cottura, dovrà esser controllato, perché è funzione del tipo di allevamento. Comunque è bene accertarsi che le carni dopo la cottura siano sempre bianche, infatti  servire un arrosto di pollame le cui le carni siano ancora rosse non è bello. Si cerchi anche di ottenere che la pelle risulti bruciacchiata e croccante. Per questo motivo a Natale, quando si cuocevano, capponi, oche e tacchini, che sono di notevoli dimensioni, li si portava dal fornaio, perché solo nel forno del pane potevano cuocere molto bene e in profondità. Nel caso del tacchino o del cappone il tempo di cottura può arrivare anche a due ore, due ore e mezza.

La ricetta completa è disponibile sul mio libro

https://www.macchionepietroeditore.it/scheda_Varese-Cucina-Sane-Gustose-Genuine-le-tradizioni-del-Varesotto-di-Anselmo-Carabelli_5-44-51-0-0-0-1-1-10-1-452.html

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Benedizione Affresco “Maria Regina Pacis”

Sabato 12 Novembre 2022 alle ore 16.30, il parroco della Comunità Pastorale JOB Maria Regina della Famiglia, don Armando Bano, ha benedetto l’affresco dipinto dal signor Gianfranco Battistella, posto sulla parete della casa dei signori Bertoncello/Carrieri a Jerago in via Cavour, nelle vicinanze della circonvallazione di Corso Europa.

E’ stata l’occasione per un breve momento di preghiera con i parrocchiani che sono intervenuti numerosi in questa lieta occasione.

Si ringrazia per il video e le foto della giornata il signor Gianfranco Battistella

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Maria Regina Pacis

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Luoghi caratteristici di Orago: il Castello Visconteo

Per conoscere meglio la storia del castello visconteo di Orago consigliamo la lettura del libro ORAGO Storia di un borgo col castello e la sua Chiesa di Anselmo Carabelli, Giuseppe Lombardi, Eliseo Valenti (978-88-6570-696-1).

Il libro, promosso dalla comunità pastorale Maria Regina della Famiglia JOB, è stato pubblicato lo scorso dicembre (2021) e presentato al pubblico dagli autori il giorno dell’Immacolata Concezione (8 Dicembre 2021) presso la sala polivalente dell’Oratorio di Orago.

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Il libro è disponibile in vendita anche tramite il sito dell’editore Pietro Macchione Editore di Varese, a questo link:

https://www.macchionepietroeditore.it/scheda_ORAGO-Storia-di-un-borgo-col-castello-e-la-sua-Chiesa-di-Anselmo-Carabelli-Giuseppe-Lombardi-Eliseo-Valenti_5-44-48-0-0-0-1-1-10-1-701.html

Nel libro vengono narrate le vicende dei Visconti dei rami di Jerago e di Orago e molte altre questioni relative al borgo di Orago, ovvero alla vita civile e religiosa che ivi si svolse in passato e che vive tutt’oggi nei monumenti che ne sono testimonianza e ricordo.

Una copia del libro è stata donata dagli autori alla biblioteca comunale di Jerago con Orago e quindi è disponibile per il prestito e la consultazione presso di essa.

Qui maggiori info:

https://retebibliotecaria.provincia.va.it/opac/detail/view/varese:catalog:634849

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Ris e latt- Riso e latte

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Premessa

E’ questa una ricetta assai diffusa, si è persa l’usanza dei nostri vecchi di addolcirlo con zucchero, a differenza della bassa padana dove lo si insaporiva col formaggio grana. Il motivo apparentemente banale denuncia l’influenza di abitudini nord alpine e come direbbero in Canton Ticino d’oltre Gottardo. Tale usanza è propria dei cantoni tedeschi, quasi a ricordarci che le nostre zone sono sempre state in rapporti commerciali con l’antica Raetia, tramite il Mons Adula – San Gottardo (Strabone opera citata)

Ingredienti: 0,750 lt. di latte, 0.750 lt. di acqua, una noce di burro, 180 gr di riso, sale.

Portare il latte leggermente salato ad ebollizione con pari quantità di acqua, versare il riso, abbassare la fiamma curando che il latte non tracimi per ebollizione. Cuocere per Il tempo necessario per portare a cottura il riso, assicurandosi che il tutto si addensi, per effetto dell’amido rilasciato dal riso, senza diventare un risotto. Se così succedesse, aggiungere acqua molto calda, che si terrà pronta in un pentolino. A cottura ultimata aggiungere una noce di burro e servire.

Come detto la tradizione voleva che il commensale jeraghese aggiungesse zucchero, vi è chi oggi lo preferisce sfarinato di parmigiano, io sono per la tradizione

Brano tratto da “Le ricette della nonna – Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose –  Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940″

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Pulenta giälda cuma la sa fa da neunc – polenta di farina di mais come la si fa da noi

immagine puramente indicativa – fonte immagine: cucchiaio.it

Sono necessari:

  • Parieu da ram paiolo di rame con manico, assicurarsi che esso sia ben pulito all’interno, che il rame risplenda.
  • Canéla da legnbastone di legno di noce della lunghezza di circa 90 cm. ricurvo ad una estremità
  • Camin cunt a cadéna o stùa ecunòmica a légna cui cérc– Camino con catena centrale pendente e moschettone per agganciare il paiolo di rame o stufa economica a legna coi cerchi da rimuovere, per inserirvi il paiolo di rame
  • As da legn rutond pa a pulénta cunt sura un mantin – tagliere per la polenta sul quale è stato posto un tovagliolo bianco

Ingredienti: 1 kg di farina di granoturco tipo bergamasca, 2 lt. di acqua, sale q.b.

Preparazione:

Si porta ad ebollizione l’acqua salata nel paiolo di rame e si versa a pioggia la farina mentre si mescola col bastone, si fa cuocere a fuoco vivo per circa 1 ora rigirando continuamente in modo che la parte ricurva del bastone rimuova continuamente tutta la polenta evitandone il prolungato contatto colle pareti – par mia fala gremà –per non farla bruciare. La polenta deve essere ben soda ed è pronta solo quando si stacca dalle pareti. Si solleva il paiolo impugnandone il manico  con l’aiuto di un giornale piegato che faccia da isolante. Aiutandosi con l’altra mano, debitamente protetta da un guanto o da un giornale e avendo cura di non scottarsi, si rovesci il paiolo con un bel colpo del bordo sul tagliere  ove in precedenza sia stato posto un tovagliolo bianco. Nel paiolo rimarrà una piccola crosta, ottima da mangiarsi a parte. La polenta fumante sul tagliere verrà così portata in tavola avvolta nei lembi del tovagliolo.

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Minestrina da la sciura Giülia – Minestrina della signora Giulia

In omaggio alla mia nonna Sig.ra Giulia Bollini, che cucinava con cura anche i piatti più semplici perché era convinta che la buona cucina, frutto di tanta pazienza e del suo amore di cuoca, aiutasse a rendere più serena la vita.

Ingredienti: 1,5 lt. di acqua, una patata fatta a pezzettini, 160 gr. di riso, un pomodoro medio spezzettato col coltello sull’asse, prezzemolo tritato una manciata, un dado di manzo per brodo, noce di burro.

Portare ad ebollizione l’acqua, aggiungere dado, patata, burro, pomodoro, far cuocere a fuoco lento per 30 minuti, mettere il riso e il prezzemolo e far cuocere per altri 15 minuti. Servire ben caldo con una bella sfarinata di parmigiano.

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Inaugurazione affresco Salve Regina alla presenza di sua eminenza Mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano

Nei giorni della proclamazione ad arcivescovo di Milano di sua eminenza Mons. Mario Delpini, nel luglio del 2017, venne inaugurato a Jerago, alla sua presenza, un affresco dedicato alla Vergina Maria con bambino  (Salve Regina)  presso l´abitazione di uno dei suoi parenti.

L´inaugurazione avvenne alla presenza delle autorità  civili e religiose, tra cui il sindaco Dott. Giorgio Ginelli, e il parroco Don Remo Ciapparella e fece seguito ad una celebrazione eucaristica nella chiesa di San Giorgio in Jerago, che vide per la prima volta l´arcivescovo nominato, celebrare la Messa nella sua parrocchia di origine.

Riportiamo qui alcune fotografie scattate in quell’occasione, testimonianza dell’ importante evento per il nostro comune e la nostra comunità pastorale.

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4 novembre – Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate – il Monumento ai caduti di Jerago

Nei pressi della cappella Bianchi e della chiesa di San Rocco, è sito a Jerago, il monumento commemorativo dei caduti e dei dispersi delle due guerre mondiali: la Prima Guerra Mondiale dal 1915 al 1918 e la Seconda Guerra Mondiale dal 1940 al 1945.

Tale monumento è stato costruito a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, sotto la spinta della memoria, sempre viva, di coloro che persero la loro vita per servire la Patria durante i due conflitti mondiali.

Riportiamo qui sotto una pagina estratta da Jerago – Rassegna di vita cittadina (numero del 1967), pubblicazione a cura del Centro Giovanile Ul Galett, articolo in cui si parla della prossima realizzazione di questo monumento commemorativo.

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Luoghi caratteristici di Jerago: la cappella del Cimitero

Sita all’interno del cimitero di Jerago, la Cappella conserva sui due lati delle lapidi in memoria dei caduti e dispersi jeraghesi delle due guerre mondiali.

La Cappella è posta al centro del complesso di colombari che sono siti sul lato est del cimitero e che sono rivolti verso l’entrata del cimitero stesso.

La sua posizione centrale è infatti in corrispondenza con il viale principale che dall’entrata del cimitero porta appunto ai colombari.

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I mundeghini – Polpette di avanzi di carne

I mundeghini– Polpette di avanzi di carne

Premessa :

sempre seguendo il filone della nostra cucina povera troviamo questo squisito piatto, che normalmente era servito nei giorni successivi alle feste, quando avanzavano pezzi di carne bollita o arrostita, manzo o pollo. Tutte le cucine presentano piatti similari, anzi si dice che un bravo cuoco sia quello che sappia trovare almeno cinque nomi diversi per le polpette. Il nome che i vecchi davano loro ci porta ad antiche origini .

Mondeghini proviene dal latino “mondidus” che equivale al nostro disossato, l’azione di quando si ripulisce l’osso dalla polpa o più correttamente dagli avanzi della polpa. A Busto Arsizio, il cui dialetto affonda le radici addirittura nel substrato ligure, la carne di basso pregio o gli avanzi si chiamano “ remundüa ”. Nella ricetta entra anche la lüganiga, che è un altro tipico ingrediente che i latini chiamavano lucanica.

 

Ingredienti: tutti gli avanzi di carne  cucinata in precedenza (dal : bollito o dall’arrosto di manzo o pollo), 2 hg. di salsiccia ( che sia la lüganiga – cioè quella bella rosa e soffice, da ripieni), prezzemolo, farina bianca, burro per friggere, un uovo, parmigiano grattugiato.

 

Tritare con tritacarne gli avanzi, metterli in una insalatiera di vetro, unire l’uovo intero, il parmigiano, la salsiccia spellata, il prezzemolo trito, salare q.b, se piace noce moscata e pepe. Lavorare con l’ausilio di un cucchiaio di legno, l’impasto deve risultare morbido e consistente sì da rimanere compatto se plasmato con le mani. Se troppo asciutto aggiungere poca acqua, se troppo morbido pangrattato. Si confezionino delle palline compattandole col palmo delle mani. Le si schiaccino leggermente su due poli e le si passino nella farina bianca posta in un piatto fondo.

A parte, in una padella bassa e larga, si faccia soffriggere il burro a fuoco moderato, si abbia attenzione a non surriscaldarlo, quando comincerà a fare schiuma e a prendere un bel colore bruno vi si mettano i mondeghini, girandoli sull’altro lato non appena cominceranno a diventare coloriti e croccanti. Quando avranno preso colore anche dall’altra parte si possono servire. Una insalata a foglia larga per contorno sarebbe il massimo, meglio ancora se fresca dell’orto.

 

Per altre ricette consultate il mio libro edito da Macchione editore:

Varese Cucina. Sane, Gustose, Genuine, le tradizioni del Varesotto di Anselmo Carabelli (978-88-6570-434-9)

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LE PIANTE DA FRUTTA E I FRUTTI

La frutta compariva sulla nostra tavola quando c’era, cioè quando maturava, ma senza particolare interesse, quasi per caso, perché la funzione principale delle piante da frutto era quella di intercalarsi ai pali di castano per reggere la vite. Fatta eccezione per l’innesto, non vi era alcuna particolare tecnica colturale per quegli alberi, li si potava giusto il necessario per non lasciarli crescere troppo. E poi agli anziani non gradiva che fossero sfrondati in eccesso raccomandando moderazione agli improvvisati potatori : quel ram lì lasél a stà, quel lì tajél nò parchè al gà i fiur, ma racumàndi e così di seguito, tanto che il povero operatore doveva rassegnarsi a una misera ed insufficiente spuntatina. Preoccupati com‘erano di garantirsi tanta produzione non si accorgevano che, così facendo, favorivano la crescita di numerosi frutti, ma tutti piccoli . Pumèi, persaghit, mugnäg, perit e scirés, non ricevevano alcun trattamento chimico ed era normale che fossero abitati dai cagnot vermi, in particolare le ciliege, delle quali ridendo ci si chiedeva se di venerdì non rompessero il precetto del magro. Queste quando maturavano verso i primi di maggio, rappresentavano per noi bambini una irresistibile attrattiva. In frotte di discolacci, si andavano a cogliere sugli alberi avendo cura di scegliere quelli che il tempo e l’esperienza ci avevano insegnato offrissero le migliori qualità. Sorretti dai più grandi, che facevano da scala, si saliva su tronchi dalle fronde maestose, abboffandoci di gustosissimi frutti e strappandone a rami interi per chi fosse rimasto a terra. Si badava anche di conservare quelle con doppio peduncolo unito, da offrire alle bambine che avrebbero gradito posandole a cavaliere delle orecchie. Quante volte le ciliegie erano troppo acerbe e quanti mal di pancia ci avrebbero regalato. Sull’albero si rimaneva comunque sempre in campana con l’orecchio teso ad anticipare l’arrivo del contadino, che non doveva sorprenderci. Eravamo profondamente convinti che, se anche ciò fosse accaduto, mai avrebbe attuate le sue tremende minacce, era stato ragazzo anche lui e ci avrebbe sicuramente perdonati. Lo temevamo come si temono quei vecchi cani da guardia che abbaiano più per onor di firma che per convinzione, ma se lo avesse detto al papà, questo sì ci avrebbe fatti tremare!. Mi sono accorto dei tempi cambiati, quando ho notato le ciliegie marcire sui rami, così come tanta altra frutta. Ma più ancora quando ho visto ragazzi, che per dispetto hanno divelto una intera pianta di pesche lanciandone i frutti come fossero palle da tennis. Ben lontani i tempi di quando tutta la frutta veniva raccolta e accorgendosi di qualche frutto rimasto, le nonne ripetevano, riecheggiando insegnamenti evangelici, che non ci affannassimo, perché anche gli uccelli dovevano pur vivere. Mi interessa la storia dell’albero dei caki, introdotto all’inizio del secolo a motivo della  conservabilità invernale dei suoi frutti. Molto presto furono disprezzati per la falsa nomea di essere cancerogeni e forse, ancor più, per il fastidio dello strano sapore che rimaneva  in bocca quando li si  addentava non maturi, ean rap come si diceva in dialetto, legavano il palato.

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Quell’albero, quando non sia stato abbattuto, rimane ancora nei nostri giardini una sicura risorsa invernale di sperduti uccellini, i quali ad albero completamente nudo di foglie, ne svuotano i frutti lasciandone gli involucri come palle di vivo arancione, appese ad un inusuale albero di Natale. E come non ricordare, le nespole che si mettevano a maturare in cascina in dul cas dul fen nel mucchio del fieno, o i zinzurlit  azeruoli piccoli frutti rossi ricchi di semi, ul curnà il corniolo con frutti simili ad olive, i nus le noci cui l’adagio associava che: partagà i nus, fa via la nèv, mazà la gent, l’è tüt laurà fài par nagòtbattere il noce per far cadere i frutti, ammazzare la gente, spalar la neve, è lavoro inutile, dal momento che già la natura vi provvede se si ha la pazienza di attendere. Ma l’albero di noce ritenuto malefico non godeva buona fama presso i vecchi, che raccomandavano di non lasciarlo crescere nell’orto perché avrebbe fatto morire tutte le verdure. Esso si riabilitava nel dire che pan e nus l’è un mangià da spus mentre si sostiene che : nus e pan l’é un mangià da can. L’adagio potrebbe fare intuire un antico pane matrimoniale lievitato e cotto con noci sminuzzate nella pasta e a gherigli interi anche sulla superficie, una brusella matrimoniale insomma. Mangiare invece noci con pane, nel tentativo di rifare un banchetto di nozze sarebbe proprio disdicevole, quasi un mangiar per cani. Ottimi ed apprezzati i fig, quelli piccoli nostrani le cui piante, con l’ausilio della golosità di qualche passero, nascono da sole negli anfratti alla base dei muri e si sviluppano in zone assolate, protette dalle prime brezze settembrine. Ricordo mia nonna Ida Tomasini, di Orago che lamentava come il vento gelido della valle dell’Arno, impedisse ai fichi di maturare, così le mie prime uscite in bici furono verso la sua casa per portarle cestini di fichi appena raccolti e lei mi mostrava in che modo i nostri vecchi li seccassero al sole per conservarli. La fretta e l’impegno nelle attività industriali, associati alla scarsa qualità dei nostri frutti ed ad una maggiore disponibilità di soldi, offrirono l’opportunità agli ortolani di aprire le loro prime botteghe. Tra questi il Sig. Alessandro Bogni Bogn, che rimasto invalido si industriò a coltivare verdura e piante da frutta in un terreno nei pressi dei Ronchetti. Raccoglieva gli ortaggi e la frutta che sistemava sul suo carrettino da spingere a mano dal Rià fin verso la piazza. Più tardi con l’avanzare dell’età mise al carro un asnin, un grazioso asinello di piccola taglia e si spinse fino a Solbiate, ma erano tanto apprezzate le sue verdure che già prima di arrivare alla piazza erano tutte vendute. Nessuno avrebbe però mai prestato fede alla vanteria che il suo terreno fosse cosi fertile, che una sola pianta di Cornetti, dall’orto dei Ronchetti, abbarbicandosi ai filari delle vicine viti del castello riuscisse a svilupparsi fin quasi a Besnate. Rivedo in particolare il Sig. Gaetano Alberio Ruel da Rovello Porro suo luogo di origine. Egli oltre a tenere negozio in via Cavour, dove serviva la sorella Annetta, per tutti noi zia Nèta, con l’ausilio di un indimenticabile motocarro stracarico di cassette di frutta, di mele di sacchi di patate con la indispensabile stadera per pesare, raggiungeva un vasto numero di affezionate clienti ad Orago, a Solbiate, ad Oggiona. A me in particolare colpiva quel suo mezzo da lavoro a tre ruote, dai colori bianco e azzurri, che grazie alla amicizia col figlio Massimo potevo ammirare fermo in quella che una volta fu la stalla del cavallo. Ci si sedeva con Massimo in sella ed aggrappati al grande manubrio ci si buttava, ora su un fianco, ora sull’altro per simulare curve da gran premio . Modulavamo il rombo del motore con la bocca e ingaggiavamo con la fantasia irripetibili tenzoni motociclistiche. Ma quando quel motofurgone si muoveva, alla guida del Signor Gaetano era di una potenza meccanica unica, equipaggiato com’era dal monocilindrico Guzzi. Esso, quando potenziava la versione da strada, si diceva sviluppasse ogni culp cinc metar cinque metri per ogni colpo di pistone, ma in versione da lavoro, come quella, trasformava il veicolo in un autentico mulo di ferro che niente avrebbe fermato tanto meno le nostre brevi ma toste salite. Anzi il diffondersi in valle del suo possente e inconfondibile rombo teso all’immane meccanica fatica dell’affrontarle, avrebbe sicuramente richiamate per tempo le numerose clienti. Altro ortolano, fu il Sig. Santino Cassani Santin, che aveva negozio di fronte alla chiesa di San Giorgio sull’angolo con via Mazzini, abilissimo nell’attrarre le clienti che uscivano da Messa Prima con la accattivante mostra di golose ceste di primizie. Amante di buona musica egli fu per lunghi anni il coordinatore ufficiale degli impegni della nostra banda, il glorioso Corpo Musicale S. Cecilia dalle 135 primavere . Sapendo di questo amore per il canto e della bonaria rivalità col Sig. Alberio, da ragazzi avevamo inventato sul refrain di  c ’est si bon, una nota canzone allora in voga,  questo ritornello oh c’est si bon– cunt cent franc tri limonul Santin ta na da dü- e ul Ruel vun da pù(oh c’est si bon- con cento lire tre limoni- Il Santin te ne dà due- e il Ruel uno di più). Oppure, quando si voleva far arrabbiare il Sig. Alberio “ Ul Ruel ta na da dü e ul Santin vun da pù.

Brano tratto da LE RICETTE DELLA NONNA Cucina, usi, espressioni, attività, feste religiose. Nella vita di un borgo dell’alto milanese tra il 1800 e il 1940 di Anselmo Carabelli con Enzo Riganti

Presentazione al pubblico del libro di Anselmo Carabelli con Enrico Riganti “Le ricette della Nonna”

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Riso alla jeraghese – piatto unico

Se si vuole fare un piatto unico con il riso proponiamo la preparazione proposta da mia mamma Carla indicata in “Jerago – Rassegna di vita cittadina” – settembre 1967.

Ingredienti per 5 persone:

  • Per la carne: fesa di vitello gr.500, burro gr 50, ½ bicchiere di marsala secco.
  • per il riso :gr.500 di riso , burro gr 50, cipolla.

Per la carne: si prepara la carne come per la ricetta della Cärna Picò

Cärna picò al marsala – fettine di carne battute col marsala.

Per il riso: cuocere 500gr.di riso in acqua salata per 16 minuti, scolaro e farlo rosolare nel burro già dorato dove sia stata soffritto un poco di cipolla.

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Suddividere il riso così ottenuto in 5 piatti. In ciascuno piatto praticare un incavo nel quale mettere le fettine di carne col relativo intingolo. Servire ben caldo.

Buon appetito!

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Luoghi caratteristici di Orago: il monumento ai caduti di Orago

I caduti oraghesi della Prima Guerra Mondiale
i caduti oraghesi della Seconda Guerra Mondiale

Il monumento e´sito nel centro di Orago, nel mezzo dell’aiuola posta in piazza Vittorio Veneto.

Come riportato, ai piedi del cippo commemorativo, è stato posizionato in loco il 16 Ottobre 1921, 3 anni dopo la fine della prima Guerra Mondiale e poi successivamente modificato, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, inserendo foto e indicazioni dei caduti e dispersi durante quest´ultimo conflitto.

Il monumento ricorda tutti gli oraghesi che sono caduti per difendere la Patria durante questi due conflitti mondiali.

I caduti della 1° Guerra Mondiale: Besnate-Jerago-Orago

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Castégn di firunatt 

fonte immagine: proverbimilanesi.blogspot.com

Premessa

I firunat erano gli ambulanti che, di paese in paese, rivendevano collane di castagne infilate su spaghi, ottime e dal costo proibitivo. Ancora oggi il prezzo di quelle ghirlande in mostra sulle bancarelle delle fiere dei Morti fa rabbrividire. Perciò in passato non si comperavano, ma si tentava la sorte pescando i numeri della tombola, da un sacchetto che il firunat portava sempre con sé. Frequentava i luoghi pubblici e andava là, dove era certo di trovare tanti bambini golosi o i loro nonni. Nelle domeniche autunnali mi capitò di vederlo all’Auditorium. Con 50 lire, che rappresentavano la mancia della domenica, si acquisiva il diritto di estrarre tre numeri dai 90 del suo sacchetto . Se la loro somma avesse superato 90 si perdeva se inferiore si vinceva la fila. E così, complice la fortuna qualche volta ci si prendeva la soddisfazione di assaggiarle rimanendone conquistati dalla bontà, ma era raro. Quel furbacchione i numeri bassi chissà dove li nascondeva!.

Qualcuno però tentò anche di produrre in casa quelle leccornie, con un sistema che permetteva anche di conservare le castagne per lungo tempo.

Ingredienti: castagne di bosco nella quantità disponibile, si scelgono solo le più belle.

Si cuociono al dente in poca acqua salata dove siano state messe alcune foglie di alloro. Si fanno raffreddare dopo averle scolate e  si asciugano in forno. Con l’uso di un ago da tappezziere, si infilano su uno spago sottile a modo di corona e si appendono un locale asciutto ed aerato.

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Cärna e patati a la nostra manéraCarne e patate a nostro modo

fonte immagine: farinespeciali.it

(Ricetta della Sig.ra Carla Cardani Magnoni)

 

Ingredienti: 600 gr. di spezzatino di manzo, 30 gr di burro, pancetta o lardo, cipolla o scalogno, spicchio d’aglio, mezza scatola di pelati o 2 cucchiai di salsa, brodo o 1 dado per brodo, 4 patate grosse, ½ bicchiere di vino rosso, salvia, pepe, noce moscata, prezzemolo. (Pelare le patate e farle a pezzetti, né piccoli né grossi).

 

In un tegame di bordo medio soffriggere con burro e pancetta o lardo a pezzettini il tritato di cipolla cui si aggiunge intero lo spicchio d’aglio, far rosolare bene, togliere l’aglio e aggiungere i pezzetti di carne a rosolare girandoli con un cucchiaio di legno fino a quando siano bene scuri. Annaffiare con vino e attendere che sia evaporato, aggiungere successivamente pelati o salsa, poi salvia 2 o 3 foglie, pepe una spolverata, una grattata di noce moscata, sale q.b. aggiungere acqua poca e far cuocere il tutto a pentola coperchiata per ½ ora a fuoco lento. Scoperchiare aggiungere le patate a pezzetti, acqua, dado o brodo fin quasi a coprire le patate, continuare la cottura a pentola coperta per circa 1 ora, verso la fine aggiungere un battuto di prezzemolo e controllare la salatura.

 

Nota:

Questo è il classico desinare che più cuoce meglio è, purché si presti attenzione al fuoco, che sia lento, per non rovinarne la confezione. Proprio per queste caratteristiche di lunga cottura, veniva anche preparato dalla Maséra durante la stagione invernale, in casa sulle famose stufe economiche o nella “calderina” circondata dalla brace del camino, mentre attendeva al duplice compito di tener calda la casa e cucinare per gli uomini che sarebbero tornati affamati pal “disnà”. La proporzione carne – patate era in funzione delle capacità di spesa della famiglia e quindi le patate abbondavano a scapito dei rari pezzi di carne.

Per altre ricette ed approfondimenti acquista il mio libro Varese Cucina. Sane, Gustose, Genuine, le tradizioni del Varesotto:

https://www.macchionepietroeditore.it/scheda_Varese-Cucina-Sane-Gustose-Genuine-le-tradizioni-del-Varesotto-di-Anselmo-Carabelli_5-44-0-0-0-0-1-1-10-1-452.html

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Luoghi caratteristici di Jerago: la chiesa di San Rocco

Riportiamo alcune foto recenti della Chiesa di San Rocco

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L’altare
la Madonna del Carmine
Madonna con Bambino dormiente – d’apres Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato

Chiesa di San Rocco: nuovo quadro di Maria con Bambino Dormiente

San Carlo Borromeo
Mobiletto che quando aperto rivela il Registro presenze confratelli S.S. Sacramento
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Luoghi caratteristici di Jerago: i boschi al confine con Quinzano e Besnate

E’ bello in autunno raccogliere castagne e passeggiare per i tanti boschi che circondano Jerago con Orago.

La nostra proposta di passeggiata parte dalla curva delle case popolari (strada contigua Gallotti) direzione la cappellina della Madonna del riposo, voluta e fatta edificare in anni recenti dal compianto Gigi Turri, già presidente della Pro Loco di Jerago con Orago.

E’ un luogo di assoluta pace, che invita alla preghiera e alla contemplazione, sito in una radura in mezzo ai boschi ai confini con Quinzano e Besnate.

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In passato (prima del Covid) si svolgevano in estate anche delle celebrazioni eucaristiche con successivo pranzo in loco.

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Il percorso per giungere fin qui è abbastanza facile, svoltando a destra al primo bivio che si incontra camminando lungo la strada che parte dalla concessionaria Gallotti. Visitata la cappellina, si può poi proseguire in direzione della zona commerciale di Besnate (ove è sito il supermercato Tigros, per intenderci) o, alternativamente, dirigersi verso i boschi di Quinzano e poi ritornare a Jerago passando per Albizzate (zona Mirasole).

Anello del Laghetto di Menzago

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Dal Tigros di Besnate consigliamo invece il ritorno a Jerago attraverso la via Castello, più agevole e meno trafficata e pericolosa della provinciale di collegamento tra Jerago e Besnate.

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Buona passeggiata!

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Cärna picò al marsala – fettine di carne battute col marsala.

Fonte immagine: la cucinaitaliana.it

Premessa:

Il marsala è l’ingrediente base per la ricetta. Questo anticamente arrivava in botticelle di legno, riutilizzate per fare l’aceto casalingo, che ci venivano spedite direttamente dalla Sicilia alla stazione di Cavaria. Le si vedevano in bella mostra allineate sullo scalo merci a fianco di botti più grosse che dovevano contenere il vino da taglio. Ricordo il sigillo apposto sui tappi a garantirne la non avvenuta manomissione: tre piedi con relative gambe unite in raggiera triangolare, che poi scoprii essere il simbolo della antica Trinacria.

 

Ingredienti :

per 5 persone : fesa di vitello gr.500, burro gr. 50,  ½ bicchiere di marsala secco, farina 00.

Tagliare la fesa in fettine da gr.25 circa ciascuna, batterle col pestacarne, infarinarle leggermente e farle rosolare da ambo le parti nel burro già dorato servendosi di un tegame largo di basso bordo. Aggiungere poi ½ bicchiere di marsala secco allungato con ½ bicchiere di acqua: coperchiare il tegame e lasciare cuocere a fuoco basso per ¾ d’ora circa aggiungendo, se occorre, un po’ di brodo o acqua calda per avere sempre un buon intingolo. Salare in giusta misura. Servire ben caldo in piatti possibilmente caldi.

Fonte immagine: Martinez.it
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Crustini cunt a nilza– Crostini con la milza

fonte immagine: cookidoo.it

Premessa

Questo piatto è toscano ed era il piatto preferito da mia nonna e così mi par giusto farlo conoscere. Ringrazio la signora Antonietta Vendramin – Cova, che me lo ha recuperato.

Ingredienti: 1 milza di vitello, il fegato di un gallo, il cuore, il pardè durello, 4 acciughe sotto sale, 60 gr di burro, olio, pane all’olio raffermo. Un poco di vino bianco .

Si preparano le acciughe lavandole e  si preparano in filetti disiliscati. Si pone la milza sull’asse, la si taglia a metà e con un coltello, si spreme dal suo sangue e dal suo contenuto rappresi raccogliendoli in un piatto, la parte muscolosa che avanza la si dà al gatto. Si macinano cuore e durello, avendo cura di scartare del durello la parte fibrosa (il durello è lo stomaco a muscolo che serve alle galline per sminuzzare le granaglie), si sminuzza il fegato e lo si lascia in un mucchietto, si sminuzzano le acciughe e le si lasciano in mucchietto. A parte si taglia il pane, come se fosse un salame, in fette di circa un centimetro.

In una padella antiaderente, bassa, si fa sciogliere il burro e si aggiunge il trito di cuore e durello e li si fa cuocere per 10 /15 minuti a fuoco lento, per non consumare il condimento si continua a girare col mestolo di legno. Dopo si aggiunge il fegato con un poco di olio e se fosse necessario un poco di burro, dopo 5 minuti si aggiunge il pestato di acciughe. Se il composto si fosse asciugato troppo si bagni con uno spruzzo di vino bianco senza eccedere. Si faccia cuocere ancora per cinque minuti e si aggiusti di sale. A questo punto si avrà un composto finale i cui sapori non si sono ancora ben amalgamati. Il tutto deve risultare una pasta di colore marrone testa di moro molto omogenea e non unta. Si spenga il fuoco e con la lama di un coltello si spalmi la pasta sulle fette di pane o crostini, le si dispongano su un grosso piatto di portata. Si mettano a riposare in luogo asciutto (anche all’interno del forno spento).

Saranno buoni da servire almeno dopo 8 ore dalla preparazione. E vanno mangiati tutti nella giornata successiva senza conservarne.

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Rüsumò – Rüsumada

fonte immagine: lacucinaitaliana.it

Ingredienti: 1 rosso di uovo, 3 o 4 cucchiai di zucchero, vino rosso.

In una scodella si mette il rosso dell’uovo, si gira con un cucchiaio di legno aggiungendo 3 o 4 cucchiai di zucchero, si spruzza di vino rosso fino a raggiungere la consistenza di una crema, che si ottiene non appena lo zucchero si sarà sciolto.

Molto energetica.